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GENNAIO 2008 

LAVORO ITALIANO

Direttore Responsabile
Antonio Foccillo

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Edizioni Lavoro Italiano
Autorizzazione del Tribunale
di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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DICEMBRE 2007

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SOMMARIO

Editoriale

Quale nuova “mission” per l’Italia? - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti: l’emergenza salariale nel nostro Paese ha bisogno di risposte immediate - di A. Passaro

Società

Il ruolo dello stato laico - di D. Proietti

Sindacale

Quali contratti per il pubblico impiego? - Intervista a Massimo Massella Ducci Teri, Presidente dell’ARAN - di A. Foccillo
Globalizzazione e mercato del lavoro - di L. Palermo
Recupero del potere d’acquisto dei pensionati e tutela delle persone non autosufficienti - di  R. Bellissima
Una “tragedia continua” - di A. Carpentieri

Economia

Limiti agli investimenti dei fondi pensione: le nuove linee guida proposte dal ministero dell’Economia non sono tutte condivisibili - di F. Ortolani

Europa

Il futuro dell’Europa riparte da Lisbona - di A. Ponti

Attualità

Buon viaggio da Trenitalia - di M. A. Lerario
Lo sfruttamento della persona e la speculazione sull’ambiente. Le due azioni più aberranti che una società possa subire - di G. Salvarani

Agorà

La BCE e l’economia Europea - di M. Ballistreri
Essere o non essere - di S. Maggio
Ma l’ultima settimana del mese non è la stessa per Cipputi e “Lorsignori”… - di C. Benevento
Le lotte dei lavoratori - di G. Paletta
La storia della UIL dalla fondazione alla fine degli anni ’60 elaborata da un iscritto - di G. S.
Il protocollo tra Ministero per la Politiche Giovanili ed ABI sul credito agevolato ai giovani - di M. Abatecola

Internazionale

Gli epigoni della guerra fredda e l’indipendenza del Kosovo - di  A. P.

Cultura

Leggere è rileggere: SÁNDOR MÁRAI - di G. Balella
Le parole di Tornatore - di F. Croce
Inserto a cura di P. Nenci
Rapporto CENSIS 2007
Indice dell’annata 2007 di Lavoro Italiano

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EDITORIALE

Quale nuova “mission” per l’Italia?

Di Antonio Foccillo

Ogni giorno si assiste alla dicotomia fra le esigenze reali delle persone e la capacità di risposta dei livelli istituzionali. Un recente articolo del New York Times ha parlato dell’Italia in termini negativi: la sfiducia degli italiani verso il proprio paese; l’economia ferma; l’invecchiamento. Ma la realtà supera l’immaginazione. Per questo meraviglia che sia stato necessario questo articolo, al di là dei suoi contenuti, per aprire una discussione su qualcosa che, invece, da tempo si avverte nella nostra società. Una crisi c’è e anzi si sviluppa su più piani. Il nostro è un paese che vive da tempo una crisi di rappresentanza. Mancano i soggetti capaci di veicolare i diversi interessi e mediarli nell’agorà. Quindi sono soprattutto i più giovani che trovano nella violenza una via di sfogo a questa mancanza. Lo sport è il pretesto, su cui frange eversive speculano abilmente, per raccogliere l’energia della protesta giovanile in Italia. L’obiettivo di questa violenza è la polizia che a sua volta, qualche giorno dopo, scende in piazza poiché anche essa non si sente rappresentata ed ascoltata. I tassisti romani bloccano una città e qualche giorno dopo gli autotrasportatori una nazione. Le regole sul diritto di sciopero sono bellamente ignorate. Il dialogo, peraltro, si afferma solo dopo la protesta senza regole. Il sindacato confederale è uno degli ultimi soggetti collettivi che ancora riesce a dare rappresentanza a larga parte del lavoro dipendente. Eppure è stato oggetto di qualche contestazione nei giorni del tragico lutto alla Thyssen Krupp di Torino. L’ultimo caso in ordine di tempo la “questione” spazzatura a Napoli con i riflessi negativi non solo per l’ambiente e la salute pubblica. I cittadini napoletani sono sempre più esasperati e sfogano la loro rabbia contro tutti e contro tutto con atti che vanno dal vandalismo alla protesta ma con un unico denominatore comune: sfiducia e distacco sempre più ampio fra cittadini e rappresentanti delle istituzioni. Tutti questi episodi si legano strettamente tra loro, pur nelle profonde diversità, infatti, confermano la crisi di rappresentanza di questo paese. Gli italiani non si sentono rappresentati e quindi, in forme diverse, riemerge uno spirito corporativo che può dare una parziale risposta a questo bisogno naturale per l’uomo. La crisi è trasversale, nel senso che nessuno ne è esente. E si articola sul piano dei valori, della politica e quindi della partecipazione democratica.

La società è frammentata e la politica non riesce a dare risposte, in particolare ai lavoratori e alla fascia più debole della società. Il dibattito politico è sempre più concentrato sul proprio ombelico e non riesce a andare fuori da questa logica sterile e improduttiva. Consapevole della mancanza di uno strumento collettivo che garantisca ai cittadini la possibilità di partecipare alla vita pubblica, la nostra politica si impegna nella costruzione artificiale dello strumento senza interrogarsi su quale uso debba poi essere fatto di questo strumento. Per chiarire: per quale motivo un cittadino dovrebbe partecipare alla vita politica? In realtà ciò che manca alla nostra società, a noi italiani, è il senso di una “mission” da compiere. Se gli anni cinquanta sono stati gli anni della ricostruzione, i sessanta quelli del boom e della contestazione, i settanta della crisi petrolifera e del terrorismo, gli ottanta quelli della lotta all’inflazione e poi, con l’inizio degli anni novanta, dell’ingresso in Europa, dalle soglie del 2000 non si avverte più nessuna meta collettiva da raggiungere. La politica si pone questo problema? Non mi sembra. Nessuno, infatti, affronta in modo serio la questione fondamentale: quale modello di società vogliamo per il futuro. Servono risposte a vari problemi. La questione del recupero del potere d’acquisto delle pensioni e dei salari. La sicurezza sul lavoro, diventata una vergogna nazionale oltre che una tragedia continua. La sicurezza delle nostre città. La casa (mutui e affitti alle stelle) e tanti altri. Si cercano delle risposte parziali, ma non si affronta il problema complessivamente. Inoltre abbiamo, non solo noi italiani, delegato ad una Europa sempre meno democratica – nel senso che non risponde alla politica ma ai tecnici e ai banchieri – gli indirizzi di politica economica. Ci siamo tuffati senza salvagente e senza saper nuotare in un mare tempestoso, quello del mercato senza regole, che l’ideologia neoliberista ha imposto al mondo. Guido Rossi, che di capitalismo ne mastica, si è recentemente espresso contro il globalismo liberista, almeno nelle sue forme estreme che non prevede quelle regole che, senza dover necessariamente affossare il mercato, possono però permettere realmente a tutti di vivere la propria esperienza di vita in libertà e con pari opportunità. Il concetto che ritengo fondamentale sottolineare è che la politica italiana, in larga parte, ha sposato l’ideologia neoliberista. La definisce inevitabile. È il futuro senza ritorno e non ci sono alternative. Ma il liberismo ha una sua storia, ha vissuto fasi in cui ha dominato la scena mondiale, è stato, successivamente messo da parte. Lo stesso Rossi ha ricordato la “facile profezia” di Keynes alla vigilia del ’29 e le inquietanti similitudini con il nostro periodo. I cicli dell’economia influenzano inevitabilmente la politica ma il fatto sconcertante è che, per chi si ritiene di sinistra, influenzano anche la sinistra in modo tale da annullare in realtà il ruolo stesso della politica e quindi il significato della rappresentanza e le sue forme. E non è solo un problema della sinistra italiana. Il riformismo è da noi, ma anche in Francia, la parte debole della sinistra. Lo smantellamento del PS francese ad opera di Sarkozy è la prova che fare la “sinistra della destra” non è la strategia vincente. Il socialismo è ancora un valore su cui credere e su cui puntare per un modello di società diverso. Un socialismo moderno, democratico, ma un socialismo che non può essere annacquato dal libero mercato senza regole. Il riformismo deve essere pronto a riformare lo Stato sociale, a garantire le condizioni per lo sviluppo economico e per relazioni internazionali basate sul confronto pacifico e democratico. Ma non può pensare di smantellare lo Stato sociale, accettare un mercato senza regole (a partire da quelle del lavoro) e dimenticare (o lasciare alla retorica) il significato dello sviluppo sostenibile. Se i cittadini italiani non riconoscono in un nuovo soggetto politico una credibile alternativa alle sabbie mobili (immagine forse più eloquente del mare in tempesta) del neoliberismo, perché mai dovrebbero entusiasmarsi? Se la sinistra si presenta come la versione “soft” della destra, riproponendo peraltro una visione elitaria anche della partecipazione per quale motivo un operaio che a stento riesce a sbarcare il lunario alla fine del mese, che ha esperienze di lavoro insicuro, sia sotto l’aspetto degli infortuni sia sotto quello del precariato, ne dovrebbe essere attratto?

Per anni si è detto, anzi, che gli operai non esistevano più! Anche a sinistra. Come meravigliarsi se la crisi di valori, di partecipazione e rappresentanza sia arrivata a tali livelli?

Una sinistra che oggi viene spesso definita radicale è rimasta. Ma non è questa l’alternativa credibile per la stragrande maggioranza dei lavoratori e dei cittadini. Ma il problema non è, ovviamente, che questa sinistra esista. Il problema è che il riformismo italiano ha smarrito la propria identità e quindi non riesce più a dare rappresentanza ai lavoratori e ai cittadini. Il recupero di questa rappresentanza deve passare attraverso il recupero di un progetto di nuovo modello di società, che sappia sì leggere le nuove realtà internazionali, ma con le lenti dei valori tradizionali della sinistra, senza i quali inevitabilmente si smarriscono le identità e quindi non si rappresenta nessuno. La nuova “mission” italiana potrebbe essere quella di favorire una nuova Europa? Una Europa anche mediterranea e non solo anglosassone, per esempio, ed invece di andare a gareggiare sui numeri del PIL, perché non andare a ricercare alleanze strategiche che non significano la ricerca di particolarismi in Europa. Significano semmai provare a far pensare diversamente l’Europa. A sviluppare politiche diverse, anche con le altre aree del mondo. Il limite di chi ha sposato il neoliberismo, infatti, è non aver capito che esistono modelli di società diversi, compatibili anche tra loro se si ragiona in termini di pace, democrazia e tolleranza, mentre invece il voler uniformare a tutti i costi ogni angolo del mondo comporta, e comporterà, guerre, sopraffazioni ed intolleranza. Una nuova fase potrebbe iniziare con il riscrivere le regole della convivenza civile, visto che molte parti della nostra costituzione sono state disattese o delegate alla Unione Europea e che i soggetti che avevano dato corso a quel patto oggi non esistono più. Bisogna riscrivere il patto con regole chiare sui luoghi della partecipazione democratica e sul riconoscimento alle varie forme di rappresentanza per poterla realmente affermare, altrimenti non solo si crea sfiducia ma anche ricerca di qualcosa che produca risultati concreti e che, a volte, può sfociare nella violenza o nella richiesta “dell’uomo forte”. Mortati sosteneva che vi può essere uno scarto fra Costituzione “reale” e costituzione “formale” perché le forza politiche e sociali possono cambiare rispetto al passato e adeguano le norme alla loro impostazione. È pertanto opportuna una seria e approfondita riflessione, in particolare da parte di chi ambisce a rappresentare il mondo del lavoro, per ricreare i presupposti politici affinché questa rappresentanza recuperi forme e significato. Una riflessione sul modello di società che si vuole disegnare per il futuro. Una società con regole, con diritti e con la garanzia concreta delle pari opportunità, per cui nessuno sentirà più il bisogno di ricorrere alla violenza per far ascoltare la propria protesta o richiesta. Una società dove l’economia è libera ma non invade lo spazio della politica e quindi dove la democrazia si sostanzia attraverso la partecipazione e la rappresentanza.

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L’emergenza salariale nel nostro Paese ha bisogno di risposte immediate Intervista al Segretario Generale della Uil Luigi Angeletti

di Antonio Passaro

Nel documento dei Direttivi Unitari di Cgil, Cisl e Uil dello scorso 18 gennaio, i Sindacati chiedono l’avvio di un negoziato con il Governo ma soprattutto esigono risposte chiare ed immediate in merito ad alcune questioni urgenti: alleggerimento del carico fiscale, crescita dei salari e della produttività.  Si prospetta, quindi, un fronte aperto che culminerà il 15 febbraio in una mobilitazione di carattere generale. Si può parlare di un vero e proprio ultimatum?

L’emergenza salariale nel nostro Paese ha bisogno di risposte immediate e il Sindacato deve esigerle con tutta la determinazione necessaria. Anche a causa di questa emergenza l’Italia è diventata una società del malessere, in cui i cittadini si sentono fortemente a disagio e non riescono a ritrovare l’ottimismo e la fiducia nel futuro. Bisogna, quindi, sciogliere quei nodi che tengono legato il Paese ad una condizione di lenta crescita e bassa produttività. E vanno attuate misure che diano respiro a milioni di lavoratori italiani e, conseguentemente, diano slancio all’economia. Non si può più attendere oltre: bisogna ridurre le tasse ai lavoratori dipendenti e ai pensionati. Questo è l’unico atto che può fermare la manifestazione del 15 febbraio. Questa è l’unica strada che noi dobbiamo intraprendere affinché vengano poste in primo piano le vere priorità, le concrete emergenze di un’Italia che stenta a decollare. Se non avremo risposte chiare e comprensibili saremo pronti ad uno sciopero generale.

Insomma, la questione è sempre la stessa: bisogna ridistribuire la ricchezza e per far ciò bisogna agire sulla leva fiscale e su quella contrattuale…

Non c’è dubbio. Il problema è che, per l’ennesima volta, siamo costretti solo a parlare di queste soluzioni senza vedere attuate le scelte conseguenti che chiediamo. Ecco perché abbiamo deciso di ricorrere allo sciopero generale. Oggi, in un paese come l’Italia, l’unica possibilità che abbiamo per far crescere la ricchezza è di ridistribuirla a favore dei lavoratori dipendenti. In caso contrario non si avranno le basi per una crescita concreta ed effettiva. I lavoratori italiani lavorano di più e guadagnano di meno rispetto al resto dei lavoratori europei, pagano più tasse e devono far fronte ad un considerevole incremento dei prezzi. È una vera emergenza. Da questo punto di vista, anche l’attuazione di una nuova politica dei redditi, che si ponga come obiettivo prioritario la crescita del Paese, diventa un traguardo di grande importanza.

La Uil sostiene da anni la necessità di detassare gli aumenti contrattuali, per rilanciare l’economia del Paese. Cosa rispondi a chi ipotizza, invece, una riduzione delle aliquote Irpef?

Credo che non ci sia nulla di più sbagliato. Quella sull’Irpef sarebbe una manovra tutta politica, incapace di generare risultati economici utili. Anzi, una riduzione del prelievo fiscale indifferenziata e generalizzata sarebbe un’operazione dannosa. In questo modo si rischierebbe unicamente di favorire chi evade le tasse da sempre, a scapito di chi, invece, le tasse le ha sempre pagate, e cioè i lavoratori dipendenti e i pensionati. Noi abbiamo bisogno di una seria riforma del sistema fiscale la cui attuazione richiede però tempi non brevi. In attesa di ciò, bisogna intervenire immediatamente. L’unica possibilità per aumentare i bassi salari e accrescere il loro potere d’acquisto è un intervento specifico: detassare gli aumenti contrattuali. Questa è l’unica soluzione dagli effetti immediati e positivi non solo per i lavoratori ma anche per la crescita economica del Paese.

Finalmente è stato firmato l’accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. L’intesa siglata prevede un aumento di 127 euro e 300 euro di una tantum. Come consideri l’intesa raggiunta?

E’ stata una vertenza molto difficile e molto dura. L’intesa siglata ha premiato la determinazione delle Organizzazioni sindacali e dei lavoratori. Certamente, un plauso va anche alla mediazione conclusiva del ministro Damiano. Si tratta di un buon risultato dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista normativo, con l’introduzione della parità tra operai e impiegati, tanto che nel nuovo contratto si parlerà unicamente di lavoratori. Ora bisogna chiudere il contratto del commercio: anche i tantissimi addetti di questa importante categoria attendono questo momento da troppo tempo.

Le difficoltà a chiudere le vertenze per i rinnovi dei contratti di lavoro sono anche la conseguenza di un sistema contrattuale ormai inadeguato a rispondere alle nuove esigenze della nostra economia. Ci sono spazi, ora, per avviare e portare finalmente a conclusione la riforma del sistema contrattuale?

Non c’è alcun dubbio che sarebbe necessario riformare il sistema contrattuale. Quello definito con il Protocollo del luglio 1993, ha ormai esaurito la sua funzione. È stato un autentico capolavoro dal punto di vista economico e anche in termini di relazioni industriali. Grazie a quell’intesa il nostro Paese è riuscito a raggiungere obiettivi fondamentali in quel contesto storico: il risanamento e l’ingresso nell’area euro. Ora però abbiamo altri obiettivi: dobbiamo puntare alla crescita dei salari e dell’economia.

Coerentemente, bisogna costruire un modello adeguato al conseguimento di questo nuovo traguardo. Tutte le parti sociali, dunque, devono farsi carico di attivare, al più presto, tale cambiamento nell’interesse dei lavoratori, delle imprese e del Paese.

Mi pare, però, che tu abbia espresso, di recente, qualche perplessità sulla effettiva disponibilità di Confindustria a concludere questa vicenda. Non li vedi ancora pronti ad una modifica del sistema contrattuale?

E’ bene chiarire subito che, per noi, la costruzione di un nuovo modello contrattuale non sarebbe una concessione ma un vero e proprio obiettivo; anzi, per esser più chiari, è una rivendicazione. Credo, però, che raggiungere un accordo su un nuovo modello contrattuale sarà complicato; non mi sembra che in Confindustria, sull’argomento, ci sia univocità di posizioni. Temo che si verifichi ciò che è già successo due anni e mezzo fa, quando fu chiuso il precedente contratto dei metalmeccanici. Allora, le dichiarazioni dei vertici di Confindustria erano identiche a quelle di oggi ma, come è noto, non se ne fece nulla. Insomma, sottoscrivere un accordo sarà davvero molto difficile. Anche se per i lavoratori e per il Paese sarebbe davvero necessario.

Altro fronte caldo di questo mese è quello dell’Alitalia: alle porte c’è Air France. I sindacati hanno chiesto un incontro urgentissimo con il Governo per discutere della privatizzazione della compagnia aerea. Cosa succede?

Abbiamo chiesto un incontro urgentissimo per discutere degli aspetti di forte criticità che riguardano la vicenda Alitalia e per affrontare i nodi strategici che coinvolgono l’intero sistema del trasporto aereo in Italia. Il Governo è il nostro interlocutore primario, ed è per questo che deve spiegarci le ragioni della sua scelta, ancora ignote, e soprattutto deve chiarire in che maniera intende affrontare le ricadute sul personale navigante e di terra che questo processo inevitabilmente produrrà. Chiunque dovesse essere l’acquirente di Alitalia, il nostro auspicio resta quello che le prospettive della nostra compagnia di bandiera siano fondate sull’aumento delle tratte, sull’acquisto di nuovi aeromobili e sulla crescita del fatturato. Non si può risanare un’impresa del genere pensando di ridimensionarla: bisogna che, chi l’acquista, lo faccia per farla crescere.

La vicenda della Thyssenkrupp e quella più recente di Porto Marghera hanno nuovamente portato alla ribalta della cronaca la grave questione delle morti sul lavoro. Qual è la posizione della Uil rispetto a queste vicende? E cosa occorre fare?

Il tema della sicurezza sul lavoro è tornato ancora una volta ad occupare le prime pagine dei quotidiani nazionali. E purtroppo non si tratta di un’emergenza ma di una tragedia continua. La Uil si stringe intorno ai familiari di questi uomini, veri e propri martiri del lavoro. Morire sul luogo di lavoro non è tollerabile, è una strage che deve essere fermata. È necessario rispondere con misure in grado di affrontare e risolvere definitivamente la questione. Ognuno è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità. Occorre tenere sempre alta l’attenzione sui temi della sicurezza nei luoghi di lavoro. Questa è la sfida per i prossimi anni: fare in modo che le buone leggi già in vigore vengano applicate e rispettate e che vengano  potenziate le strutture di controllo e vigilanza. Bisogna tutelare la salute e la sicurezza ovunque, soprattutto in quelle aziende che contano meno di quindici dipendenti, in cui il sindacato non può essere presente. Dobbiamo insistere inoltre perché il governo attui una politica di coordinamento tra tutti gli Enti e gli Istituti preposti alla sicurezza nel lavoro e perché sia emanato subito il Testo Unico sulla sicurezza. Solo così la nostra politica di prevenzione e tutela potrà davvero essere efficace e potremmo in futuro evitare altre stragi.

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