UIL: Lavoro Italiano | Novità nel sito
Il nostro indirizzo e tutte le informazioni per contattarci
Google

In questo numero

In questo numero
GIUGNO 2007

LAVORO ITALIANO

Direttore Responsabile
Antonio Foccillo

Direzione e Amministrazione
Via Lucullo, 6 - 00187 Roma
Telefono 06.47.53.1
Fax 06.47.53.208
e-mail lavoroitaliano@uil.it

Sede Legale
Via dei Monti Parioli, 6
00197 Roma

Ufficio Abbonamenti
06.47.53.386

Edizioni Lavoro Italiano
Autorizzazione del Tribunale
di Roma n.° 402 del 16.11.1984

Il numero scorso

Lo scorso numero
MAGGIO 2007 

Altri numeri disponibili

SOMMARIO

Editoriale
In economia ognuno ha le sue ricette, ma a pagare sono sempre gli stessi - di A. Foccillo

Intervista
Le politiche fiscali e contrattuali diventano i pilastri su cui fondare la crescita del potere d’acquisto. Intervista a Luigi Angeletti - di A. Passaro

Interviste
Sen. Franco Marini, Presidente del Senato: Un accordo per mantere l’aggancio con l’Europa - di P. Nenci
L’America latina è un continente in forte trasformazione. Intervista a Donato di Santo, Sottosegretario del Ministero degli Esteri - di A. Carpentieri
Gino Giugni: Il diritto del lavoro come cultura - di P. N.

Attualità
Contratti pubblici. Un avvio travagliato. - di P. Pirani
Statali un contratto per continuare a rinnovarsi - di S. Bosco
Il nostro impegno per il contratto - di M. Di Menna
Napoli senza pace - di A. Carpentieri

Sindacale
Patto per la salute: come renderlo concreto - di N. Nisi
Congresso CES: Un’occasione mancata - di C. Del Rio

Economia
Progresso o regresso ovvero il tempo si muove in linea retta o in cerchio? - di G. Paletta
Il predominio della finanza sulla produzione di beni e servizi. - di A. Ponti

Internazionale
Incontro fra i sindacati metalmeccanici italiani e brasiliani - di G. Moretti

Agorà
Presentazione del libro “Aspettando la rivoluzione” di Antonio Ghirelli - di G. Salvarani
A proposito dell’ultimo libro di Foccillo. - di P. N.
Facciamoci contaminare... - di C. Benevento
La Città malata - di M. A. Lerario

Cultura
Leggere è rileggere. - di G. Balella
Le vite degli altri - di S. Orazi

Inserto
L’età dello sviluppo - di P. N.

Separatore

EDITORIALE

In economia ognuno ha le sue ricette, ma a pagare sono sempre gli stessi

Di Antonio Foccillo

Le recenti valutazioni dell’OCSE sull’economia italiana che cresce e che manterrà tale prospettiva, anche per l’anno prossimo, inducono ad alcune considerazioni. È palese, ritengo, che il sindacato confederale possa avanzare più di una rivendicazione. I lavoratori italiani e i pensionati, con i loro sacrifici hanno contribuito a determinare queste prospettive di sviluppo ed è giusto tenerne conto nell’affrontare il prossimo Dpef. Riteniamo, infatti, che sia necessario proseguire nella crescita, favorendo lo sviluppo con manovre che puntino sugli investimenti, sulle innovazioni e sulla produttività e, contemporaneamente, migliorando le condizioni di vita dei cittadini, con incrementi economici adeguati di salari e pensioni, riducendo le evasioni fiscali e abbassando il prelievo fiscale. Bisogna favorire, in definitiva, opportune azioni che consentano un aumento dei consumi interni che si sono ridotti a causa, proprio, della caduta del potere di acquisto dei salari e delle pensioni. Non si può proporre un nuovo periodo di sacrifici con riforme che incidono sugli stessi soggetti e, soprattutto, bisogna che si apra seriamente un confronto con le parti sociali per misure condivise. Si era proposta una “nuova politica dei redditi”, ma ad oggi il confronto langue e il Governo non ha ancora precisato la sua posizione sulle tante tematiche messe all’ordine del giorno. Ci chiediamo quando partiranno i tavoli con confronti di merito. Questi confronti devono dare risposte concrete a chi, negli ultimi anni, ha visto indebolirsi considerevolmente l’economia familiare in un contesto che adesso scopriamo, a livello nazionale, positivo. Sarà un caso ma ogni volta che ascoltiamo i resoconti di chi ha vissuto le riforme strutturali imposte sui criteri neoliberali ci troviamo di fronte a questa caratteristica. Positivi risultati macroeconomici non ritrovano analogo favore nelle economie della maggioranza delle famiglie. La nostra esperienza particolare è stata quella dell’introduzione dell’euro con i risultati, appunto, positivi e negativi che ben conosciamo. Ci sono teorie che fanno risalire a politiche monetarie sbagliate, a volte in maniera anche sconcertante, le difficoltà del passaggio lira/euro. Non sono sempre teorie convincenti, ma ciò che appare più di cattivo gusto è che siano quasi sempre le stesse fonti a invocare le solite politiche, che ora si volgono, cosa del resto non nuova e anche piuttosto scontata, sul versante della previdenza. Un confronto che non può essere rinviato, ma che in realtà non dovrebbe essere vissuto con i toni drammatici che, ad arte, gli vengono disegnati, vuole in definitiva ridurre al minimo la spesa sociale per i lavoratori dipendenti, lasciandoli sempre più in balia di un mercato, dalle regole incerte, che si ispira a modello che non è quello europeo.

Questo è il progresso che vogliamo? La libertà significa tornare all’ottocento e rinnegare anni di lotte e conquiste sociali? Credo e spero proprio di no! Se l’obiettivo di un governo deve essere solo il pareggio del bilancio, allora richiamiamo lo spirito di Quintino Sella e risolviamo il problema. Ma se invece di dedicarci alle sedute spiritiche vogliamo aprirci al confronto sul futuro, dobbiamo iniziare a dialogare, costruttivamente.

Decidere politiche economiche che hanno riflessi sui propri cittadini deve significare inquadrarle in un modello di società che si vuole perseguire. Ed allora le scelte vanno fatte mantenendo intatto il modello Europeo, ancora attuale, dove si tengono insieme, in una società coesa, i diritti dei poveri e dei più deboli, attraverso lo stato sociale, con quelli dei più forti che contribuiscono secondo il loro reddito, attraverso la contribuzione fiscale.

Realizzare questa prassi significa ripuntare ad una nuova politica dei redditi. Alcuni sostengono che non è più tempo di politica dei redditi, noi no, ma è chiaro che almeno su ciò il governo deve dire la sua. Se è disposto veramente a perseguire una moderna politica dei redditi ci troverà interlocutori onesti e convinti, se non è disposto a farlo il sindacato saprà, sia dal punto di vista strategico sia sui contenuti più immediati, gestire altre politiche rivendicative che, in ogni caso, non possono non dare quelle risposte che dicevo sopra. Altrimenti i lavoratori percepirebbero questa fase storica come una guerra di classe, contro di loro, portata avanti dal capitale internazionale rappresentato dalle burocrazie di alto rango nazionale ed internazionale, sempre più influenti sul mondo politico, pronto a seguire tutte le indicazioni che di volta in volta vengono indicate come necessarie ed indispensabili. E ora sono ancora le pensioni al centro dell’attenzione. Se il governo non dialoga, non concerta – per essere più espliciti – ci induce a sospettare che questo timore, spesso vagheggiato da frange minoritarie e poco rappresentative, sia invece qualcosa di più che una visione “dietrologica, all’italiana”. La politica deve dialogare con la società, si parla spesso di distacco tra politica e società e credo sia reale questo rischio: la politica parla – questo sì – con l’economia, ma ha perso il suo peso ed ha avuto ridimensionato il suo ruolo nei confronti dell’economia, del capitale. Vogliamo delegare a solo ad alcuni soggetti le sorti del paese? Non si riesce a capire perché il sindacato che rappresenta milioni di lavoratori dipendenti debba assistere a dialoghi non istituzionali in cui la sua voce non esiste e i tavoli istituzionali, peraltro annunciati e dove tutti avrebbero la possibilità di intervenire, non partono. Questo governo sta dimostrando difficoltà crescenti e noi ci auguriamo che riesca rapidamente a riprendere la rotta giusta. Innanzitutto nel confronto con le parti sociali, per dimostrare che lo scollamento con la società non è assoluto e può essere sanato. Un’ultima considerazione la voglio fare sull’Europa. Abbiamo delegato sempre più livelli decisionali all’Europa, ma poi ci siamo trovati impantanati in una situazione che, ancora una volta, premia e incoraggia le grandi burocrazie estranee alla politica e al confronto democratico, delegando decisioni che devono essere prese con il consenso di tutti a tecnici che non rispondono ai cittadini. Questo pericoloso deficit democratico si è allargato con l’impasse sul testo della costituzione UE. Si parla impropriamente di un testo ridotto (mini trattato) o di una modifica del precedente riducendone le ridondanze, ma si dimenticano due aspetti pure importanti: è vero che essa è stata rifiutata da due Paesi, ma è vero anche che è stata approvata da altri diciotto; e inoltre la vera sofferenza che ha determinato anche le bocciature di quei cittadini ai referendum è la questione della Carta dei Diritti Fondamentali. Essa pone sullo stesso piano i diritti economici e sociali con quelli umani in generale. In particolare, essa garantisce il diritto all’informazione e alla consultazione, il diritto a negoziare ed a intraprendere azioni collettive incluso il diritto di sciopero. Essa garantisce una protezione contro il licenziamento ingiustificato, il diritto alla sicurezza sociale ed il principio di eque condizioni di lavoro. Per il sindacato Europeo è la Carta fondamentale per il futuro dell’Europa che se fosse soppressa danneggerebbe in profondità l’Europa Sociale, ma va mantenuta perché è l’unico strumento in grado di affermare i diritti dei lavoratori e sostenerli nella libera circolazione ed evitare dumping sociale.

Il rischio di una involuzione sul piano della democrazia è concreto e varrebbe la pena rifletterci in maniera più approfondita: più che il deficit economico si rischia il deficit democratico!

Separatore

Le politiche fiscali e contrattuali diventano i pilastri su cui fondare la crescita del potere d’acquisto. Intervista a Luigi Angeletti

di Antonio Passaro

Cominciamo da una buona notizia: c’è finalmente l’accordo per il rinnovo del contratto dei lavoratori del pubblico impiego. Si chiude, dunque, un fronte di scontro che ha coinvolto il mondo del lavoro negli ultimi mesi e che ha reso più complicati i rapporti con il Governo. Sei soddisfatto?

Sono soddisfatto perché abbiamo ottenuto, mediamente, 101 euro di aumento per gli oltre tre milioni di lavoratori del pubblico impiego, così come avevamo rivendicato nei mesi scorsi. Abbiamo, cioè, respinto il tentativo di diluire l’aumento dei 101 euro che, grazie alla nostra determinazione, decorre dal 1 febbraio e non dal 31 dicembre 2007. Certo, resta il rammarico per il troppo tempo trascorso in attesa che il Governo si convincesse della validità delle nostre richieste. Ma, alla fine, ha prevalso il buon senso e la conclusione della vicenda va giudicata positivamente proprio in riferimento al risultato economico conseguito.

Eppure, proprio nelle sue ore conclusive, nonostante il conseguito risultato economico, la trattativa ha rischiato di fallire, incagliatasi sul punto della cosiddetta “triennalizzazione”. Cosa è successo?

Il Governo ci ha proposto di portare a tre gli anni di vigenza del prossimo rinnovo contrattuale nel pubblico impiego. Una soluzione, questa, che abbiamo giudicato come un’opportunità da cogliere in vista di una riforma del sistema contrattuale, divenuta ormai necessaria per ottenere la crescita del salario reale. Si tratta ovviamente solo di un primo passo che va nella direzione auspicata. Peraltro, i tempi per il rinnovo sono già oggi, nei fatti, resi triennali a causa dell’atteggiamento dilatorio della controparte. Così ciò che doveva essere fruito in due anni viene diluito anche nel corso dell’anno in più, trascorso nell’estenuante attesa della firma del contratto. Ebbene, non tutti, quella sera, hanno valutato allo stesso modo l’opportunità di rendere triennale il prossimo contratto e si è rischiato di rompere proprio su questo punto.

Mi pare di capire che la questione sia sempre la stessa: bisogna far crescere i salari dei lavoratori dipendenti e, per ottenere questo risultato, bisogna cambiare la politica contrattuale e la politica fiscale. Quello della triennalizzazione dei futuri contratti è un primo segnale concreto del Governo in questa direzione. E’ così?

E’ così. Le politiche fiscali e contrattuali diventano i pilastri su cui fondare questo progetto. Bisogna ridurre le tasse sul lavoro, da un lato, magari detassando i prossimi incrementi contrattuali, e bisogna costruire un modello contrattuale, dall’altro, che sia in grado di far crescere il salario reale dei lavoratori. I prossimi appuntamenti tra le parti sociali e i confronti con il Governo saranno l’occasione per rilanciare queste nostre rivendicazioni. Non c’è più spazio per generici impegni né tanto meno per inutili proclami. Se non crescono i salari dei lavoratori dipendenti e se non si riducono le loro tasse, la Uil prenderà atto di ciò e assumerà decisioni conseguenti.

Cosa ne pensi, invece, della proposta di detassare gli straordinari?

Non mi pare che sia questa la vera priorità. Noi oggi abbiamo un problema di bassa produttività che non si risolve aumentando le ore di lavoro. Per risolvere quel problema occorrono più investimenti e una migliore organizzazione del lavoro. Lo ribadisco: a noi interessa ridurre le tasse sugli aumenti salariali contrattati.

Resta aperto il problema delle pensioni. Anche qui mi pare non ci sia nulla di nuovo da aggiungere. La posizione della Uil è ben chiara…

La Uil non sente alcun bisogno di un’altra riforma sulle pensioni semplicemente perché il sistema è in equilibrio e non ha alcun bisogno di nuove riforme. Questa verità sarà evidente quando, finalmente, si procederà alla separazione tra assistenza e previdenza e si vedrà con assoluta chiarezza che l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil è del tutto in linea con quella degli altri Paesi europei comparabili con il nostro. Bisognerà semplicemente eliminare il cosiddetto “scalone”, inutile e ingiusto, e occorrerà lasciare libere le persone di decidere quando andare in pensione, incentivandole economicamente a prolungare la propria attività lavorativa. Non serve altro e anche su questo fronte la Uil non intende far passare soluzioni che siano pregiudizievoli per i lavoratori prossimi alla pensione o per le future pensioni dei nostri giovani. In questo senso, una riduzione dei coefficienti è inaccettabile tanto più che essa sarebbe basata su parametri completamente superati e inapplicabili. La verità è che il nostro Paese ha un debito pubblico enorme e si intende fare la riforma previdenziale perché così si vuol pagare questo debito, determinato soprattutto da un’evasione fiscale ormai insostenibile. Ma è mai accettabile che una riforma sulle pensioni serva a coprire i buchi generati dall’evasione? Appare invece non più rinviabile una rivalutazione delle attuali pensioni, frutto di contributi versati nel corso di una lunga vita di lavoro, che sono oggi falcidiate dalla crescita economicamente ingiustificata dei prezzi e delle tariffe.

Giugno è, tradizionalmente, il mese della presentazione del DPEF. Il Sottosegretario Letta ha detto che riparte la concertazione e che proporrà, proprio in vista del DPEF, una riunione per il prossimo 15 giugno con le parti sociali. Ci sono novità?

Al momento non c’è alcuna novità. Aspettiamo di conoscerla.

Separatore

La Uil e i Ministri del Lavoro del passato

Sen. Franco Marini, Presidente del Senato: un accordo per mantenere l'aggancio con l'Europa

di Piero Nenci

Dopo sei anni alla guida della Cisl Franco Marini si trovò improvvisamente dall’altra parte del tavolo quando Andreotti lo investì dell’incarico di guidare il ministero del lavoro. Fu un momento delicatissimo – confessa l’attuale Presidente del Senato – perché nel Paese si avvertiva sfiducia e stanchezza nei confronti della politica che si manifestavano con una conflittualità diffusa.

Anni di ferro quelli del ’91 e del ’92 quando Franco Marini arriva al dicastero del lavoro. A gennaio era iniziata l’inarrestabile implosione dell’Urss. In Italia tenevano banco le delittuose imprese di misteriosi killer a bordo di una Uno bianca. A marzo era morto Carlo Donat Cattin e subito dopo anche il governo Andreotti era entrato in crisi e il presidente Cossiga, compiuto il giro delle consultazioni, aveva affidato la responsabilità di formare un nuovo governo di nuovo a lui (sarà il suo VII e ultimo governo). Andreotti chiama al ministero del lavoro Franco Marini. Perché era successo che a marzo Marini aveva annunciato che avrebbe lasciato la Cisl alla guida di Sergio D’Antoni ed era entrato nel gruppo Dc di Forze Nuove. Ad aprile arriva la chiamata ministeriale e Marini accetta: “Sarò il ministro di tutti” risponde ai critici che lo indicano come uomo di parte. A giugno si va al voto per le amministrative con questi risultati: 37% alla Dc, 19,2 per gli ex Pci e 20,2 per il Psi. A giugno italiani di nuovo alle urne per il referendum sulla preferenza elettorale unica: vota il 62,5% degli aventi diritto e la quasi totalità dice di sì. Subito dopo Fini arriva al vertice del Movimento Sociale e il ministro delle finanze Formica pubblica il Libro rosso dei redditi evasi, quantificando il reddito nascosto in 30 mila miliardi di lire. Giovanni Paolo II invece pubblica l’enciclica Centesimus annus: Marini ne pubblicò un’attenta analisi su un giornale romano. Scrisse che la voce del papa parlava a tutti, umili e potenti. La linfa che sale, ormai da cento anni dalla radice della Rerum novarum non è esaurita ma è diventata più feconda. Il sindacalista trovava nelle parole del Papa “un’ansia di fraternità, la tensione per la solidarietà, la ricerca e la testimonianza  della verità e della giustizia”. L’anno dopo non è da meno: inizia col traffico del mercurio rosso (elemento base per le armi atomiche), prosegue con un attentato ad un treno, fortunatamente fallito, sulla linea Lecco-Milano. A marzo viene ucciso Salvo Lima e più avanti l’assalto della mafia colpisce Falcone e Borsellino. Mai era arrivato così in alto il potere mafioso. In aprile Cossiga entra in rotta di collisione un po’ con tutti e si dimette con 66 giorni di anticipo. Al Quirinale sale Scalfaro. Ma anche il governo Andreotti era arrivato alla fine della corsa e così finisce prematuramente dopo appena un anno anche l’esperienza ministeriale di Marini. Sarà Amato a mettere assieme una nuova compagine di governo, affidando il dicastero del lavoro a Nino Cristofori. Il nuovo ministro del lavoro di quegli anni si trovò sul tavolo i problemi di sempre: la disoccupazione, le massicce richieste di cassa integrazione in particolare da parte della Fiat, la riforma del sistema pensionistico, la trattativa sul costo del lavoro arenatasi ormai da tempo (e portata poi a termine da Gino Giugni). Anche lui fu chiamato a mediare: per il contratto dei giornalisti (in panne allora come adesso) e per quello dei lavoratori dell’agricoltura che si trascinava da quasi due anni e che lui riuscì a concludere. Dovette affrontare situazioni spinose come quella dell’Acna di Cengio, industria altamente inquinante che si voleva chiudere mandando a spasso un certo numero di lavoratori, o come quella della salute nei luoghi di lavoro (il famigerato amianto) e degli incidenti sul lavoro: nel 1990 erano stati 47 mila in più dell’anno precedente. E mentre il settimo governo Andreotti barcolla, a febbraio del ’92 scoppia a Milano il caso Chiesa e cominciano le massacranti inchieste di “mani pulite”.

Furono davvero anni di ferro, quelli nei quali Marini fu chiamato a reggere il ministero del lavoro. “Sì – risponde il Presidente del Senato – i primi anni ’90 sono stati un periodo per tanti versi drammatico della nostra storia recente perché vennero improvvisamente al pettine tutti i nodi irrisolti dell’economia e della politica”. A Franco Marini abbiamo rivolto una serie di domande su quell’anno trascorso da ministro del lavoro e nonostante le grane e gli impegni che si trova quotidianamente davanti come Presidente del Senato ci ha gentilmente risposto.

Ecco le risposte del Presidente del Senato:

Marini, nel 1991 l’onorevole Andreotti la chiamò al ministero del Lavoro nel suo VII governo: fu una scelta tecnica perché lei era un esperto del lavoro o una scelta politica perché aveva sostituito il compianto Donat Cattin alla guida di Forze Nuove?

La Democrazia cristiana ha sempre dato grande attenzione alla rappresentanza, all’interno dell’esecutivo, delle diverse sensibilità esistenti nel partito. Ma nel caso di Donat Cattin, come nel mio, penso di poter dire che scelta politica e tecnica si fondessero. E’ vero che io ero divenuto coordinatore di “Forze nuove” ma lo è altrettanto che avevo maturato una competenza e una conoscenza del mondo del lavoro nei lunghi anni trascorsi alla Cisl. Lo stesso Donat Cattin, che della Cisl fu uno dei fondatori, era stato ministro del Lavoro dal ’69 al ’72 e più tardi ministro dell’Industria e dell’Artigianato. Certo, gli incarichi di governo sono sempre scelte politiche, ed è un bene che sia così, ma la storia personale contò.

Da uomo del sindacato a dirigente politico, peraltro con incarichi immediatamente di grande responsabilità. Fu un cambio complicato?

L’essere a capo di un grande sindacato era già, in una qualche misura, “un ruolo politico”. E di non poca responsabilità… Avere incarichi direttivi in una organizzazione complessa, sia essa un partito, un sindacato o una società per azioni significa comprendere determinati meccanismi, assumersi le proprie responsabilità ed essere pronti a risponderne. Sotto questo profilo il passaggio dal mondo sindacale a quello politico non è stato complesso. Le difficoltà, semmai, sono state altre. L’universo della politica è molto più vasto, bisogna sapersi confrontare con una molteplicità di istanze, di temi, di problematiche più varie e complesse. E soprattutto si deve mutare il proprio approccio ai problemi. Il sindacalista è un uomo necessariamente di parte, rappresenta l’interesse particolare di un gruppo, di una categoria, di un settore. Ha un mandato e una missione precisa da adempiere. Al contrario un esponente politico, ed un uomo di governo, deve – anche se espressione di un partito – avere sempre una visione generale, la capacità di conciliare interessi e bisogni espressi da fasce diverse della popolazione. Credo comunque di  aver interpretato correttamente anche questo ruolo. 

Appena arrivato a via Flavia lo aspettavano due problemi, uno più scottante dell’altro: la cassa integrazione alla Fiat e l’eterna riforma delle pensioni. Fu una doccia fredda di benvenuto?

Non fu un momento facile da vivere come ministro del Lavoro. I primi anni ’90 sono stati un periodo per tanti versi drammatico della nostra storia recente. Vennero improvvisamente al pettine tutti i nodi irrisolti dell’economia e della politica. La cassa integrazione alla Fiat non fu che un aspetto della crisi generale che stava investendo la struttura produttiva del paese. L’Italia perdeva quote di mercato e competitività. In quella situazione urgeva affrontare i problemi strutturali dell’economia italiana. Se debbo guardare ad allora con gli occhi di oggi osservo che, mentre sulla scala mobile, dopo grandi e comprensibili difficoltà, si riuscì a prendere decisioni coraggiose, non altrettanto si riuscì a compiere sul versante delle pensioni. I tempi non erano ancora maturi? Può darsi, ma siamo ancora a discuterne, a distanza di più di tre lustri.

E poi la trattativa sul costo del lavoro che dopo la crisi del governo Andreotti passò al suo successore. Rileggendo i giornali dell’epoca sembra che lei fosse stretto nella morsa sindacati-imprenditori-membri del governo-forze politiche. Fu una fase particolarmente difficile del suo mandato?

Si è trattato di un periodo difficile e delicato. Non solo per me, ma per il Paese. Eravamo a un bivio. Tutti. Di lì a poco sarebbe scoppiata tangentopoli e l’economia italiana già versava in condizioni critiche. Quella trattativa detta di “giugno”, perché l’avvio ufficiale risale al 20 giugno del ’91, risaliva in realtà addirittura all’anno precedente. Il 6 luglio del ’90 infatti l’allora ministro del Lavoro, Donat Cattin nel pieno di una difficilissima stagione contrattuale, dopo che la Confindustria aveva disdetto l’accordo sulla scala mobile e bloccato le trattative per i rinnovi dei contratti di categoria, si era impegnato a portare avanti la trattativa. Fu una vertenza lunghissima, la cui soluzione si rivelò fondamentale per il paese. Si concluse solo nel ‘93 durante il governo Ciampi con quel nuovo sistema di contrattazione tra impresa e sindacati -  ribattezzato l’accordo del luglio ’93 - che ha consentito all’Italia di rimanere agganciata all’Europa e di entrare nell’Euro al primo turno. Tutti i suoi protagonisti, se ne avvicenderanno parecchi, si trovarono a navigare in acque difficili. L’Italia era attraversata da una grande conflittualità politica e sociale. In quel clima di confusione e di contrapposizione le parti sembravano essersi irrigidite ognuna sulle sue posizioni. Per fortuna col tempo ha prevalso il buon senso.

Tutto sommato come ricorda quei dodici mesi da ministro del Lavoro?

Venivo dalla esperienza di segretario generale della Cisl. Erano stati anni allo stesso tempo entusiasmanti e difficili: anni di successi per il sindacato, funestati però dal colpo di coda del terrorismo che costò la vita ad Ezio Tarantelli. Dopo sei anni alla guida del sindacato accettai con entusiasmo il dicastero del Lavoro. Anche se non fu facile trovarsi d’improvviso dall’altra parte del tavolo. Era un momento delicatissimo della storia dell’Italia. Nel Paese si avvertiva una sfiducia, una stanchezza nei confronti della politica che si manifestava in una conflittualità diffusa. La mia esperienza si svolse nell’ultimo governo guidato da Andreotti nonché l’ultimo della prima Repubblica. Eravamo in una situazione di transizione e si sentiva. Fu un anno difficile, certo. Della trattativa sul costo del Lavoro ho già detto. Ma furono anche mesi di grande importanza nella mia vita. L’inizio della mia attività politica. L’anno successivo mi candidai alle elezioni. E fu un grande successo.

Se le avessero riproposto in seguito quell’esperienza l’avrebbe accettata?

Non lo so. Ogni cosa a suo tempo. Da quel 1991 sono cambiate molte cose. La politica si è profondamente trasformata. Nel nuovo contesto scelsi di dedicarmi alla riorganizzazione del partito, un compito che dopo la bufera di Tangentopoli mi è sembrato non meno importante di una diretta partecipazione a un qualunque governo. E poi mi sono sempre considerato un contrattualista di razza. La mia vera passione è sempre stata la ricerca di un punto di equilibrio, di una mediazione. Nel sindacato come nell’attività politica. Ora presiedo un Senato che è forse nella situazione più difficile della sua storia. Non mi posso lamentare...

Valid XHTML 1.0 Transitional Valid CSS! [Valid RSS]