Lavoro Italiano - EDITORIALI  - Antonio FOCCILLO
Sovranità, Democrazia, Europa
Il numero di dicembre 2018
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20/12/2018  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

La recente polemica fra il Governo Italiano e la Commissione Europea, che ha poi prodotto l’arretramento nei contenuti e quindi nelle risorse della manovra italiana precedentemente stabilita, pone una serie di problematiche che vanno affrontate, perché si stanno accentuando molti conflitti in tutta l’Europa che potrebbero portare al declino di questo strategico progetto dell’Europa unita.

 

Rousseau sosteneva che all’atto nel quale si realizza il contratto della società politica, dove il popolo costituisce un governo, esiste un momento anteriore che è quello in cui il popolo è popolo e questa condizione è la condizione fondamentale, che stabilisce una sovranità non trasferibile, delegabile o divisibile. Per cui, al fine di mantenere le condizioni di libertà e di uguaglianza, dove nessun cittadino perde la sua sovranità nel processo di formazione della volontà generale, questa non può essere delegata o trasferita, per investire qualcuno ad esercitarla, senza che i mandati siano revocabili in qualsiasi momento. Per Rousseau la sovranità, l’unità della politica è immanente al popolo e consiste nell’espressione della volontà generale da parte dell’assemblea popolare (universale partecipazione alla vita dello Stato e della società, democrazia) (1).

 

Vale anche per noi, quindi, che chi governa non deve rispondere ad altri che al popolo che democraticamente gli ha espresso il proprio consenso, e deve praticare la cultura del confronto, anche per dimostrare, effettivamente, che lo scollamento con la società, che tutti avvertiamo, non è assoluto e può essere sanato. Per questo servirebbe una riforma delle regole che spronasse la politica a dialogare con la società. Oggi si parla di distacco tra politica e società e credo che questo rischio sia reale, in quanto la politica è succube dell’economia. Così facendo non ha più il ruolo di incanalarla verso la cittadinanza e verso il settore produttivo. Quindi ha perso il suo ruolo di governo dei processi economici che sono ormai patrimonio di elite finanziaria, la quale regge e decide le sorti dei vari paesi. Bisogna, di conseguenza, rimettere in discussione quei contesti che favoriscono le grandi caste estranee alla politica e al confronto democratico, che nessuno ha eletto e che, di fatto, governano al di sopra e contro la politica. A costoro che non rispondono ai cittadini, non si possono delegare decisioni che devono essere prese nell’interesse di tutti.

 

Questo pericoloso deficit democratico si è allargato, pertanto, diventa concreto il rischio di un’involuzione della democrazia. Varrebbe la pena rifletterci in maniera più approfondita, poiché più che il deficit economico si rischia il deficit democratico! Urge instaurare un’agire politico il cui obiettivo consiste, innanzitutto, nella cura primaria degli interessi collettivi, coordinati in sede nazionale sulla base di una gerarchia di valori che determina quali sono quelli più urgenti e quelli rinviabili, con l’ottica di salvaguardare l’intero sistema Paese. Non ritengo che ciò sia facile, soprattutto per le profonde trasformazioni sociali prodotte dal consumismo e dalla cultura di massa di bisogni populistici. Per cambiare le cose non può più essere considerata un’utopia la visione di una società in cui vi sia giustizia sociale, equità, libertà, partecipazione democratica, coesione e solidarietà, etica e morale. Per far questo bisogna che la politica riacquisti la sua centralità e le forze sociali e culturali, insieme alla politica e alla classe imprenditoriale, devono sentire l’esigenza di configurare nuovi rapporti.

 

Ovviamente questi assunti pongono l’esigenza anche di valutare quale debba essere il futuro dell’Europa.

 

La rivoluzione neoconservatrice ha influenzato le democrazie europee in concomitanza con il repentino declino di tutto l’Occidente, al quale si sta sottraendo gran parte della sua forza economica ma anche della consapevolezza dei suoi valori ideali. Stiamo assistendo ad una trasformazione delle democrazie europee e del cittadino, espressione del popolo sovrano che sarà gradatamente sostituito da una nuova tecnocrazia. Il modello conservatore, diventato il riferimento di tutto l’Occidente, ha avviato un sistematico processo di scardinamento ideologico ed istituzionale dei valori di libertà ed uguaglianza, aggravato dalla delocalizzazione dell’apparato produttivo nazionale (globalizzazione) e dal libero operare di una speculazione finanziaria senza freni (deregulation). È così velocemente passato il tempo in cui i paesi occidentali mostravano al mondo una democrazia incentrata sui valori laici dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e sulla tutela delle libertà individuali; valori che erano rafforzati dal principio di solidarietà che aveva come strumento il welfare. A questo modello si è poi aggiunto il pensiero di Keynes che mise in dubbio l’infallibilità del mercato, e propose di attivare un meccanismo che, per far ripartire il sistema economico, rilanciasse la domanda globale attraverso la spesa pubblica. Una economia basata sulla domanda piuttosto che sull’offerta significò dare centralità al ruolo delle masse sociali, sovvertendo una situazione che legittimava la concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta elites. La classe politica europea, post 1989, purtroppo, si è adeguata al modello neo liberista ed ha sostituito il “cittadino” con il “mercato” come ispiratore del suo agire e della sua visione del mondo.

 

Il conflitto tra democrazia e globalizzazione è diventato più aspro nel momento in cui il processo di globalizzazione ha finito per limitare l’esercizio delle politiche preferenziali a livello nazionale senza un’espansione compensativa dello spazio democratico a livello globale/regionale. L’Europa è già dalla parte sbagliata di questo confine. In un’Europa che si vorrebbe democratica, le difficoltà e l’emarginazione delle giovani generazioni, impossibilitate, peraltro, a far sentire la loro voce dissenziente, generano fenomeni di devianza che a volte possono diventare violenza. Questa non è, non può essere, la via dell’Europa. In questi anni abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte in materia di diritti, una distanza grandissima tra ceto politico e società. Non si possono scindere diritti e governo dell’economia. I diritti, anche alla presenza di crisi economiche, non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni sociali molto pericolose e la soluzione che tutti prospettano di “avere più Europa”, presuppone che l’Europa non sia soltanto economica. Dell’Europa sociale, tuttavia, non c’è traccia, se non un’inapplicata Carta dei diritti e quindi, per molti Paesi, Bruxelles è diventata la ‘fonte dei sacrifici’ e ciò che arriva dall’Europa è percepito come obbedienza a una logica economica che restringe opportunità e diritti dei cittadini. Questa parabola discendente dell’Europa non è imputabile solo alla recessione e al declino che stiamo vivendo, perché è cominciata prima dell’attuale crisi finanziaria. L’origine deriva dalla constatazione che mentre il Parlamento Europeo ha aumentato il suo potere, essendo ormai in grado di cambiare la quotidianità dei cittadini europei, la percentuale di quelli che votano per eleggerne i componenti è calata di moltissimi punti. È un paradosso che proietta un’ombra sul concetto stesso di democrazia, sebbene a essere inadeguati non siano solo i meccanismi formali di delega e, dunque, la legittimità delle decisioni, ma l’assenza di un’opinione pubblica europea capace di discutere e di dividersi non sulla base di interessi nazionali ma su questioni importanti di interesse generale. Il ché fa aumentare la preoccupazione per una deriva antidemocratica. Manca anche una qualsiasi visibilità dei leader delle istituzioni europee, per cui qualsiasi decisione su questioni cruciali appare che arrivino da un luogo oscuro - l’Europa - le cui scelte sono imposte senza possibilità di dissenso. Così tutti noi siamo diventati spettatori inermi di una rivoluzione tecnocratica che, facendo svanire concretamente la sovranità del popolo, ha innestato la crisi della democrazia che stiamo vivendo.

 

Per Noam Chomsky: “Le democrazie europee sono al collasso totale, indipendentemente dal colore politico dei governi che si succedono al potere. Sono ‘finite’, le democrazie del vecchio continente – Italia, Germania, Spagna, perché le loro sorti ‘sono decise da burocrati e dirigenti non eletti, che stanno seduti a Bruxelles’. Decide tutto la Commissione Europea, che non è tenuta a rispondere al Parlamento europeo regolarmente eletto. Puro autoritarismo neo-feudale; questa rotta è la distruzione delle democrazie in Europa e le conseguenze sono dittature (2)”.

 

Ancor più importante ed infido, perché è attuato nel più assoluto silenzio, è il processo di trasformazione dello spazio europeo in uno spazio di sorveglianza e governance economica esente da qualsiasi controllo democratico: Euro plus pact, poi rinforzato con il Fiscal Compact, e il MES, che ha assegnato ulteriori poteri alla vigilanza sul bilancio. È chiaro, quindi, che le istituzioni sovranazionali hanno ormai il potere di guidare metodi e obiettivi dell’azione politica all’interno dei singoli Stati membri dell’Unione, fino a poterne riscrivere le manovre finanziarie, cambiarne la Costituzione e sanzionare i Paesi inadempienti. Siamo giunti alla costituzionalizzazione di una dottrina economica di parte, i cui fondamenti sono il pareggio di bilancio, l’esclusione dello Stato dall’economia, l’idea mistica delle privatizzazioni e l’assoluto divieto di ricorrere al debito come strumento di sviluppo. Tutto ciò sfacciatamente ignorando che la democrazia è basata sulla normalizzazione del conflitto fra le parti e sull’apertura alla cittadinanza del dibattito circa il percorso da intraprendere. Questa rivoluzione dall’alto porta la neutralizzazione della democrazia parlamentare, che si riduce anche per l’accentuazione dei controlli sul bilancio e sulle manovre di finanza pubblica da parte dell’Unione Europea, che, di fatto, non fa che rappresentare la cura estrema degli interessi economici in nome dell’ortodossia neo-liberista.

 

Bisogna accettare passivamente questa situazione? Finché l’economia del debito, che ormai regge le nostre società dall’alto al basso, non sarà rimessa in discussione, nessuna “soluzione” sarà possibile. Ma la governance economica attuale esclude a priori questa ipotesi e per questo sacrificherà l’intera crescita a tempo indeterminato. Sembra ormai che non ci sia più spazio per la sovranità nazionale come strumento per restituire alla cittadinanza la sovranità, per l’appunto, che gli appartiene e, infatti, i tentativi “riformisti” di governare la transizione europea a livello nazionale collassano inevitabilmente in una obbedienza al pensiero economico unico e le differenze fra schieramenti si limitano a un’adesione più o meno “sentita” ovvero a una leggerissima rimodulazione della ripartizione dei costi delle “riforme necessarie”. Contemporaneamente stanno diventando sempre più estese e pressanti le richieste di un’Europa politica, perché solo nella costruzione di un vero processo costituente europeo guidato dal basso e capace di accettare cessioni della sovranità nazionale e di utilizzare questo processo per restituire ai cittadini la possibilità di decidere le proprie prospettive, vi è la possibilità di uscire dalla crisi nel segno della democrazia e della giustizia sociale. Il rischio di collasso della coesione sociale e di rivolte sempre più radicali della cittadinanza contro le decisioni politiche aumenta nella misura in cui queste decisioni sono percepite come esterne al processo democratico e come costrizioni imposte da poteri distanti e tecnocratici.

 

C’è chi ha frenato e continua a frenare la realizzazione dell’unità europea e c’è chi vuole un determinato tipo d’Europa, ingabbiata in una moltitudine di vincoli, mutilata non solo geograficamente ma sotto tutti gli aspetti. In sintesi, a tutti noi interessa una vocazione dell’Europa che non sia quella dei mercati, della finanza e delle multinazionali, bensì che sia l’Europa della cultura, delle arti, delle lettere, della scienza, della tecnologia, della civiltà, dei diritti, dello sviluppo e del lavoro. L’attuale situazione non è, non può essere, l’Europa proposta dai padri fondatori.

 

A questo punto si pone una domanda: come cambiare l’Europa?

 

La prima opzione implicherebbe la creazione di uno spazio democratico sovranazionale. La seconda comporterebbe, invece, di poter implementare le politiche monetarie e armonizzare quelle fiscali per favorire l’obiettivo di una ripresa di più lungo termine. Più si rimanda la scelta di una di queste opzioni, più aumentano i costi politici ed economici che dovranno in definitiva essere pagati.

 

La messa in moto di tali processi e strumenti di coercizione decisionale indebolisce anche i sindacati, rimasti a lottare su scala nazionale contro sempre più stringenti e inappellabili “raccomandazioni” europee che vedono nell’abbassamento dei salari e nella precarizzazione dell’occupazione l’unico metodo per recuperare competitività e che rendono fatue le lotte dei movimenti per i beni comuni. Lo stesso riferimento costante da parte del sindacato europeo a garantire gli aspetti sociali del mercato interno, non deriva da una ossessione di inserire il sociale ovunque ma vuole ricordare che i rischi di squilibrio sono tali che, senza una normativa sociale di origine comunitaria, si produrrebbero nella società civile europea, come sta avvenendo, gravi tensioni suscettibili di ritardare o bloccare il processo di integrazione stesso.

 

L’Europa, pertanto, non può avere come bussola esclusivamente il mercato: lasciare ancora a quest’ultimo la possibilità di decidere il grado di convergenza delle condizioni di lavoro e il progresso sociale significa creare ulteriore sfiducia, povertà e malcontento. Già in vari paesi sono nate contestazioni molto violente, vedi in Francia ma anche in Germania ed in alcuni Paesi del Nord Europa. Il problema di come una comunità vive, lavora e mantiene i diritti inalienabili sono una questione che ci si deve porre. Una comunità regge se le decisioni che si prendono sono condivise dai cittadini. È per questo importante considerare sempre la legittimità di chi le assume. In questo senso ci deve essere, a livello europeo, un governo eletto dai cittadini, poiché, se le decisioni le prendono organismi che non hanno legittimità democratica, ma sono solo tecnostrutture economiche, diviene più difficile che tali scelte vengano condivise e accettate. Non può essere permesso che la nostra vita sia scandita da organismi come la Bce, il FMI e la stessa Unione Europea senza affrontare il problema dell’assenza di un governo europeo che sia legittimato dal voto popolare. Questo è il problema che l’Unione deve affrontare e risolvere al più presto e il sindacato deve avviare una proposta di riforma, come fece in passato quando sostenne il progetto Europeo, per cambiare profondamente l’attuale realtà dell’Unione Europea.

 

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1) T. Magni (a cura di), 2002, Thomas Hobbes, Leviatano, cit. pag.37, editori Riuniti.

2) http://www.agernova. it// G. Altieri, tratto dal newsmagazine Contropiano.