Lavoro Italiano - EDITORIALI  - Antonio FOCCILLO
La Democrazia in crisi
Il numero di settembre 2017
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03/10/2017  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

In questi ultimi tempi, da varie parti, ci si interroga sullo stato di salute della democrazia. Il termine democrazia è una parola abusata e dietro di essa spesso si nascondono tante involuzioni, proprio a partire dalla democrazia greca che chiamava tutti i cittadini alla partecipazione diretta e attiva nell’assemblea generale e, a rotazione o mediante sorteggio alle cariche di governo o giudiziarie. I romani, invece, inventarono il concetto di repubblica che per certi versi assomigliava all’idea greca di democrazia, perché ne condivideva molti presupposti, mentre per altri se ne differenziava e si contrapponeva. Da sempre, la convinzione più largamente diffusa, almeno nel mondo occidentale, è che la democrazia, cioè il governo di molti, sia preferibile alle forme politiche oligarchiche.

 

La moderna teoria politica di democrazia prevede la divisione del potere in tre ordini principali: legislativo, esecutivo e giudiziario, cui si aggiunge la teoria della rappresentanza, cioè la delega dell’esercizio del potere a dei rappresentanti.

 

Nel secolo XIX la discussione e la concreta esperienza politica portarono all’opportunità di ancorare la democrazia o all’idea di libertà e di rappresentanza o all’idea di uguaglianza. Prevalse la prima ipotesi. Così il diritto di voto, originariamente ristretto ad una esigua classe di cittadini, selezionati principalmente in base al censo, si estese in modo costante verso la totalità dei cittadini (suffragio universale), accrescendo il pluralismo delle assemblee e degli enti che partecipavano al processo democratico.

 

Sosteneva Saragat, nel dibattito pre-costituente, nel fondare il Partito Socialista dei lavoratori italiani, nel 47: “la democrazia non è altro che la partecipazione attiva, continua, di tutto il popolo alla vita politica… Noi intendiamo per democrazia politica la partecipazione di tutti i militanti non solo all’organizzazione del partito, ma all’elaborazione delle linee fondamentali che orientano l’azione comune. (1)”

 

Nelle varie forme di Stati democratici, con la divisione dei poteri, si sono poi strutturati vari pesi e contrappesi, allargando anche forme di rappresentanza. In Italia, per far sì che il popolo potesse esprimere la sua partecipazione alla vita politica sono stati costituzionalizzati i partiti e i sindacati.

 

Oggi, purtroppo, tutto il sistema di rappresentanza sta attraversando una crisi di legittimità, che si esprime nell’apatia e nella non partecipazione politica. Questo è il sintomo evidente di un rifiuto e di una mancanza di fiducia in tutta la classe politica, che viene progressivamente delegittimata dal crescente aumento dell’astensione dal voto. Tutto ciò è dovuto a molte cause, compresa la strategia di reprimere la partecipazione dei vari soggetti della democrazia, che non sono più ritenuti portatori di interessi diffusi, ma vere e proprie palle al piede che frenano le decisioni dell’uomo solo al comando. Invece, come sostenne Noberto Bobbio: “l’elezione per essere democratica deve essere regolata in modo da permettere l’espressione del dissenso, ed è per questo che la regola aurea delle decisioni democratiche è la regola della maggioranza, non quella dell’unanimità, che se fosse richiesta per una votazione di un numero elevato di persone … renderebbe impossibile qualsiasi decisione. (2)”

 

Mentre, oggi, Gustav Zagrebelsky sostiene: “la democrazia delle larghe basi voluta dalla Costituzione è stata sostituita da un regime guidato dall’alto dove si coagulano interessi sottratti alle responsabilità democratiche. L’informazione si allinea; la vita pubblica è drogata dal conformismo; gli intellettuali tacciono; non c’è alcuna alternativa alle elezioni, pur se e quando esse si svolgono e se alternative emergessero dalle urne, sarebbero provenienti da fuori (istituzioni europee, Fondo Monetario Internazionale, grandi fondi di investimento) (3)”.

 

L’evoluzione o meglio l’involuzione della democrazia e della rappresentanza ha inizio dai partiti di massa che sono passati, dal sistema di contatto strutturato con la propria base elettorale di cui percepivano velocemente le necessità e ne elaboravano soluzioni e strategie politiche, a privilegiare progressivamente l’esclusivo interesse personale, che ha prodotto casi di corruzione sempre più evidenti, provocando la crisi del sistema.

 

La rivoluzione ideologica conservatrice, attraverso varie imposizioni, dalla riduzione della sovranità degli Stati alla criminalizzazione dei partiti e con l’introduzione di parole come globalizzazione, deregulation, mercato, competizione, per poter affermare la politica di finanziarizzazione dell’economia, ha privato d’interessi valori cardine quali espressione del popolo sovrano, ovvero il principio di libertà, di indipendenza e di uguaglianza (posta a difesa della sua pari dignità) e sono diventati subordinati al “mercato”. Il principio generale di libertà è stato interamente assorbito dal principio di libertà economica, che è stato assunto a modello ideologico generale di tutta la società. Ne è nata una crisi, la più devastante e lunga nella storia dell’occidente.

 

In Italia, in questi ultimi anni, in contemporanea si è affermata una concezione plebiscitaria della democrazia che non si limita a determinare l’allentamento o l’aggiramento dei vincoli costituzionali, ma parallelamente, innesca anche una dissoluzione della dimensione politica della rappresentanza, che viene di fatto svuotata dalla deriva populista, con il risultato di definire il quadro di una radicale crisi della democrazia italiana.

 

Una crisi della democrazia che è il risultato del graduale ed inesorabile depotenziamento dei corpi intermedi e in particolar modo dei partiti, quali case della partecipazione e della condivisione – democratica - dal basso nelle scelte e nelle proposte da perorare per migliorare le condizioni sociali dei cittadini diretti interessati. È venuto a mancare quel processo democratico alimentato dal confronto tra idee, che portavano, nella loro sintesi e mediazione, alla linea d’azione da seguire. Questo consentiva alle persone di sentirsi parte integrante e soprattutto incisiva nelle sorti delle diverse realtà territoriali, da quelle locali a quelle nazionali.

 

Un senso di appartenenza che si è eclissato con l’attacco sferrato ai partiti proprio da chi vedeva in tanta partecipazione “reale” e coinvolgimento fattivo una minaccia alle logiche - “virtuali” e “immateriali” - della finanziarizzazione economica globale. Ma non solo! Oltre al venir meno di quel senso di appartenenza, si è diffuso un sentimento di scoraggiamento anche nella volontà di riconoscersi in quelle che si definivano ideologie, che mano a mano hanno perso valore agli occhi delle persone. Forse perché si sono viste abbandonate da partiti considerati sempre più come lontani e disinteressati ai bisogni giornalieri della gente.

 

Esigenze quotidiane primarie, finanche costituzionalmente tutelate, come la casa, l’occupazione, l’assistenza sociale, la sanità, la previdenza, sono passate in secondo piano in nome del pareggio di bilancio, del debito pubblico, dello spread. Questo testimonia null’altro che una politica che ha perso ruolo ed è divenuta succube di numeri che nulla più hanno a che fare con quella che è l’economia reale di una società, ossia il suo benessere. Il tutto come se l’economia si ponesse su un altro piano rispetto alle condizioni di vita di chi ne fa parte. Eppure la storia ci ha insegnato come un intero Paese si potesse risollevare da una disastrosa crisi economica grazie a interventi della politica in grado di rilanciare i consumi dei suoi consociati e in grado di porsi l’orizzonte del perseguimento di un vero stato sociale che affiancasse i suoi cittadini e li emancipasse.

 

In questo scollamento dalla comunità, troviamo le radici del disamore, del disinteresse, della disaffezione, della sfiducia, se non anche del disprezzo della politica. Qui si annidano le spinte populiste ed estremiste che stanno ottenendo tanti consensi alle urne e tanta preoccupazione dai partiti tradizionali.

 

Da ultimo il voto in Germania, che ha dimostrato ancora una volta come il malumore verso le politiche neoliberiste dominanti sia sentito e come si cerchino risposte in chi punta il dito contro la classe governante odierna. Le analisi del voto ci dicono che in Europa, e non solo, sta crescendo sempre più l’animo dell’antipolitica, una panacea dei mali creati da una politica che ha ammainato i suoi vessilli, divenendo responsabile dell’incremento delle emarginazioni e delle diseguaglianze sociali. Ma tutto questo a cosa ci sta portando?

 

La congiuntura economico – politica che viviamo sta dando fiato all’antipolitica al posto della politica, allo slogan (o ancor peggio al tweet) in luogo dello scambio di opinioni, alla xenofobia a discapito della solidarietà, alla costruzione di muri dove sorgevano ponti, al prevalere del decisionismo dei pochi sulla sintesi frutto della mediazione tra diverse anime ed esperienze politiche. La distorsione sistematica dei fatti e dei loro significati per opera della demagogia e della propaganda o la verità celata dalla ragion di Stato o il perseguimento d’interessi spesso illegali o egoistici inducono una violenza psicologica nei cittadini con l’effetto di limitarne la libera determinazione dei comportamenti nell’esercizio dei diritti individuali e collettivi. La trasparenza della vita pubblica è condizione delle scelte libere e responsabili delle persone, altrimenti la democrazia è una finzione. La democrazia stessa ha bisogno di consenso libero e critico dei cittadini, per non cadere nelle coazioni demagogiche di una propaganda politica alimentata dall’ignoranza, dalla disinformazione, dalla subcultura faziosa.

 

Purtroppo, come sostiene Luigi Ferrajoli, in Italia ha prevalso negli ultimi tempi anche una verticalizzazione delle decisioni e una personalizzazione della rappresentanza, che assumono, in virtù dell’ideologia populista che le accompagna, una forma di negazione della rappresentanza parlamentare. (4)

 

Gli stessi partiti politici hanno perso il loro ruolo di rappresentanza avendo chiuso le sezioni e pertanto sono venuti a mancare le loro ramificazioni sul territorio e il dialogo con i loro aderenti o con i cittadini. Essi, come sostiene Calise, riescono a sopravvivere solo mettendosi al servizio di un leader (5).

 

In questa situazione il Sindacato, nonostante i tanti commentatori che esprimono valutazioni negative sul suo stato, può fare molto perché ha conservato strumenti, metodologie e pratiche democratiche, che invece i partiti hanno perso. In tal senso si ripropone il rapporto fra politica e sindacato.

 

Il sindacato italiano deve continuare ad affrontare i temi che riguardano l’intera comunità: da quello della rappresentanza politica e sociale, i cui connotati sono quelli della piena partecipazione, del pluralismo del pensiero, del diritto alla contrattazione, a quello della costruzione di una società più giusta, più equa e più rappresentativa di tutte le realtà. Inoltre deve rivendicare spazi istituzionali di partecipazione dell’intera società, per ridare ai cittadini la consapevolezza che la politica può essere mediazione fra interessi e non il prevalere di uno su gli altri. Il sindacato è uno dei pochi luoghi dove ancora gli uomini e le donne possono dialogare, senza barriere virtuali, ma dal vivo, anche scontrandosi verbalmente e crescendo collettivamente e il pensiero politico, la cultura e le idee caratterizzanti, sono parte importante del suo essere attore sociale.

 

Il sindacato deve riprendere la sua funzione squisitamente politica e sociale, volta a determinare i valori, le equità e la democrazia nella società. Com’è la sua storia, deve contribuire a cambiare questa realtà di inaccettabile regresso della democrazia, del sociale e del politico. Il Paese ha bisogno di ritrovare il confronto dialettico che, nella completa libertà di espressione, pur alla presenza di un completo disaccordo, non fa venir meno il rispetto dell’interlocutore. Perché la democrazia confermi la concordia civile, la solidarietà, la coesione e la giustizia sociale, valori tutti costituzionali, è necessario che i diritti politici dell’uomo come cittadino, siano accompagnati e sostanziati dai diritti sociali dell’uomo come lavoratore. La tendenza al rifiuto della politica di confrontarsi e, quindi, di riaffermare più democrazia, rischia di generare sempre più sfiducia e demotivazione da parte dei cittadini che lo esprimono, in molti modi, nei vari momenti elettorali. Proprio il sindacato, di fronte a ciò ha un ambito di azione e di proposta, in cui deve rivendicare un nuovo modello di sviluppo, fondato sui diritti, sulla giustizia e sull’uguaglianza, su politiche di solidarietà e coesione, e, in tal senso, proprio per la storia di organizzazione pluralista e riformatrice, deve imporre il recupero del confronto democratico e della piena partecipazione del cittadino alla vita politica e sociale. Così e solo così si rafforza di nuovo il sistema democratico violato da chi ha rifiutato il confronto. Il ruolo del sindacato, in questa fase è essenziale. Si deve prendere atto di ciò sia all’interno che all’esterno del sindacato.

 

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1) G. Saragat, 1966, Quarant’anni di lotta per la democrazia. Scritti e discorsi 1925-1965, cit. pp. 320 e ss, U. Mursia & C., Milano.
2) N. Bobbio, 1997, Autobiografia, cit. pag. 200, Laterza, Bari.
3) G. Zagrebelsky, Voi al governo, che cosa avete capito? - Il Manifesto, 12.1.2016.
4) L. Ferrajoli, 2011 Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza, Bari.
5) M. Calise, 2015, Democrazia del leader, Laterza, Bari.