Lavoro Italiano - EDITORIALI  - Antonio FOCCILLO
Come siamo distanti dal periodo in cui il sindacato era da tutti considerato un fattore di progresso
Il numero di maggio 2017
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25/05/2017  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

Si continua a descrivere il sindacato come un organismo sempre più privo di rappresentatività e lo si dipinge come uno strumento inutile e dannoso. Vorrei che tutti pensassimo per un momento ai grandi cambiamenti che ci sono stati nell’opinione comune anche per quello che è divenuto il mondo del lavoro, con un mercato del lavoro sempre più precario e privo di certezze. Un mercato del lavoro di tal guisa, non certo per colpa del sindacato, ma di governi che in questi anni, anche quelli del cosiddetto centrosinistra, hanno amplificato le flessibilità tanto da farle diventare precarietà, destabilizzando il precedente sistema. A differenza del passato dove il contratto di riferimento era a tempo indeterminato, si sono ampliati i contratti a tempo determinato, ed altre fattispecie di tanti contratti atipici, poi addirittura fatti diventare tipici con leggi specifiche. è ovvio che queste figure per la loro estrema incertezza sono sottoposte al ricatto dei rinnovi e per questo preferiscono non iscriversi al sindacato, onde evitare pericoli.

 

Come dicevo prima si sta cercando ancora di destabilizzare il sindacato con atteggiamenti, scritti e opinionisti che ne parlano male. Purtroppo così si crea un’opinione pubblica nettamente contraria. Come siamo distanti dal periodo in cui il sindacato era da tutti considerato un fattore di progresso. Ma allora sia le forze politiche, sia il governo di centro sinistra, sia l’intellighentia erano sulla stessa lunghezza d’onda delle battaglie sindacali.

 

Per ricordare quel periodo non si può prescindere dallo Statuto dei lavoratori che quest’anno compie 47 anni. Quanto tempo è passato da quando la priorità era il lavoro, il rispetto per i lavoratori e la salvaguardia delle prerogative per potersi difendere attraverso il sindacato. Parlo degli anni 70 quando fu approvato lo Statuto dei lavoratori. Esso fu frutto delle dure lotte sindacali che si svilupparono alla fine degli anni 60.

 

L’allora Ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, e Gino Giugni, come suo assistente, coordinarono la bozza di legge. Il giorno 11 dicembre 1969, vigilia della strage di piazza Fontana, la legge passò in Senato. Il 14 maggio del 70 anche la camera approvò il testo.

 

Cinque giorni dopo nacque lo Statuto dei lavoratori. Con esso, il legislatore (sicuramente molto attento e lungimirante) centrò due obiettivi fondamentali: tutelare la libertà e la dignità del lavoratore e sostenere la presenza dei sindacati nei luoghi di lavoro, ritenendo tale presenza la migliore concreta garanzia dell’effettivo rispetto della personalità del lavoratore. Proprio perciò lo Statuto ha cambiato radicalmente la concezione dei diritti e dei doveri dei lavoratori italiani e ha rappresentato un momento fondamentale della legislazione italiana, essendo fonte normativa principale in materia di libertà e attività sindacale, fatta eccezione per la Costituzione.

 

Lo Statuto, identificando nel lavoratore il soggetto fondamentale, libero e dotato di importantissimi e inalienabili diritti, il cui rispetto è imprescindibile in una società civile moderna, compie una grande conquista che rappresenta non un punto di arrivo ma di partenza per ampliare il ventaglio delle tutele destinate a chi dedica il proprio tempo, le proprie energie, le proprie competenze e la propria professionalità al mondo del lavoro.

 

A 47 anni dalla nascita dello statuto ricorrono anche i 47 anni dalla morte di Brodolini, il ministro dei lavoratori (come voleva che si chiamasse) che più di tutti si impegnò per l’approvazione della legge 300. Noi riteniamo di dover ricordare il suo impegno nella stesura e approvazione della legge 300, ma anche la sua intensa partecipazione alle problematiche del lavoro e delle lotte allora in atto, proprio per capire la statura e la filosofia di quei protagonisti della vita politica italiana. Infatti, la sera del capodanno 1969 il ministro, il socialista Giacomo Brodolini, ex sindacalista, trascorse la notte con i lavoratori della fabbrica romana Apollo, che sotto una tenda, a piazza Montecitorio, protestavano contro la chiusura del loro stabilimento. Così i lavoratori in lotta salutarono, insieme con un politico, che si sentiva parte della loro famiglia, l’arrivo del nuovo anno. (N.d.A. Proprio come succede oggi).

 

Brodolini, con coraggiosa lucidità, in tal modo aveva affidato ad un atto simbolico di solidarietà il compito di testimoniare all’opinione pubblica del Paese la prova del cambiamento di orientamento e di politica che c’era stato con il centrosinistra all’interno di quella che Pietro Nenni aveva chiamato “la stanza dei bottoni”.

 

Su quel gesto si innescarono anche molte polemiche, soprattutto da parte più conservatrice del Paese su cui però ormai si agitava la ventata delle lotte studentesche e la stagione delle grandi rivendicazioni operarie e sindacali.

 

Appena qualche giorno dopo la veglia romana, Brodolini; si reca ad Avola a ricordare i due braccianti uccisi, un mese prima, dalla polizia nel corso degli scontri che punteggiarono la lotta per il rinnovo del loro contratto provinciale del lavoro. Nella sala del Municipio del piccolo paese siciliano, il ministro dei lavoratori, non del lavoro (come teneva a ripetere), illustra il suo programma – il cosiddetto “manifesto di Avola”- che poi porta all’interno del governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor.

 

In quel discorso affronta lucidamente tutte le grandi questioni riguardanti il lavoro e la vita del movimento sindacale. Statuto del sindacato nell’impresa, giustizia del lavoro e tutela dei diritti individuali, riconoscimento delle “categorie sottoprotette”, adeguamento del sistema della formazione professionale, potenziamento degli ispettori del lavoro, riforma del collocamento con maggiori poteri e funzioni agli organi collegiali per eliminare il caporalato, che Brodolini stigmatizza come “medievale o inumana pratica dell’ingaggio della manodopera sulla pubblica piazza, quasi che si tratti di bestiame per lavori pesanti e non di lavoratori partecipi di un processo di sviluppo, di rinnovamento e di democratizzazione delle strutture del vecchio Stato liberale che vede in loro i protagonisti di questa nuova era dei rapporti sociali e della storia”. (Potrebbe essere un programma ancora oggi di una forza di sinistra).

 

Ma ciò che stupisce è che, nei sette mesi del suo breve ministero, tutti questi punti, insieme con altri di analoga rilevanza, vengono affrontati e a ciascuno di essi o viene data la soluzione o si dettano le premesse perché successivamente la possano realizzare.

 

Bisogna anche dire che la velocità straordinaria dell’approvazione dello statuto fu resa possibile dall’accortezza parlamentare e soprattutto dalla conoscenza giuridica, dalla capacità di decidere sentendo tutti ma senza rinunciare a una sintesi operata con in testa un’idea precisa di quello che è l’interesse generale, che Brodolini ed il suo gruppo di giovani collaboratori usarono con intelligenza e anche con una certa dose di fiducia nei propri argomenti.

 

Nel merito non tutti erano d’accordo, anche a sinistra e nello stesso mondo del lavoro. I partiti di governo, primi fra tutti i socialisti – in quel frangente unificati con i socialdemocratici – erano i più decisi a favore dei contenuti principali del provvedimento, anche se con entusiasmo diverso.

 

Alla fine il 20 giugno 1969 il Consiglio dei Ministri approvò il testo e diede cosi inizio al cammino parlamentare del disegno di legge che diventerà, dopo un supplemento di modifiche che non snaturano però l’impianto, lo Statuto dei lavoratori.

 

Brodolini muore appena venti giorni dopo, in una clinica svizzera, dove i medici tentano qualche cura per alleviargli la sofferenza di un male, di cui non aveva mai voluto parlare.

 

Comunque dovranno passare altri anni, perché il principio della libertà sindacale fosse applicato e garantito in tutti i luoghi di lavoro.

 

Possiamo dire che sicuramente quello dei 47 anni dello Statuto è stato un compleanno triste perché si stanno mettendo in discussione, in tutti i modi, i diritti dei lavoratori, nonostante ormai si pensava fossero profondamente radicati nella nostra cultura giuridica. Pertanto stravolgere lo statuto – come si sostiene - e la Costituzione, come si vorrebbe fare, è minare le fondamenta di diritti civili dei lavoratori e dei principi che reggono il nostro Stato che, anche per tali principi, può essere definito democratico.

 

Noi riteniamo che bisogna affrontare una nuova sfida dove la tutela della libertà e dignità dei lavoratori e della libertà e dell’attività sindacale non è questione che può essere messa in discussione. Del resto, si può dire che, superate le interpretazioni “progressive”, in funzione antitetica, e talune rigidità, lo Statuto mantenga oggi la sua essenza, proprio in ragione di quella libertà e dignità dei lavoratori che appartiene al nostro comune sentire.

 

Sono da approfondire le considerazioni che almeno in via di principio ci sentiamo di condividere e cioè che, di fronte ai cambiamenti in atto nel mercato del lavoro, le organizzazioni sindacali devono ripensare il proprio ruolo, a partire dallo Statuto, ma in una prospettiva più vasta, in grado di integrare quell’ampia fetta di lavoratori non iscritti e di costruire forme reali di partecipazione, anche a partire dal “territorio”.

 

Tutti sembravano concordi circa l’indisponibilità dei diritti garantiti nei primi tre titoli della legge, dalla libertà di opinione del lavoratore al divieto di indagini su opinioni e a quello dell’attività lavorativa; dalle norme a tutela della salute e dell’integrità fisica a quelle che regolano le sanzioni disciplinari applicabili ai dipendenti. E ancora immodificabili anche le norme sulle libertà sindacali, con il diritto di associazione, le sanzioni contro atti discriminatori, il diritto di assemblea, il divieto ai datori di costituire o sostenere sindacati di comodo, la repressione antisindacale. Ma tutto questo, per effetto del neo liberismo e di una cultura politica che una volta si sarebbe detta di destra, è messo in discussione e addirittura si vuole andare a limitare le stesse assemblee sulla base di un principio secondo cui queste sarebbero contro l’interesse dell’utente. Così però si riduce la democrazia partecipata, a poco a poco, e si crea sfiducia nel sindacato che non avrebbe più gli strumenti per potersi difendere.

 

E’ evidente che i 47 anni dello statuto cadono in un momento particolare, in cui l’urgenza di soluzioni è accentuata dalla crisi di posti di lavoro e da un boom di irregolarità da parte delle aziende, soprattutto sul fronte della tutela dei dipendenti. La gente in cerca di lavoro è sempre più numerosa e il libero mercato in realtà sta diventando sempre più ristretto. L’effetto perverso è che questi effetti del dominio odierno del capitale stanno facendo venir meno, nei lavoratori, anche la speranza, l’aspettativa di migliorare in futuro e di garantire ai propri figli una condizione sociale ottima. Per questo bisogna che lo Statuto ritrovi l’antico splendore per ricreare condizioni di rispetto del lavoro e dei lavoratori. Non si può lasciare solo al Papa, dall’alto del suo Magistero, la difesa di questo modo di concepire la società ed il diritto al lavoro e nel lavoro.