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SETTEMBRE 2006

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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LUGLIO-AGOSTO 2006

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SOMMARIO

EDITORIALE
Finanziaria: una alternativa alla politica dei tagli di Antonio Foccillo

INTERVISTA
Intervista a Luigi Angeletti, di Antonio Passaro

ECONOMIA
“Una nuova cultura fiscale”- Intervista ad Alfiero Grandi, di Alfredo Carpentieri
Un lavoro sempre più disuguale, di Pietro Ichino
La COVIP nella riforma della previdenza complementare italiana, di Luigi Scimia

ATTUALITÀ
Le nuove frontiere della contrattazione transnazionale ed il ruolo dei CAE,
di Lamberto Santini

SICUREZZA DEL LAVORO
Una coordinata iniziativa di sistema per la salute e sicurezza sul lavoro, di Paolo Carcassi

SINDACALE
Della UIL ci si  può fidare, di Massimo di Menna
Il pubblico impiego… flessibile, di Davide Sarnataro

CULTURA
Il Sindacato può tutelare i nuovi lavori dei “creativi”?, di Natale Antonio Rossi
Leggere è rileggere, di Gianni Balella

RECENSIONE
Il Diritto del Lavoro pubblico, di Alfredo Carpentieri

AGORA'
Guido Laconi, una grande persona, di Toni Serafini
Connessione effettuata, di Maria Anna Lerario

INSERTO
Le origini del Sindacato e la nascita della UIL, a cura di Alfredo Carpentieri
La UIL attraverso i suoi Manifesti, a cura di Piero Nenci

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EDITORIALE

Finanziaria: un’alternativa alla politica dei tagli

Di Antonio Foccillo

Quando molti italiani erano ancora sotto l’ombrellone, i giornali hanno cominciato a sparare una serie di titoli che li hanno messi in allarme. L’argomento non è una novità: le pensioni, da riformare, da tagliare. Ora ci troviamo alla vigilia di un confronto delicato e importante: la prossima legge Finanziaria arriva in un momento di svolta, a detta di molti deve contenere anche “l’operazione previdenza”.

Non mi interessa adesso dire se 30 miliardi sono troppi o bastano, mi interessa chiarire una cosa: il sindacato italiano è un sindacato responsabile e vuole il bene del Paese. Se l’Italia è entrata nella zona dell’euro lo deve anche e, forse, soprattutto ai sacrifici che il mondo del lavoro ha sostenuto, sulla base di una scelta condivisa che comunque ha visto nel sindacato confederale uno dei principali ispiratori. Una storia come la nostra ci da l’autorevolezza per porre qualche paletto, ben fermo, su alcuni principi. Anche quest’anno, infatti, si parla di una manovra che intervenga con tagli sui soliti capitoli di spesa, quelli che sostanziano in definitiva lo stato sociale. Pur comprendendo le difficoltà che comporta stilare una legge Finanziaria, e questa del 2007 in particolare, non possiamo non entrare in apprensione di fronte ad ipotesi che, se confermate, continuerebbero a mettere in discussione, così come negli ultimi anni, conquiste fondamentali che il mondo del lavoro aveva saputo costruire nel tempo. Poiché non difendiamo nessun privilegio, nessun tipo di spreco e siamo liberi da pregiudizi, possiamo affermare, senza problemi, che non è nello stato sociale che si deve tagliare. Altri sono gli sprechi e i privilegi da colpire. Ma soffermiamoci su ciò che ci interessa salvaguardare. Forse qualche decina di lavoratori fannulloni? Perché ovviamente, in concomitanza con la Finanziaria, appare la solita, brillante polemica sul lavoratore pubblico sfaticato. Sorvolando su ciò che merita poca attenzione, puntiamo invece sul nostro vero obiettivo: il sistema pubblico che, dal secondo dopoguerra in poi, ha garantito sviluppo e pari opportunità a questo paese. Senza la sanità pubblica, senza l’istruzione pubblica e senza la previdenza cosa ne sarebbe oggi dell’Italia? Se il nostro paese è riuscito ad uscire dalla povertà e dalla distruzione in cui versava dopo anni di dittatura e di guerra, se ha saputo crescere democraticamente, sviluppando gli anticorpi sociali e culturali contro qualsiasi tipo di involuzione sul piano della democrazia e della tolleranza, se ha visto crescere gli indici della qualità della vita, a partire dall’allungamento della vita stessa, tutto ciò è anche merito di un sistema pubblico che ha fornito, per la prima volta nella storia, la scuola, l’ospedale e l’assistenza sociale, a tutti. I principi, del resto sanciti dalla nostra Costituzione, sui quali poniamo dei paletti sono proprio questi. Non è possibile pensare di demolire un sistema che garantisce sviluppo e democrazia, per raccattare qualche miliardo a fine anno. Si rischia di risparmiare oggi per dover poi ritrovarsi senza un capitale, umano e strutturale, fondamentale per il futuro democratico del paese. Infatti se venisse meno il sistema pubblico i cittadini sarebbero penalizzati in maniera differenziata e la fascia più debole, per disponibilità economica, localizzazione geografica o per qualsiasi altra variabile, sarebbe quella colpita duramente. Si tornerebbe, rapidamente, a un passato remoto, fatto di ingiustizia e discriminazione, che non potrebbe comunque essere accettato da una società che ha già conosciuto livelli qualitativamente più soddisfacenti di tenore di vita. A quel punto si possono immaginare diverse soluzioni, che vanno dal ripristino – in questo caso dai costi sensibilmente più elevati – del sistema abbandonato alla rottura dell’equilibrio sociale con la ricerca del nuovo punto di equilibrio, sulla cui collocazione è impossibile speculare. Al di là di scenari più o meno lontani, è però facilmente riscontrabile una situazione di oggettiva divisione all’interno della stessa maggioranza su alcuni importanti temi, a partire da quello delle pensioni. Su queste divisioni si possono proiettare gli scenari futuri, oppure proporre sin da ora, una battaglia di salvaguardia intelligente di quegli strumenti che hanno caratterizzato il nostro stato sociale. Una battaglia che il sindacato vuole portare avanti senza conservatorismi, anzi puntando all’inclusione dei nuovi poveri che possono essere gli immigrati come i precari. Una battaglia sui principi, dai quali non è possibile retrocedere. Sembra invece prevalere una logica diversa che, basandosi su dogmi ideologici finalizzati ad una determinata visione dell’economia, lavora nell’ottica del progressivo smantellamento del sistema pubblico, con l’alibi della realizzazione delle riforme strutturali presentate dagli organismi internazionali come l’unica via verso lo sviluppo economico nell’economia contemporanea.

Quindi la Finanziaria deve essere pesante, la congiuntura favorevole deve essere sfruttata per fare la riforma delle pensioni e questa deve essere incisiva. Tra l’altro il progresso ci ha allungato la vita e quindi l’età pensionabile deve allungarsi anch’essa. Il tutto viene affermato senza dubbi, senza porsi problemi. Nell’epoca della flessibilità questa svanisce quando non fa comodo. E allora viene meno anche la sensibilità di chi dovrebbe riflettere sui vari tipi di occupazione che ciascun essere umano ha svolto nella sua vita, su quanto questi possano aver inciso sulla sua salute, fisica e psicologica. Ma tutto ciò non rientra nei principi che regolano la visione dogmatica dell’economia neoliberista. Purtroppo l’Italia si trova ancora nella situazione di dover affrontare questa strategia di attacco che punta ad uniformare i modelli, con l’obiettivo di creare un mercato mondiale che può essere visto come libero, oppure senza regole. Anche qui dipende dai punti di vista. La nostra battaglia sui principi e sulla prossima legge Finanziaria deve essere inserita proprio in questo contesto, altrimenti rischia di non essere capita. Non vogliamo difendere privilegi, vogliamo salvaguardare principi. Principi alla base di modelli di società diversi, tutti rispettabili, secondo una visione laica e tollerante del mondo. Non si possono ignorare le diverse realtà e pensare di imporre una sola logica. Così come esistono lavori diversi esistono società diverse, pertanto così come appare inconcepibile pensare ad una età pensionabile uguale per tutti, dall’operaio delle fonderie al politico di professione, così appare quantomeno sbagliata l’imposizione di politiche economiche dall’esterno. Gli organismi internazionali hanno dimostrato, del resto, di fallire quasi sempre nei loro obiettivi, proprio perché, invece di puntare alla realizzazione di una rete multipolare che valorizzasse le realtà locali, hanno sempre privilegiato l’imposizione di teorie che poi, sul terreno, non hanno funzionato. Problemi complessi che una legge Finanziaria si porta dietro, problemi che riguardano tutti i settori della nostra società. Inizia l’anno scolastico, a breve la scuola rinnoverà le RSU e come non pensare a cosa ha significato la scuola pubblica nel nostro paese? In una logica diversa da quella che punta al settore pubblico come fondamentale per lo sviluppo, anche la scuola pubblica tende a sparire, o per lo meno a diventare marginale e riservata alla fascia della popolazione che, nei fatti, vive emarginata ed esclusa. Noi non vogliamo una scuola pubblica così, noi vogliamo una scuola pubblica che migliori sempre, perché non vogliamo emarginati ed esclusi nella nostra società. Queste sono problematiche ben note nel mondo, ad altre latitudini sono il pane quotidiano dei nostri colleghi sindacalisti. Si dibatterà di ciò nel congresso mondiale che si terrà a Vienna a fine novembre, ma noi dobbiamo già prepararci alla battaglia sulla Finanziaria, con la consapevolezza di affrontare un impegno difficile, ma che vale la pena farlo. Dobbiamo far prevale l’idea che i nostri principi sono più adatti a garantire lo sviluppo del nostro paese. Dobbiamo fare le proposte migliori, dimostrando che non siamo un sindacato antagonista, ma protagonista se messo nelle condizioni di partecipare, di dare un contributo alla ricerca delle soluzioni migliori.

Si deve proseguire nella lotta per un fisco giusto, si deve colpire l’evasione e il privilegio. Poi si potrà anche ragionare sulle altre questioni, ma non si dovrà fare nessun intervento nella Finanziaria. Questa sarebbe una forzatura e dimostrerebbe che si cerca solo la demolizione dello stato sociale, cosa per noi inaccettabile. Sulla base di questi principi ci avviamo verso una stagione difficile, ma decisiva per il futuro dell’Italia e quindi il sindacato non può dimostrare titubanze o tentennamenti e deve portare avanti, coerentemente, la propria battaglia, insieme a milioni di lavoratori e pensionati.

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Intervista a Luigi Angeletti, Segretario Generale UIL

di Antonio Passaro

Angeletti, il mese di settembre segna tradizionalmente la ripresa del confronto con il Governo e tra le parti sociali sui temi dell’attualità economica e, in particolare, sulla Finanziaria. Nel frattempo si è riaffacciato anche il tema previdenziale. Vogliamo ricordare la posizione della Uil su questo specifico aspetto?

È molto semplice. Abbiamo ribadito, in via di principio, che non è pensabile inserire in Finanziaria il capitolo complessivo delle pensioni poiché non è giusto usare questo strumento per fare cassa. Noi siamo perché, se discussione deve esserci, sia avviata al termine del percorso sulla legge di bilancio. Ciò premesso, non c’è bisogno di nessuna riforma delle pensioni perchè i conti previdenziali sono in equilibrio: basterebbe separare l’assistenza dalla previdenza per vedere come stanno realmente le cose. Dobbiamo semplicemente eliminare il cosiddetto “scalone”, quel meccanismo introdotto dal precedente governo, in forza del quale, da un giorno all’altro, dall’1 gennaio 2008, si andrà in pensione non più a 57 ma a 60 anni. Occorre, poi, avviare al più presto la previdenza integrativa e, infine, incentivare le persone a prolungare volontariamente la loro permanenza al lavoro. Non serve altro.

Ma il Governo sembra comunque intenzionato ad inserire in finanziaria alcuni punti che riguardano le pensioni….

Vedremo. In ogni caso, se si tratterà di interventi strutturali che riguardano le pensioni dei lavoratori dipendenti non saremo d’accordo. Ricordo, peraltro, che c’è un problema di armonizzazione dei contributi previdenziali che andrebbe fatto al più presto. Noi, comunque, un ragionamento complessivo sulle pensioni siamo disposti ad affrontarlo solo dopo la Finanziaria e solo sulla base delle cose che ho appena detto prima.

Dopo la Finanziaria, allora, potrebbe esserci molto da fare se è vero che il Governo intende riavviare anche il tavolo sulla politica dei redditi?

Ecco, questo sì che è un argomento davvero interessante. Sono tre anni che ribadiamo la necessità di affrontare questo tema e, ora, finalmente, il nuovo Governo ha avviato un tavolo sulla politica dei redditi per modificare l’accordo del 1993. Noi abbiamo un’idea chiara circa le cause dalla ridotta capacità di crescita della nostra economia che soffre di due mali: scarsa produttività e bassi salari. Il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato rispetto alla Germania e alla Francia ma i salari sono diminuiti perché la nostra produttività è 1/3 rispetto a quella di questi Paesi. Sono quindici anni che non facciamo investimenti in infrastrutture e questo fa perdere produttività in modo drammatico. Dieci anni fa, fatta 100 la media europea, il reddito pro-capite era 124, oggi è 102. Questo, dunque, è un problema da affrontare. I salari dei lavoratori dipendenti sono troppo bassi. Ecco perché serve una politica dei redditi diversa, che punti allo sviluppo e alla crescita della produttività.

...E come noi tutti ben sappiamo, serve anche un nuovo modello contrattuale capace di dare una risposta a questo problema...

Noi lo sappiamo molto bene e semmai ci fosse bisogno di qualche ulteriore conferma numerica a sostegno di questa tesi, ricordo che il Governo, per il 2006, ha previsto un tasso di crescita dell’1,6%, un’inflazione al 2,5% e un tasso di inflazione programmata al 2%. Molto semplicemente questi numeri si traducono, ancora una volta, in un trasferimento di soldi dai lavoratori dipendenti ad altri. Questo ci danneggia, ma danneggia anche la nostra economia e allontana le prospettive di crescita.

Tu hai sostenuto che non dobbiamo fare sacrifici ma che dobbiamo lavorare di più e arricchirci di più. Ma hai anche detto che questa politica crea lacerazioni. Perché?

Per aumentare la produttività bisogna fare una cosa che confligge con un modello culturale piuttosto radicato: bisogna mettere i soldi lì dove rendono di più. Questa scelta può rappresentare culturalmente un problema. Insomma, bisogna cercare di premiare i più bravi e quindi bisogna valorizzare il merito. Ma questo principio è avversato da molta parte della sinistra. La meritocrazia, invece, è proprio un valore della sinistra e non della destra, come erroneamente si è indotti a pensare. Ad esempio, nel sociale o nel mondo del lavoro, se non è il merito il parametro di riferimento, vuol dire che faranno carriera solo i figli delle persone importanti, dei potenti e così via. Peraltro, molte statistiche ci dicono che il nostro è un paese a bassa mobilità sociale: i poveri restano poveri e i ricchi continuano ad essere ricchi. Questo è un dato in decisa contraddizione con la volontà di far crescere il Paese nel suo insieme. E allora bisogna cambiare registro.

La questione mi pare abbia dei riflessi immediati proprio sul contratto del pubblico impiego. Come si prospetta questa vicenda?

Il punto è davvero delicato. Al momento non abbiamo ancora elementi precisi e proprio per questo, a pochi giorni dal varo della legge finanziaria, siamo molto preoccupati. Occorrono le risorse necessarie per rinnovare i contratti del pubblico impiego. Lo stesso giudizio che daremo sulla finanziaria sarà certamente condizionato da questa scelta.

Si parla di risparmi nella pubblica amministrazione. Qual è il tuo giudizio?

Se si tratta di eliminare gli sprechi – e sono davvero tanti- siamo decisamente d’accordo. Ma se con queste affermazioni si pensa di far passare una logica secondo cui i lavoratori del pubblico impiego debbano essere pagati poco, allora si attendano da noi risposte forti. Anche qui la questione si deve affrontare puntando sulla produttività: è questo il terreno su cui vogliamo essere sfidati. Bisogna incentivare le persone e imporre una gestione più efficiente della pubblica amministrazione.

Un’ultima domanda. Telecom e Alitalia, due grandi aziende, per motivi diversi, entrambe nell’occhio del ciclone. La Uil ha una posizione molto chiara. Vogliamo ribadirla?

Si tratta di due realtà entrambe strategiche per il nostro Paese. Per quanto riguarda la Telecom, la vicenda ha assunto connotati a dir poco imbarazzanti sia per l’azienda che per lo stesso governo. C’è stata poca chiarezza. Da un lato, Tronchetti Provera ha modificato totalmente la sua strategia nel corso di un anno, dall’altro, il Governo non ha ancora chiarito la sua opinione in merito alla riorganizzazione di Telecom. Resta il fatto che non è pensabile che possa essere smantellata una realtà così strategica per il nostro Paese. Seppur su un piano diverso, analogo ragionamento vale anche per l’Alitalia. Abbiamo ascoltato reazioni interessate solo al cambio dell’amministratore delegato come se questo potesse risolvere il problema della compagnia di bandiera. Ma non è così. Occorre che il governo prima appronti un piano industriale per il rilancio di Alitalia e solo dopo individui l’amministratore in grado di applicarlo con successo.

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