Lavoro Italiano - Editoriali  - Antonio FOCCILLO
I dubbi della Cgil
Il numero di novembre 2017
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03/12/2017  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

Gli anni ci hanno mostrato come ogni qualvolta bisogna prendere una scelta di cambiamento o bisogna raggiungere un accordo nei pressi di una campagna elettorale, la Cgil si fa prendere dall’ansia di dover fare quella scelta o concludere quell’accordo e nel suo corpo esplode l’anima massimalista. L’emblema di questa indole, nei momenti più recenti della storia del movimento sindacale, fu nella persona di Fausto Bertinotti, che si glorificava di non aver mai sottoscritto un accordo. Questo è solo un esempio del recente che non smentisce quello che è sempre avvenuto nel passato. Il passato, infatti, è testimone dell’eterna lotta tra massimalismo e riformismo.

 

Già all’epoca di Filippo Turati, agli inizi del secolo scorso, si respirava nell’aria questo scontro.

 

Nel corso degli anni diverse figure di spicco del socialismo ci hanno mostrato come questa disputa fosse ben viva sia nel movimento sindacale sia nella politica.

 

Turati sosteneva che lo Stato doveva essere democratico e ammodernato, “cercando di renderlo in qualche modo permeabile alla influenza diretta dei lavoratori, attraverso la formazione di corpi consultivi (come il Consiglio superiore del lavoro) dove erano chiamati a far parte anche i rappresentanti delle organizzazioni sindacali (1)”. Quanta modernità nel suo pensiero. Di Turati, però, mi piace ricordare una bella descrizione del suo profilo fatta da Giovanni Spadolini, che scrive: “è stato detto, e non a caso, che la malattia eterna del Socialismo ha avuto sempre e solo un nome: il massimalismo. Contro questa malattia, che si presenta in forme ogni volta diverse, Filippo Turati spese tutta la sua vita, prodigò tutte le sue energie; e quella lotta toccò le sue punte più aspre proprio negli anni dell’immediato dopoguerra, allorché la demenza massimalista trasse forza dai fermenti e dalle inquietudini maturate durante la guerra, da quell’improvviso e insondabile sconvolgimento che il conflitto mondiale aveva provocato, scardinando tutte le vecchie gerarchie, sovvertendo tutte le tradizionali tavole dei valori (2)”. Si trattava della violenza rivoluzionaria, la quale era incompatibile con l’essenza vera del socialismo. “Erano, infatti, i tempi della dura lotta al sindacalismo rivoluzionario, risoltasi positivamente per i riformisti dopo la Fondazione della Confederazione Generale del Lavoro (3)”. Per il socialismo, ciò che contava era il moto lento ma sicuro del proletariato verso l’emancipazione economica e politica, attraverso la conquista democratica del consenso e dello sviluppo.

 

Altra figura sintomatica del passato in questo contesto fu Bruno Buozzi, uno dei maggiori esponenti dell’ala riformista del sindacato. Per Giorgio Benvenuto (4): “Buozzi consegna alla storia l’immagine del sindacato riformista proiettandolo oltre gli schematismi per i quali il riformismo è solo ‘metodo’ o rifugio del ‘quotidiano’ e, quindi rifiuto più o meno consapevole di visioni strategiche. Non ha mai confuso il realismo con la rinuncia. […] Il riformismo è strumento particolarmente adatto per epoche di transizione dove gli interrogativi sommergono le vecchie certezze, dove i nuovi ideali non hanno ancora il passo dell’attualità (5). […] Buozzi, avversario dei settarismi e degli ideologismi, indica una lezione di vita e di impegno politico che va meditata (6)[…] il riformismo di Buozzi non era un riformismo che poteva essere considerato il parente povero di altre tradizioni. Forse è questa anche una delle ragioni per cui una coltre di silenzio è caduta su questa straordinaria figura politica. Rivalutare Buozzi per il peso reale, per la statura notevolissima, per l’influenza che ha avuto effettivamente nel movimento sindacale significa rivisitare criticamente tante pretese supremazie, una fra tutte quella del massimalismo (7)”. Leo Valiani, a un convegno organizzato dalla Uil negli anni ottanta, ricordò Buozzi così: “vedeva il socialismo in termini assai moderni, come razionalizzazione dell’economia…ma giungere a questo traguardo non attraverso catastrofi, ma attraverso un lavoro graduale di conquiste successive che abilitano la stessa classe operaia sempre di più ad avere la sua parte direttiva in un’economia razionalizzata in questo senso socialista…una rivoluzione, quella socialista, non più necessariamente violenta ma democratica, gradualistica che avesse il suo fulcro nella convocazione di un’assemblea costituente (8)”.

 

Purtroppo Buozzi fu assassinato dai nazisti, fucilato tra la notte del 3 e la mattina del 4 giugno 1944, insieme ad altri tredici prigionieri in località La Storta, sulla via Cassia, a pochi chilometri da Roma.

 

Nel dopoguerra, precisamente nel 1950 si ampliarono di nuovo le divisioni all’interno del sindacato fra le due aree di pensiero e ciò portò all’uscita dall’unica organizzazione sindacale di allora di due delle sue componenti. Il contrasto nacque a seguito dello sciopero generale proclamato per l’attentato a Togliatti. È così che nacquero la Uil e la Cisl.

 

Le differenze di valutazione e di azione fra l’area riformista e l’area massimalista riguardavano il ruolo partecipativo del sindacato nelle scelte di politica economica, considerato un’utopia di pochi e mai accettato dalla parte più estremista del movimento.

 

Questo tema ancora una volta si scontrava con la distanza delle strategie delle tre organizzazioni sindacali: da una parte il conflittualismo massimalistico, finalizzato al legame ideologico con il partito, in cui il sindacato, è considerato una vera e propria cinghia di trasmissione del partito; dall’altra l’enfatizzazione della contrattazione come unica strategia sindacale, con l’obiettivo di ottenere risultati attraverso “lo scambio”; da una terza, il sindacato partecipativo, unico in grado di legare le scelte di politica macroeconomica con quelle microecomiche attraverso relazioni industriali partecipative e concertate.

 

Un altro esempio di questo conflitto si ebbe, poi, nel 1954 con la vertenza sul cosiddetto “conglobamento” per l’unificazione dei vari elementi che costituivano allora la retribuzione. Si concluse un accordo separato fra Confindustria, Cisl e Uil. Oggi si potrebbe dire che tutte e due le posizioni, fra chi aderì e chi non lo fece, risultano poco convincenti.

 

La Cgil, infatti, cercava di far fronte all’esigenza di rompere il blocco salariale utilizzando la vertenza conglobamento, cioè uno strumento del tutto inadeguato. La Cisl e la Uil non tenevano adeguato conto della spinta salariale e, con l’impostazione data alla vertenza, rinviavano ad altri momenti la soddisfazione di un’esigenza pressante manifestata dalle classi lavoratrici.

 

Qualcosa si mosse nel 1962. Il governo di centro-sinistra, con l’allora Ministro del Bilancio, Ugo La Malfa, presentò al Parlamento una “Nota aggiuntiva” alla “Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese” dell’anno precedente. La Malfa, in quell’occasione, chiese ai sindacati di graduare le rivendicazioni in modo da non indebolire il raggiungimento degli obiettivi del programma. In cambio della “responsabilità” e della moderazione dei miglioramenti salariali, il Governo offriva ai lavoratori come parte di uno scambio politico: la compartecipazione alle riforme. Egli sostenne: “I sindacati possono, decisamente contribuire alla ricerca del miglioramento delle condizioni dei lavoratori che provenga soltanto in parte dall’aumento dei salari e si fondi per il resto su altre forme di aumento del reddito reale, buone scuole, aperte alle giovani generazioni, migliore assistenza medica, minore tempo e minore spesa tra casa e luogo di lavoro (9)”. Per questo, La Malfa, costituì la commissione di programmazione con la rappresentanza diretta dei sindacati, per coinvolgerli nel disegno riformatore del centro sinistra e farli partecipare alle scelte di piano, responsabilizzando la loro azione rivendicativa e coordinandola con gli obiettivi di programma. Egli riteneva che, in tal modo, non si sarebbe costituita nessuna limitazione della libertà rivendicativa dei sindacati, ma solo un’autonoma limitazione delle richieste, decisa liberamente al tavolo della programmazione, nella misura necessaria a rendere la dinamica delle retribuzioni compatibile con la politica delle riforme. Ciò allo scopo di consentire una crescita economica bilanciata e senza inflazione, condizione indispensabile per l’attuazione del piano e per la soluzione degli squilibri (10). La Cgil all’inizio si dimostrò favorevole poiché aveva proposto “il piano d’impresa”. Successivamente, però, abbandonò il piano d’impresa e si mise all’opposizione. La Cisl, in quel periodo, in verità, più che alla democrazia industriale, era interessata ad un ruolo sindacale di mera politica di contrattazione. Senonché anche nella Cisl ci fu un ripensamento, che sfociò nella proposta di un’azione sindacale di confronto sulle politiche economiche, cioè la “politica dello scambio”.

 

“Posta nei termini di una compressione dei salari, la politica dei redditi non poteva essere accolta dai sindacati, anche se il dissenso fu articolato diversamente e non sempre riferito correttamente all’intera attività di programmazione globale a medio termine dell’economia italiana. Non mancarono per altro verso le pressioni dei partiti, a seconda che facessero parte del governo o stessero all’opposizione. I veti del Pci, ad esempio, influirono pesantemente sulla Cgil che seguì la scelta dell’opposizione allo scopo di escludere ogni coinvolgimento della Confederazione nell’elaborazione del programma, in contrasto con la linea della Cisl e della Uil. E tuttavia l’atteggiamento della Cgil non fu di netta chiusura (11)”.

 

La UIL, dal canto suo, rimase convinta della validità della proposta governativa, poiché quella strategia di responsabilità e partecipazione l’aveva nel suo Dna.

 

L’ostilità al Governo, esistente in parte del sindacato, si sommò a prevalenti fattori oggettivi e fu importante anche l’avversione della Confindustria, a cui si aggiunsero le contestazioni di settori della cultura laica e cattolica, che consideravano sbagliata la possibilità di concertazione fra le parti, in quanto, la ritenevano un esperimento di natura neo corporativa, che sottraeva responsabilità e autonomia agli organi costituzionali (Governo e Parlamento), unici soggetti che avevano le responsabilità sulle scelte di politica economica.

 

Ennesimo episodio di rottura fra le diverse anime nel movimento dei lavoratori si ebbe sulla cosiddetta “piattaforma dell’Eur”, nella quale si sceglieva la strada della condivisione del sindacato di necessarie strategie di espansione produttiva (12). Esse erano considerate le uniche in grado di garantire sbocchi occupazionali e produttivi e, inoltre, di rispondere ai bisogni sociali primari, come quelli della casa, dei trasporti, della sanità, della previdenza, e di operare nel territorio con un piano di iniziative indispensabili ai più generali interventi agro industriali e dei servizi sociali. Questo passaggio del sindacato, dall’antagonismo conflittuale alla partecipazione, fu considerato dalla Cgil solo tattico e fece nascere, proprio in concomitanza con la svolta del Pci, che prospettò il “compromesso storico” quale unico modo per uscire dalla grave crisi del Paese, una vivace polemica sul presunto ruolo moderato del sindacato. I massimalisti accusavano i riformisti di usare il movimento sindacale in modo subordinato a disegni strategici diversi da quelli che gli erano propri, con la conseguenza di dare, di fatto, una delega ai partiti e al quadro politico sulle questioni sociali, facendo così venire meno l’autonomia del sindacato.

 

Passano gli anni e il dibattito sindacale, ancora una volta, diviene conflittuale focalizzandosi sull’esigenza di porre un freno alla scala mobile. Affrontare questo tema non fu facile, per le opposizioni in molti settori del mondo del lavoro a qualsiasi modifica di un automatismo che garantiva i salari dall’inflazione. Anche se, nel movimento sindacale, si andava sempre più diffondendo la necessità di combattere l’inflazione, quale elemento perverso di falcidia del potere di acquisto di salari e pensioni.

 

La Uil e la Cisl, in cambio della disponibilità a rivedere il meccanismo, chiesero un intervento efficace per aumentare l’occupazione, controllare i prezzi e le tariffe e una compartecipazione alle scelte economiche. Il percorso non fu agevole, per mancanza di un accordo completo fra i tre sindacati e per mancanza di sintonia da parte delle stesse forze politiche con questi processi di cambiamento. Luciano Lama, dopo un’iniziale opposizione all’ipotesi della UIL, aprì uno spiraglio alla discussione sul freno alla scala mobile ma nelle fabbriche prevalse la linea dura che mise in discussione anche le regole della democrazia sindacale e le assemblee divennero una palestra di demagogia. In questo clima pesante si avviò, nel luglio 1980, la consultazione dei lavoratori sulla piattaforma dei “dieci punti”, che registrò le più accese proteste sulla parte riguardante il fondo di solidarietà. Tale meccanismo prevedeva un contributo dello 0,50% da prelevare nelle buste paghe e da destinare alla solidarietà per i lavoratori costretti ad uscire dal ciclo produttivo. La sinistra extraparlamentare accusò il sindacato di aver accettato la politica congiunturale del Governo e criticò il prelievo forzoso, perché in contraddizione con il principio della solidarietà; inoltre non ne condivideva la finalizzazione, perché avrebbe cambiato anche il ruolo del sindacato, in quanto si intravedeva, per lo strumento proposto, una funzione cogestionale e partecipativa dello stesso. Il 14 luglio, tuttavia, il direttivo unitario approvò il fondo di solidarietà ed espresse un giudizio “non negativo” sulle misure del Governo.

 

Altro momento particolarmente critico nella vita delle confederazioni fu lo scontro c.d. di S. Valentino, quando nel 1984 il governo Craxi per abbattere l’inflazione propose il taglio di alcuni punti di contingenza. Il Governo, nel frattempo, con Spadolini prima e con Craxi poi, ridusse notevolmente l’inflazione portandola dalle due cifre di prima ad una.

 

Il 15 dicembre allo sciopero generale di 9 ore in Liguria, Giorgio Benvenuto, intervenuto in nome della federazione unitaria, non riuscì a finire il comizio e fu l’ennesimo caso che esasperò i rapporti fra le confederazioni. Il 13 Gennaio del 1983 a Bologna, Agostino Marianetti, segretario aggiunto della Cgil, fu duramente contestato durante un comizio, innescando ulteriori polemiche fra la Cgil comunista, Cisl, Uil e socialisti Cgil. Contrasti che si accentuarono sempre di più e portarono addirittura alla rottura della federazione unitaria. Per questo ogni organizzazione consultò singolarmente i propri iscritti e si attrezzò per rispondere alle autoconvocazioni e agli scioperi spontanei che divisero ancora di più il sindacato. Il dibattito si infiammò, mentre Uil, Cisl e i socialisti della Cgil concordarono con le misure proposte dal governo Craxi, il resto della Cgil le respinse con forza e alla fine si andò ad un referendum, voluto in particolare dal Pci, che spaccò ulteriormente il sindacato perché la Cgil diede vita ad una campagna elettorale denigratoria nei luoghi di lavoro nei confronti della Uil e della Cisl. Il referendum del giugno 1985 fu vinto da chi sosteneva l’accordo con il Governo.

 

La scala mobile venne, poi, definitivamente soppressa con la firma del protocollo triangolare di intesa tra il Governo Amato e le parti sociali avvenuta il 31 luglio 1992.

 

Gli anni passavano ma le dinamiche descritte rimanevano sempre quelle.

 

Con la nascita del primo Governo Berlusconi, nel 1994, si accentuò la contrapposizione dialettica e i rapporti fra Uil, Cgil e Cisl si complicarono, perché Sergio Cofferati, segretario generale Cgil, alimentò una forte azione unilaterale contro la possibilità di un accordo con il Governo sulle tematiche relative alla politica economica. La situazione non cambiò con il secondo Governo Berlusconi, infatti, il 31 maggio 2002, Uil e Cisl firmarono un verbale d’intesa per avviare una fase di concertazione sul tema della politica dei redditi e di coesione sociale. La Cgil si dichiarò contraria. Il tono della contrapposizione si fece duro, l’opposizione, considerò quell’accordo sindacale come l’accettazione acritica della politica economica del Governo. Si scomodarono, impropriamente, anche i sacri testi e le differenze fra massimalismo e riformismo, ma il problema che, ancora una volta, emerse, riguardava il ruolo del sindacato e la sua autonomia rispetto alle scelte della politica governativa in una situazione, per la prima volta diversa del passato, cioè il sistema bipolare. Fu avanzata la tesi che, con la firma di questo accordo, si fosse addirittura cambiata natura al sindacato. Si tralasciava, però, di considerare che il confronto era nato dalla proposta governativa di eliminare l’art. 18 e di ridurre il peso del sindacato, obiettivo per il quale il Governo aveva già presentato alcuni disegni di legge, pronti per essere approvati se non si fosse sottoscritto quell’accordo. Proprio grazie alla firma dell’accordo da parte di Uil e Cisl, infatti, fu scongiurata l’eliminazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

 

Non finisce qui! Nel 2010 la storia dell’eterna lotta tra massimalismo e riformismo si ripropose nella vicenda che riguardava lo stabilimento FIAT di Pomigliano. Si siglò un contratto che divenne l’unico vincolante per il gruppo FIAT e l’unico a stabilire le regole di rappresentanza aziendale. La firma di quel contratto permise, non solo di riconoscere un incremento salariale ma soprattutto di salvare posti di lavoro, ponendo le basi per la riassunzione dei lavoratori in cassa integrazione. Lo firmarono tutte le principali sigle del settore metalmeccanico ma non FIOM. Ancora una volta a sterili proteste massimaliste si contrapponeva il senso di responsabilità riformista di chi voleva salvaguardare i lavoratori. Quali furono le conseguenze di quella mancata firma? Venne preclusa la costituzione di RSA ai lavoratori iscritti alla FIOM. Solo dopo una serie di ricorsi giudiziari che lamentavano la lesione dei diritti sindacali dei lavoratori, nel 2013 la Corte Costituzionale dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 19 “nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”.

 

Arriviamo ai giorni nostri. Oggi sulle pensioni si palesa la nuova divisione dopo che sia la piattaforma sindacale e sia il confronto con il governo sono avvenuti su posizioni unitarie.

 

Come abbiamo visto in questo rapido excursus storico, i riflessi di questa ripetuta “non scelta” della CGIL rischiavano, in preda ai bizantinismi, solo di far imboccare una via di rottura e isolamento. Purtroppo nel sindacato, il massimalismo il più delle volte non ha voluto cogliere a pieno le potenzialità che sempre riserva un accordo. Un sindacato, nel corso di una trattativa in cui non condivide una posizione o il merito di una proposta, deve sforzarsi di trovare le modifiche opportune, altrimenti indebolisce l’opera di mediazione propria del suo ruolo di negoziatore, senza la quale viene meno proprio alla sua funzione. È necessario un grande impegno anche culturale per rigenerare una politica democratica, nella quale antichi valori possono essere riaffermati. E quali se non il riformismo e la laicità? Il sindacato può assumere questo compito. Deve ridiventare soggetto politico per ridare voce alla società e al mondo del lavoro e deve diventare indispensabile e insostituibile nella politica riformista. E come deve farlo?

 

Un sindacato riformista si pone l’obiettivo di risolvere i problemi dei lavoratori e di tutti i cittadini in generale, migliorandone gradualmente le condizioni sociali, tramite un esercizio responsabile e laico del proprio ruolo che non si limiti alla mera contestazione ma che sia propositivo e quindi partecipativo nelle scelte economico - sociali di un Paese.

 

L’azione riformista ripudia la rivoluzione e la mera conservazione dell’esistente ed interviene a governare il mutamento sociale quando questo non si ispira alla giustizia come equità. Mira alla ricerca del benessere all’interno della società con politiche di inclusione e di vera emancipazione delle persone, attraverso modifiche democratiche dell’ordinamento politico, giuridico, sociale ed economico. Oggi, come ieri, servirebbe una nuova classe politica che ripristini una mediazione vera con le componenti sociali, che si contrapponga agli interessi economici finanziari e sia in grado di assicurare le garanzie di una democrazia partecipata e condivisa. Per questo l’impegno a tutti i livelli deve essere rivolto a ricercare soluzioni di dialogo fra le diverse componenti sociali e politiche. Questo solo un sindacato riformista lo può fare!

 

La relazione contrattuale non potrà certo venir meno, ma dovrà iscriversi all’interno di una azione di rilancio della funzione storica del sindacato confederale. Quest’ultima non è quella di rappresentare limitati interessi corporativi e settoriali del mondo del lavoro bensì quella di esser riferimento dell’intero equilibrio socio-economico, determinando una politica economica diversa, anche d’inserimento e di partecipazione del lavoratore a tali processi di cambiamento.

 

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1 M. Degl’Innocenti, 1995, Filippo Turati e la nobiltà della politica, cit. pag.137, ed. P. Lacaita.

2 G. Spadolini, 1972, Gli uomini che fecero l’Italia, ed. Longanesi.

3. M. Degl’Innocenti, 1995, Filippo Turati e la nobiltà della politica, cit. pag.150, ed. P. Lacaita.

4 G. Benvenuto, già segretario generale della Uilm e della Uil; segretario del partito socialista, Senatore e oggi presidente della fondazione B.Buozzi.

5 Ibidem, cit. pag. 9.

6 Ibidem, cit. pag. 13.

7 Ibidem, cit. pag. 14.

8 S, Roazzi, 2004, Buozzi, i cattolici e l’unità sindacale, cit. pagg.132 e 133, in Bruno Buozzi, ed. Data ufficio, Roma.

9 Dalla Nota Aggiuntiva di La Malfa, presentata al Parlamento il 22 maggio del 1962. Dalla Raccolta Atti Parlamentari. La ristampa (1980) a cura della Fondazione Ugo La Malfa di una prima edizione datata 1973 edita dall’Edizione Janus.

Vedi anche il libro di Antonio Foccillo “La politica dei redditi: utopia, mito o realtà”, nell’appendice il documento è a pag. 163 e ss.

10 F. Peschiera, 1983 - Sindacato Industria e Stato negli anni del centro sinistra. Storia delle Relazioni industriali in Italia dal 1958 al 1971, Firenze, Le Monnier; G. Tartaglia, 1984 - Dal corporativismo allo sviluppo: 50 anni di politica economica in Italia: l’azione di Ugo La Malfa - Roma, ed. della Voce.

11 Antonio Foccillo, 2007, La politica dei redditi: utopia, mito o realtà?, cit. pag. 172, Lavoro Italiano, Roma.

12 A. Foccillo, 2010, La politica dei redditi e la sua giuridicità, cit. pagg. 37 e ss., ed. Aracne, Roma.