D - REPUBBLICA  - Alessandra MENELAO
Il mobbing sulle donne single: le testimonianze
Alle donne single non viene perdonata la loro libertà di scelta, di autodeterminazione, di autosufficienza
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21/10/2014  | Sindacato.  

 

di SARA FICOCELLI

 

Da una donna single sul posto di lavoro ci si aspetta maggiore flessibilità negli orari, maggiore disponibilità di tempo, maggiore elasticità nell’accettare trasferte esterne o spostamenti in altre sedi. Di fatto, anche le donne single subiscono una sorta di discriminazione sul posto di lavoro che le porta a rinunciare, all'inizio talvolta volontariamente, in seguito per non perdere le posizioni professionali acquisite, a crearsi una vita privata soddisfacente, sia con un compagno che con dei figli, perché elementi del genere comporterebbero senza dubbio un cambiamento delle modalità e degli orari di lavoro. “Le pressioni – spiega Adelia Lucattini, psichiatra psicoterapeuta e psicoanalista di Roma - vengono esercitate in vari modi, dal datore di lavoro, che ti chiede esplicitamente di non avere figli, ai colleghi. La donna single, sul luogo di lavoro, può infatti essere vissuta come un'avversaria o una "preda" potenziale. Questo comporta una certa aggressività da parte dei colleghi uomini ma anche delle donne coniugate. E non c’è giovane che non si sia trovata ad affrontare le forche caudine degli ammiccamenti o delle battute a sfondo sessuale, tentativi di seduzione e inviti, almeno una volta nella propria vita professionale”. “L'Italia – conclude Alessandra Menelao, responsabile nazionale dello sportello Mobbing&Stalking della Uil - non è un paese per le donne single. Da noi vige ancora una cultura tradizionalista che vede le donne madri e mogli, relegando ai padri i ruoli inessenziali nella gestione della famiglia. Alle donne single non viene perdonata la loro libertà di scelta, di autodeterminazione di autosufficienza. Fortunatamente le donno single sono meno scisse degli uomini e quindi possono anche trovare molteplici interessi che le riempiono la loro vita”.

 

Per capire meglio che cosa significa tutto questo, abbiamo raccolto alcune testimonianze di donne che hanno subito mobbing in quanto single.

 

Anna, 45 anni, Roma: “Al colloquio mi chiesero esplicitamente di non fare figli”

 

A 30 anni, subito dopo la specializzazione, ho vinto un concorso come medico a tempo indeterminato tramite concorso per titoli ed esami presso una ASL. Durante il colloquio prima della presa di servizio, il primario mi ha chiesto se ero sposata. All'epoca non lo ero e mi ha chiesto esplicitamente di non avere figli per i primi due anni, per un problema di continuità terapeutica nel trattamento dei pazienti, ventilando l'ipotesi che il "periodo di prova" di sei mesi poteva essere anche ripetuto. All'epoca ho accettato poiché non avevo desiderio di maternità e ho posticipato sia il matrimonio che il primo figlio, che ho poi avuto a 35 anni compiuti. L'aver aderito a questa richiesta non mi ha portato alcun beneficio dal punto di vista della carriera o dei riconoscimenti personali e, a distanza di anni, ritengo che sia stato un gesto maschilista, non giustificato dalla mancanza di personale nel reparto. Oggi direi che è stato un esercizio di potere, che poi ho potuto osservare anche in altre circostanze e con altri colleghi e colleghe.

 

Luisa, 60 anni, Roma: “Il capo mi chiese se avessi intenzione di ‘metter su famiglia’. Risposi di no, ma qualche tempo dopo…“

 

A 34 anni ho avuto un incarico in una uoc di primo livello dall'azienda ospedaliera per cui lavoravo: all'epoca non avevo ancora incontrato il mio compagno e non avevo figli. Il capo dipartimento con cui avevo rapporti cordiali e di buona collaborazione mi chiese se avessi intenzione di "metter su famiglia", ipotesi che non esclusi con lui, credendolo sinceramente. Qualche anno dopo ho incontrato il mio compagno, ma ho tenuto nascosta la mia relazione, sia per motivi di privacy, sia per il timore di eventuali chiacchiere al lavoro. A 42 anni però, data la mia età, abbiamo deciso di avere nostro figlio. Al ritorno dalla maternità obbligatoria (tre mesi) il mio incarico mi è stato revocato. Quando ho chiesto spiegazioni mi sono state date motivazioni più che plausibili, rispetto ai mutamenti interni avvenuti nell'azienda e nel dipartimento in quei mesi…Due anni dopo, anche per la delusione, ho deciso di seguire mio marito e  mi sono trasferita in un'altra città cambiando azienda. L'anno successivo ho incontrato un mio ex-collega, quando ormai ero fuori da ogni competizione, a cui ho chiesto quali fossero state le "reali" motivazioni della revoca dell'incarico apicale. Il collega in confidenza mi disse che la voce che girava è che "una che stava sempre a fare figli" non aveva più le qualità che servivano per dirigere un’unità operativa, confermando amaramente il sospetto a cui non avevo voluto credere. Non mi pento delle mie scelte, ma talvolta mi chiedo ancora in che modo avere una famiglia possa togliere qualcosa alla mia professionalità.

 

Antonella, 52 anni, Montevarchi: “L’azienda mi licenziò credendo fossi incinta, ma rimasi incinta solo 10 anni dopo, a causa di una malformazione fisica. Ho passato tanti anni senza lavoro”

 

Ho interrotto gli studi al secondo anno dell'istituto tecnico per segretaria d'azienda per cominciare a lavorare in una fabbrica tessile. I primi anni il principale mi ha chiesto di fare straordinari durante la settimana, qualche volta anche di sabato, nei periodi di maggio produzione. Ho accettato perché potevo guadagnare un po' di più, e anche perché, dopo aver lasciato la scuola, avevo perduto le mie amiche e nel paese dove vivevo non conoscevo molte persone della mia età. A 18 anni, durante una vacanza al mare, ho conosciuto mio marito e ci siamo fidanzati. Dopo due anni siamo andati a vivere insieme in un appartamento accanto ai suoi genitori e dopo quattro ci siamo sposati. Finché sono stata fidanzata ho continuato a fare straordinari infrasettimanali, poi, con la convivenza, ho chiesto di non farli più, pur ricevendo pressioni e cedendo spesso alle richieste del mio principale. Ma quando mi sono sposata e sono andata a chiedere le ferie, ho trovato una lettera di licenziamento, che avevo firmato in bianco anni prima (al momento dell'assunzione). Il principale mi ha poi detto che pensava fossi incinta, ma sono rimasta incinta solo dopo ben 10 anni, a causa di una malformazione che non sapevo di avere. Sono rimasta alcuni anni senza lavoro. Quando mio figlio ha iniziato le scuole elementari, ho iniziato a lavorare prima con contratti temporanei e poi sono stata assunta con un concorso, come netturbino in un comune vicino al mio. Quando penso a quello che è successo, provo ancora una grande umiliazione, delusione e mortificazione. Come un tradimento. Una cosa che non mi meritavo. Prima di sapere del mio problema fisico, ho creduto per anni di non riuscire ad avere figli a causa del licenziamento e sono andata anche per un anno da uno psicologo, che mi ha molto aiutato.

 

Adriana, 42 anni, Milano: “Quando ho chiesto di viaggiare di meno per passare più tempo col mio compagno, ho subito un demansionamento”

 

Sono un'interprete, da 18 anni lavoro per una multinazionale. Ho iniziato a lavorare subito dopo la laurea e il corso specialistico. Fin dall'inizio, essendo molto giovane, ho dato la mia disponibilità agli spostamenti e alle reperibilità festive. Per ragioni anche personali, non mi sono sposata e non ho figli, vivo col mio compagno che viaggia spesso per lavoro. Mentre all'inizio è stato interessante, da circa 5 anni ho cominciato a chiedere di spostarmi di meno e lavorare nella mia città quando possibile o in Italia, e a dare anche meno disponibilità per i turni festivi per stare col mio compagno e vivere anche la mia vita privata. Lì sono iniziati i primi problemi. Non ho più avuto avanzamenti di carriera, con un sostanziale blocco dello stipendio. Ho visto passarmi avanti persone arrivate dopo di me e ultimamente mi è stato proposto di passare al settore traduzioni scritte, che ho vissuto come un demansionamento. In tutto questo, non ho una "vera famiglia", come dice sempre mia madre, e quando sei mesi fa il mio compagno mi ha proposto di seguirlo, avendo avuto una buona proposta di lavoro all'estero, ho chiesto l'aspettativa non retribuita e sono partita con lui, verso quella che spero sia davvero una "nuova vita". Non nego il senso di tristezza e delusione per quella che sento una "professionalità sprecata", a cui ho regalato i miei studi, la mia gioventù, direi i miei anni migliori, dedicandoli al lavoro che ho svolto sempre con il massimo impegno. Ma, a quanto pare, le cose vanno così, almeno in Italia.

 

Eleonora, 32 anni, Roma: “Dopo 8 anni ho chiesto un miglioramento della mia posizione, ma hanno dato la precedenza alle colleghe con famiglia. I turni più scomodi toccano tutti a me”

 

Lavoro per un ente pubblico, ho vinto un concorso a 20 anni al primo anno di università, mi sono laureata in lettere lavorando. Fin dall'inizio sono stata assegnata alla turnazione sulle 24 ore, compresi i festivi, perché giovane, appena arrivata e senza figli. Dopo la laurea che ho preso, in 8 anni, speravo di poter cambiare lavoro, almeno di non fare i festivi, ma non è stato possibile. A 27 annni mi sono fidanzata. Ho chiesto di nuovo un cambiamento di assegnazione, che era stato già concesso ad altri colleghi, ma, dal momento che non avevo figli, è stata data la priorità alle colleghe e ai colleghi con "famiglia". Inoltre sono catechista e partecipo alla vita parrocchiale, aiutando in un'attività pomeridiana di "dopo scuola" per famiglie meno abbienti, mentre mio marito, che è musicista, si occupa del coro. Adesso che abbiamo deciso di sposarci e poi provare ad avere il nostro primo bambino, mi chiedo se finalmente le condizioni di lavoro potranno cambiare, anche se, a causa della progressiva riduzione di personale della mia azienda, in realtà i turni scomodi e più faticosi, almeno per me e le colleghe senza figli, negli ultimi sei mesi, sono un po' aumentati. Mi dicono che non mi devo lamentare perché almeno io un lavoro ce l'ho, anche se me lo guadagno ogni giorno facendo sempre il mio dovere e del mio meglio, e cercando anche di dare, quando necessario, il massimo del mio possibile.

 

Marisa, 38 anni, Milano: “Pur avendo un punteggio più alto, sono stata assegnata a una sede distante un’ora e mezzo da casa mia. Quando ho chiesto perché, mi hanno risposto che, non avendo figli, ho più tempo per gli spostamenti”

 

Mi sono laureata i giurisprudenza e dopo il praticantato ho scelto di insegnare. Ho conseguito due abilitazioni, un dottorato, frequentato due corsi di perfezionamento, la SISS. Ho anche preso una seconda laurea in Scienze dell'Educazione, frequentato lo scorso anno il TFA e quindi un ulteriore corso abilitante. Poiché le cattedre per le materie per cui sono abilitata sono poche, ho fatto un perfezionamento per il sostegno e negli ultimi anni ho lavorato come insegnante di sostegno, prevalentemente in scuole secondarie di secondo grado. Ho avuto un compagno per 10 anni ma due anni fa ci siamo lasciati, e da allora vivo da sola. Lo scorso anno ho avuto un incarico annuale in una scuola in un quartiere periferico della città. Quando sono state assegnate le cattedre, la Preside mi ha assegnato alla succursale, ad un'ora e mezza da casa mia, per cui avevo la necessità di essere accompagnata ogni mattina, sia perché mal collegata dai mezzi pubblici sia perché non guido. Quando ho chiesto la motivazione di questa scelta, dal momento che avevo un punteggio più alto delle colleghe assegnate alla sede centrale, mi è stato risposto che dipendeva dal fatto che non avevo famiglia e quindi più tempo da dedicare agli spostamenti e anche al lavoro. Dal momento che non sono riuscita ad ottenere una ricollocazione nella sede centrale appellandomi alla graduatoria, ho dovuto dichiarare, cosa che avrei preferito non fare, che usufruisco della legge 104 per una malattia degenerativa agli occhi. Solo così ho potuto avere la riassegnazione alla sede centrale a mezz'ora da casa, che ho potuto raggiungere da sola con i mezzi pubblici. Mi auguro che quest'anno le cose vadano meglio e non mi accada di nuovo di trovarmi in una situazione così spiacevole e per me imbarazzante.