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DICEMBRE 2006/GENNAIO 2007

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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NOVEMBRE 2006

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SOMMARIO

EDITORIALE
Una nuova politica contrattuale, di Antonio Foccillo

INTERVISTA
Intervista a Luigi Angeletti, di Antonio Passaro
Intervista al Ministro del Lavoro Cesare Damiano, di Antonio Foccillo
Intervista ad Antonio Catricalà, di A. F.

ECONOMIA
Flussi migratori, quali possibili cambiamenti nel prossimo futuro, di Guglielmo Loy
La manovra economica 2007, di Amedeo Croce

APPROFONDIMENTO
Convegno UIL - discorso Ambasciatore Stati Uniti Ronald Spogli
Convegno UIL - Osservazioni di Gardner A. Carrick
Convegno UIL - Rinnovare il mercato del lavoro, di Carlo Fabio Canapa

SINDACALE
Elezioni RSU Scuola, di Massimo Di Menna
Il rilancio della concertazione, di Giovanni Paletta
Rappresentanza e rappresentatività, di Tiziana Riggio

ATTUALITA'
La spina della finanziaria, di Piero Nenci
Finanziaria e i giovani, di Marco Abatecola

EUROPA
Conoscere l'Europa - Le Istituzioni - Il Parlamento europeo, di Carmelo Cedrone

RECENSIONE
Silvano Andriani “L’ascesa della finanza”, di Maria Anna Lerario

AGORA'
La società cambia e noi?, di Gianni Salvarani
Il pensiero economico di Keynes e Friedman a confronto, di Francesca Anselmo

INTERNAZIONALE
Obiettivo sull'America Latina, di Alfredo Carpentieri

CULTURA
Leggere è rileggere, di Gianni Balella

INSERTO
Previdenza Complementare a cura del Servizio Politiche Fiscali e Previdenza UIL, di Domenico Proietti

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EDITORIALE

Una nuova politica contrattuale che salvaguardi il potere d’acquisto anche attraverso le politiche statali di Welfare

di Antonio Foccillo

Siamo, come ogni anno, arrivati a dover fare un bilancio del passato ed a presentare un progetto per il nuovo.

Ovviamente non si può partire che da una riflessione impegnativa sull'essere sindacato, sui suoi orizzonti ideologici e sulle due dimensioni progettuali.

Occorre prendere le mosse dall'attuale profilo del rapporto tra ruolo politico - sindacale e consenso popolare.

È evidente come tale rapporto abbia subito notevoli mutamenti nel corso di questi ultimi anni, la coesione che nel passato si presentava tra identità politica e identità sociale appare oggi sempre più logorata, tanto da distanziare l'intenzione rappresentativa e l'effettivo risultato di rappresentatività.

Il sindacato deve affrontare una strutturazione degli umori sociali che si fa poco disponibile ad egualitarismi e diffidente nei confronti di quei soggetti politici che dovrebbero identificare le aspettative e le aspirazioni.

Inoltre, non è ininfluente il processo di trasformazione degli equilibri organizzativi del sistema produttivo, sempre più preso da globalizzazione, delocalizzazione e da scarso investimento, affiancato dall'evolversi del ruolo dell'informazione all'interno delle dinamiche di costituzione degli interessi e delle composizioni delle forze economico- sociale.

Il consenso, nel suo dispiegarsi, passa, dunque, attraverso, l'orizzonte di elevata diversificazione strutturale, e quindi si forma, o non si forma, in stretta correlazione con l'ambito civile, istituzionale, politico ed economico che lo circonda

Per il sindacato si tratta di individuare la natura odierna del rapporto consensuale, perché suo scopo prioritario è appunto quello di raccogliere e produrre consenso.

Di fronte a ciò non si tratta di inventare solo un nuovo sindacato, come sostenevamo nel numero precedente della rivista, ma anche di approfondire, in relazione al nuovo, la natura storica del sindacato, che da sempre è quella di essere soggetto sociale, e quindi essere interlocutore nella società per la crescita e la garanzia del benessere.

Benessere che non deve essere inteso nella sola limitazione economica, anche se essa è ridiventata importante negli ultimi tempi, ma nel suo senso più sostanziale, cioè come soddisfazione complessiva della partecipazione alla vita sociale.

Questa partecipazione interessa l'integrazione di lavoro e non lavoro, vita pubblica e vita privata, tempo occupato e tempi libero, contribuzione economica e garanzia socio assistenziale.

In relazione a questa prospettiva occorre valutare il ruolo contrattuale del sindacato e la natura dei suoi odierni contesti di operatività.

Senza ripetere quanto è ormai consolidata nel sistema economico, appare evidente che una struttura del lavoro così diversa fra i diversi soggetti, se non ripresa in un ambito collettivo rischia di innescare processi di pericolo coorporativismo delle rivendicazioni.

 A ciò si deve aggiungere l'affermarsi di una politica imprenditoriale di deregolamentazione, sia della garanzia istituzionale che delle legittimità negoziale del sindacato.

Quindi si impone una riflessione che disegni organicamente una politica contrattuale, capace di risultare, allo stesso tempo, complessiva dalle necessità diversificate e incisiva sulle scelte imprenditoriali ed economiche del paese.

Rispetto al CCNL si tratta riconsiderare la possibile funzione e validità, in relazione ai mutamenti avvenuti. Questo è ancora lo strumento indispensabile, attraverso il quale, orientare proprio le forze centrifughe, che tendono ad isolarsi contrattualmente; inoltre il CCNL consente di rendere collettiva e interrelazionata la diversificazione presente nel mondo del lavoro. Perché non accada una frantumazione pericolosa degli istituti contrattuali creando drammatici sfondamenti individualistici e scelte decomposte e unilaterali, è indispensabile riaffermare lo strumento del CCNL, affermandolo coerentemente verso un ruolo di composizione orientativa dei momenti contrattuali individuali.

Ma per rivitalizzare una simile politica è prima, necessario ricostruire un terreno dialettico, al di là di protagonismi esasperati e irrigidimenti demagogici.

È necessario opporre un fronte sindacale in grado di reagire positivamente alla saturazione contrattuale in atto, e per questo bisogna smuovere quella stasi di idee che il sindacato ha presentato in questo ultimo periodo. Infatti, una causa dei recenti immobilismi contrattuali si trova proprio in una sorta di appannamento della capacità di iniziativa e proposizione del sindacato, dando così il fianco, alla politica di delegittimazione svolta da tanti suoi interlocutori.

Il governo non può cessare di esser una parte di riferimento contrattuale perché i suoi compiti investono scelte i cui risultati si misurano direttamente negli equilibri della distribuzione delle risorse e dell'operatività delle garanzie sociali. Per questo una politica del lavoro non può che esser anche una politica di investimenti, dell'equità sociale, dell'efficienza socio-assistenziale.

Perciò una scelta politica efficace è ancora quella della politica dei redditi, ma è anche vero che occorre aggiornare questa strategia agli ultimi comportamenti imprenditoriali che sempre più privilegiano l'esclusione dello stato dalle loro scelte politiche.

Il ruolo confederale emerge, all'interno di una politica di rilancio del ruolo contrattuale, nel riferimento determinante al valore sociale del lavoratore. Questo deve diventare il referente ideologico per un'azione confederale che contratta nella politica dei salari anche la politica dei contenuti sociali, che saranno specificati nell'impegno per la qualità dello Stato e della sua efficienza, che salvaguardi l'equità distributive delle ricchezze e dei servizi.

Ciascuno di noi è consapevole che si stanno determinando oggi le condizioni che consentiranno il ruolo del sindacato nel futuro, perché sappiamo che il nuovo cui dobbiamo volgerci è già presente tra noi, non solo nelle strutture sociali ed economiche, ma già nei luoghi che frequentiamo.

Non si tratta dunque di un opera di divinazione per comprendere l'avvenire, si tratta invece di avere capacità, propositiva ed organizzativa, di assumere la realtà dei contenuti che essa presenta.

E per realizzare questa capacità una condizione che è assolutamente imprescindibile e preliminare è la necessità di rianimare il grado dialettico, conoscitivo e formativo dell'organizzazione sindacale.

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Intervista a Luigi Angeletti, Segretario Generale UIL

di Antonio Passaro

Angeletti, il nuovo anno si apre tradizionalmente con i commenti al messaggio del Presidente della Repubblica. È stata la prima volta di Giorgio Napolitano e, dunque, c’era una particolare attesa per questo importante discorso di fine anno che è stato accolto da consensi unanimi. Napolitano ha posto l’accento sulla questione “lavoro”. Qual è il tuo giudizio sulle affermazioni del Presidente?

Il discorso del Presidente della Repubblica ha riproposto il valore del lavoro come priorità nazionale. Dopo le parole di Napolitano, bisogna prendere atto che merito e questione salariale, sicurezza e legalità del lavoro, occupazione giovanile e femminile sono tutti temi da affrontare e risolvere per tutelare i lavoratori dipendenti e per far sviluppare il Paese.

Hai parlato di merito e non è la prima volta che accenni a questo concetto. La Uil lo ha fatto proprio al punto che il primo appuntamento ufficiale del 2007 è stato un convegno sul tema “Dare valore al lavoro pubblico: qualità, meriti e cittadinanza”. Qual è il messaggio che ne è emerso?

Premesso che il merito è un principio da recuperare per tutto il mondo del lavoro, altrimenti prevarranno raccomandazioni, nepotismi e altre negative prassi, per quel che riguarda il pubblico impiego, noi vogliamo cambiare la qualità dei servizi pubblici, aumentare la produttività ma anche premiare i lavoratori più meritevoli della pubblica amministrazione. Il servizio pubblico è indispensabile alla qualità della vita dei cittadini e al funzionamento dell’economia. Per far sì che ci siano dei buoni servizi pubblici occorre valorizzare il lavoro pubblico. Bisogna incentivare e premiare chi lavora bene e produce risultati, individuando criteri il più possibile oggettivi in grado di misurare la qualità del lavoro delle persone e incentivarle retribuendole al meglio.

E per quel che riguarda la mobilità territoriale?

La mobilità dei dipendenti pubblici è un problema ma non il problema. La mobilità è marginale, non dobbiamo pensare che sia l’aspetto più rilevante: la qualità del lavoro è l’aspetto più rilevante. In effetti al Sud ci sono più dipendenti pubblici che al Nord, ma – ripeto- è un aspetto marginale della questione. Il vero punto è che ci sono oltre tre milioni di lavoratori della pubblica amministrazione che sono una risorsa fondamentale per lo sviluppo del nostro Paese e il cui lavoro deve essere valorizzato. Per noi, dunque, la vera sfida è la meritocrazia e la produttività.

I lavoratori del pubblico impiego aspettano anche che si istituisca per loro la previdenza integrativa...

Certo. Anche su questo punto, il governo deve rendere giustizia ai lavoratori pubblici permettendo loro di attivare la previdenza integrativa. Stiamo discutendo in modo approfondito di alcuni aspetti. Speriamo sia questione di settimane. Non possiamo aspettare anni.

L’altro appuntamento di inizio anno è stato il convegno sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Cgil, Cisl e Uil sono molto impegnate su questo punto. Cosa occorre fare per affrontare il fenomeno degli incidenti sul lavoro?

Intanto va detto che è grave e inaccettabile che ogni anno muoiano 1.300 persone sul lavoro e che centinaia di migliaia di lavoratori si infortunino. Certo, i dati dimostrano che c’è una lieve riduzione degli incidenti ma la questione resta in tutta la sua drammaticità. Occorre applicare, meglio e sempre più puntualmente, le norme che già ci sono e, poi, noi riteniamo che sia indispensabile una regia per una politica della sicurezza e della salute. Del tema si occupano due ministeri e vari enti e occorre che si realizzi una regia per politiche coordinate. Inoltre chiediamo che si rilanci e si diffonda la bilateralità a livello territoriale. Basti pensare che sul territorio ci sono centinaia di migliaia di aziende con meno di venti dipendenti: di qui la necessità di diffondere gli enti bilaterali per fare un’efficace politica di prevenzione anche in queste realtà.

Chiudiamo con l’argomento più spinoso e di pressante attualità: le pensioni. C’è molta confusione sotto il cielo…

Sì, ma noi abbiamo le idee molto chiare. Va abolito lo scalone, perché costituisce un’iniquità per quelle decine di migliaia di lavoratori che, all’inizio del 2008, si verranno a trovare in quella condizione. E si deve tornare alle vecchie regole della Dini che ha ben funzionato e che ha generato quella situazione di equilibrio in cui si trovano oggi i conti previdenziali. Se poi, finalmente, si separerà la previdenza dall’assistenza, questa affermazione apparirà in tutta la sua evidenza. Si vuole ottenere un innalzamento medio dell’età pensionabile? Bene, basta incentivare i lavoratori a restare al lavoro e lasciare libere le persone di decidere quando è più conveniente andare in pensione: l’età pensionabile si alzerà naturalmente.

E l’idea di rivedere i coefficienti di cui parlano alcuni rappresentanti del governo? In una recente intervista ad un grande quotidiano nazionale l’hai definita una “malvagità”…

L’intervento sui coefficienti sarebbe solo un’azione punitiva nei confronti dei giovani che, con il sistema contributivo, già percepiranno una pensione pari alla metà dell’ultimo stipendio. Una revisione dei coefficienti di calcolo delle pensioni è inutile e inaccettabile.

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INTERVISTA A CESARE DAMIANO *

Rimettere al centro della società il lavoro quale valore fondante

di Antonio Foccillo

La Finanziaria è stata approvata. Gli interventi previsti per favorire la stabilizzazione del lavoro soddisfano a pieno gli obiettivi che il Ministero del lavoro si era posto?

Ritengo che il Parlamento abbia approvato una buona legge finanziaria. Nonostante la difficile situazione ereditata sui conti pubblici (deficit e debito pubblico completamente fuori dai parametri di riferimento e avanzo primario completamente annullato), l’Esecutivo è stato in grado d’impostare una manovra di bilancio, e quindi una politica economica, capace di coniugare le esigenze più impellenti del Paese (risanamento, maggiore equità sociale e crescita economica).

Per quanto attiene agli aspetti legati al lavoro, la Finanziaria 2007 ha introdotto importanti disposizioni volte, da un lato, a combattere il fenomeno della precarietà lavorativa e, dall’altro, a stabilizzare i rapporti di lavoro, sia nel settore pubblico che in quello privato. A titolo esemplificativo, non posso non rammentare: l’impostazione selettiva data allo sconto sul cuneo fiscale (il beneficio viene parametrato sui rapporti di lavoro a tempo indeterminato); i cospicui incentivi contributivi a favore dei lavoratori e dei datori per favorire la trasformazione dei co.co.co e co.co.pro in rapporti di lavoro subordinato; l’avvio del percorso di stabilizzazione dei lavoratori che da più di tre anni lavorano a tempo determinato presso una pubblica amministrazione, nel rispetto delle procedure concorsuali; l’istituzione del fondo (10 mln di euro) per l’erogazione di contributi a favore dei lavoratori che intrattengono rapporti co.co.co e co.co.pro per l’acquisto di un personal computer; l’aumento delle detrazioni fiscali per le persone che lavorano a tempo determinato; ecc.

Insomma, la musica è cambiata. Il Governo, a differenza di quanto avveniva nel recente passato, non vede di buon occhio i rapporti di lavoro precario.

Sulla flessibilità si rischia di cadere, per un verso o per l’altro, in trappole ideologiche che non consentono di utilizzarla nel modo migliore, vale a dire per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro. È possibile fissare dei paletti, sulla base della nostra realtà, attorno ai quali disegnare un “modello italiano” di flessibilità e sicurezza sociale?

Sono stato uno dei primi osservatori a ravvisare il differente uso che si fa dei contratti di lavoro non-standard in Italia rispetto a quanto avviene negli altri paesi europei. Nei paesi del nord-Europa, in effetti, i contratti di lavoro cosiddetti flessibili vengono applicati, per la gran parte dei casi, quale stimolo all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Al contrario, in Italia stiamo assistendo ad un uso sostitutivo dei contratti flessibili in rapporto ai contratti standard (più del 50% delle nuove assunzioni avviene con il contratto non standard). Molte volte si tende a flessibilizzare il rapporto di lavoro nonostante non se ne ravvisi la pur minima ragione produttiva/organizzativa. Così, in Italia a differenza che in Europa, i lavoratori e le lavoratrici che non hanno un lavoro stabile - con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano dell’incertezza e dell’inquietudine personale - appartengono a tutte le classi di età.  Ed è anche sulla base di questa amara constatazione che con la Finanziaria appena varata, il Governo ha introdotto nel nostro ordinamento tutta una serie di strumenti diretti ad arginare il fenomeno della “cattiva” precarietà e a favorire i contratti di lavoro a tempo indeterminato.

Tuttavia, non possiamo negare la necessità avvertita dal nostro sistema produttivo di avvalersi di una certa dose flessibilità, che, peraltro, se “buona”, risulta del tutto compatibile con un lavoro sicuro e tutelato. Se - come è nell’intenzione del Governo -, si realizza un sistema di collocamento capace di regolare in modo efficiente l’incontro tra domanda e offerta di lavoro; se si realizza un sistema formativo che offra al mercato del lavoro le professionalità giuste con il tempismo giusto; se si realizza un sistema di ammortizzatori sociali su basi universalistiche che non lasci scoperte intere categorie di lavoratori; allora potremo definitivamente affrancarci dall’idea della dicotomia tra flessibilità e occupazione tutelata e, quindi, accedere a modelli di flexicurity.   

Questi temi, comunque, costituiranno l’ordine del giorno dei tavoli di dialogo e confronto che di qui a poco il Governo aprirà con le parti sociali e istituzionali per la revisione del nostro ordinamento giuslavoristico.

Altro argomento spinoso è quello delle pensioni. Si parla di riforma, taglio o manutenzione, a seconda dei punti di vista. Che cosa ne pensa il Ministro del lavoro?

Occorre innanzi tutto sgombrare il campo da quella strana vulgata - che qualcuno tenta di propinarci - secondo la quale il Governo vorrebbe intervenire sull’ordinamento previdenziale allo scopo di recuperare risorse finanziarie, cioè per fare cassa. Si tratta di una menzogna. Il Governo, responsabilmente,  ha preso atto che la riforma della precedente legislatura è risultata inidonea a rispondere a quelle esigenze di tenuta e equità del sistema pensionistico. Penso allo scalone introdotto nei requisiti per accedere alla pensione di anzianità, il quale ha creato una repentina disparità di trattamento tra i lavoratori la cui età anagrafica differisce solo di qualche mese; penso alla carenza di idonei benefici per quei lavoratori che hanno svolto attività a forte usura psico-fisica; penso all’inerzia mostrata sull’adeguamento dei coefficienti di trasformazione per le pensioni calcolate con il sistema contributivo; ecc.

L’intenzione del Governo non è quella di stravolgere lo spirito delle riforme degli anni ’90  (che stanno dando ottimi frutti), ma è quella di correggere le storture che oggi si rilevano.     

Peraltro sul tema vi è già un memorandum d’intesa con le parti sociali, il quale indica le linee guida e i termini ordinatori (e non perentori) del processo di revisione del sistema previdenziale. 

Un tema drammatico: gli incidenti e le morti sul lavoro. Sappiamo bene come questo fenomeno non siamo riusciti ad eliminarlo, nonostante i progressi sul piano normativo. Quali sono le strategie per debellare questa autentica vergogna nazionale?

E’ il tema che più mi ha occupato fin dall’inizio del mio incarico a Ministro del Lavoro.

Partendo dall’assioma (dimostrato da ricerche empiriche) secondo il quale dove vi è lavoro irregolare - cioè dove si instaura un rapporto di lavoro che non rispetta le registrazioni di rito, che non rispetta gli obblighi contributivi e assicurativi, ecc .- anche la gestione della sicurezza è irregolare, ho ritenuto opportuno introdurre immediatamente incisivi strumenti volti a ripristinare la regolarità e la legalità dei rapporti di lavoro.  Ciò è avvenuto, prima, per i cantieri edili, usufruendo del passaggio parlamentare della Legge Bersani., poi, per tutti gli altri settori produttivi, con la Legge Finanziaria 2007. Ho provveduto, altresì, ad intensificare l’attività di vigilanza dell’Ispettorato del Lavoro. E i primi risultati sono stati straordinari sia in termini di regolarizzazione di rapporti di lavoro che di recupero fiscale e contributivo.

Insieme al Ministro Di Pietro, con specifico riferimento al rispetto delle norme in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, stiamo rivedendo le disposizioni che regolano gli appalti assegnati con il criterio del massimo ribasso.

L’Esecutivo ha inoltre predisposto il disegno di legge delega per il nuovo Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, la cui presentazione avverrà durante i lavori della II Conferenza Nazionale sulla sicurezza del lavoro (Napoli 25 e 26 gennaio 2007).

Considerata la circostanza che il grave problema della sicurezza sui luoghi di lavoro investe anche questioni legate alla nostra cultura, al nostro costume, al nostro modo di agire quotidiano, credo sia necessario intervenire anche sul versante informativo/educativo. Quindi, in previsione del rinnovo del Contratto di Servizio Rai, ho avanzato la proposta di realizzare un canale digitale terrestre dedicato al mondo del lavoro e, in particolare, al tema della sicurezza.

Tutte queste materie, mercato del lavoro, previdenza, sicurezza, sono oggetto di una sola discussione: quale modello di società vogliamo costruire? Restituiamo uno spazio acquisitivo al lavoro nei confronti del capitale e contemporaneamente rilanciamo il ruolo del pubblico nella società o completiamo la deriva neoliberista da tempo prevalente?

Non porrei la questione in termini di spazio da conquistare. Si finirebbe con l’assecondare una visione ormai obsoleta dei rapporti sociali (capitale versus lavoro). L’obiettivo che mi sono sforzato fino ad oggi di perseguire, attraverso la diffusione delle mie idee e attraverso le mie azioni concrete, è quello di rimettere al centro della società italiana il lavoro quale valore fondante. Voglio restituire al lavoro la dignità che gli compete, conformemente alla visione che avevano di esso i nostri padri costituenti. Per questo sto portando avanti una battaglia contro il lavoro precario e contro quel genere di lavoro fonte di discriminazione. Aborro quella visione del sistema sociale che relega il lavoro a semplice inanimato fattore della produzione, di cui si può disporne  in modo usa-e-getta; cioè quella visione che vorrebbe considerare il lavoro di una persona alla stessa stregua dell’energia elettrica, che può essere azionata, pagata a consumo e interrotta con un semplice click. Il lavoro deve costituire un momento di crescita, di realizzazione e di fierezza.     

A questo proposito, come si conciliano le nostre scelte a livello nazionale con quelle quasi imposte da Bruxelles o da organismi internazionali?

Non vedo gravi problemi insormontabili di coordinamento, o di incompatibilità, tra il nostro diritto del lavoro e quello che deriva dai trattati, dalle direttive e dai regolamenti dell’Unione Europea.

In sede di Consiglio Europeo mi sono opposto fermamente a quelle proposte che volevano modificare le direttive che regolano l’orario di lavoro; proposte che avevano l’intento di lasciare solo il lavoratore di fronte al proprio datore nello stabilire i tempi della attività lavorativa. Ritengo che sia competenza dell’autonomia collettiva l’opera di conciliazione tra le esigenze legate all’organizzazione della vita dei lavoratori e le esigenze della produzione.

Abbiamo inoltre sbarrato la strada a quanto si andava affermando con la prima stesura della Direttiva Bolkestein a proposito della circolazione di lavoratori, portatori di un diverso patrimonio di tutele, all’interno dell’Unione.

Più in generale, sul fronte della trasposizione e adeguamento degli indirizzi europei in campo lavoristico, con particolare riferimento al tema della sicurezza, stiamo marciando sulla giusta strada.

Per quanto riguarda le politiche attive del lavoro, nonostante le sbandierate false performance del Governo Berlusconi, gli obiettivi di Lisbona 2000, sembrano fuori portata. Ciò perché negli scorsi anni non si sono messe in campo idonee politiche volte a incrementare il tasso di occupazione - cioè il rapporto tra le persone che potenzialmente potrebbero lavorare (persone attive tra i 15 e i 64 anni di età ) e le persone che effettivamente lavorano-. 

Ci sarebbe poi molto da dire sul modello dell’Europa sociale, sulle fisiologiche difficoltà che si incontrano nell’integrare 27 paesi, sui risultati che ha dato il modello del coordinamento aperto nel regolare alcuni aspetti delle politiche del lavoro in Italia e negli altri Paesi, ma occorrerebbe lo spazio di un libro.  

Anche il ruolo del sindacato rischia di essere messo in discussione. Una società dove la rappresentanza collettiva non è valorizzata la natura delle organizzazioni sindacali cambia. Il sindacato confederale italiano, confermando la scelta strategica della concertazione, scommette ancora sul ruolo propositivo e partecipativo, troverà interlocutori attenti nella politica?

Credo proprio di si. Il sindacato, come tutte le altre parti sociali, troverà un valido e affidabile interlocutore nell’attuale Governo. Lo abbiamo scritto nel programma che doveva informare la nostra azione e lo stiamo attuando con i fatti. L’Esecutivo vuole coinvolgere (vedi i grandi tavoli sul lavoro e sulla previdenza) i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro quando si tratta di regolare materie che concernono la vita degli stessi lavoratori e delle stesse imprese. Si tratta di una collaborazione preziosa, perché riteniamo che occorre passare sempre attraverso la partecipazione di quei soggetti che rappresentano delle entità intermedie tra lo Stato e il cittadino (lavoratore/lavoratrice) e che nulla possa essere imposto in modo coercitivo.  Peraltro, il Governo, al fine di portare a termine gli impegni presi con il Paese, ha tutto l’interesse a confrontarsi con un sindacato forte, leale e responsabile , che non sia né “giallo”, né conflittuale  (che dice sempre e comunque  “no”). 

Tuttavia occorre entrare nell’ottica che, per essere al passo con i tempi e con gli standard di una grande economia occidentale, tutto necessariamente deve evolversi e modernizzarsi. E a questa continua metamorfosi non può sicuramente sottrarsi né il sindacato, né il sistema delle relazioni industriali, né i modelli di rappresentatività  e di autonomia collettiva.

* Ministro del Lavoro

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INTERVISTA AD ANTONIO CATRICALA’*

I processi di privatizzazione hanno prodotto effetti positivi quando sono stati accompagnati da politiche di liberalizzazione

di A. F.

Parliamo di liberalizzazioni. Il ministro Bersani ha indicato come prossimo settore d’intervento la telefonia mobile, in particolare per quanto attiene ai costi delle ricariche, un tema certamente caro all’opinione pubblica. Si potrà risolvere rapidamente la questione?

Il bandolo della matassa è ora in mano all’Agcom, l’Autorità Garante nelle Comunicazioni, che il 10 gennaio scorso ha avviato una consultazione pubblica al termine della quale deciderà come eventualmente rimodulare il contributo di ricarico. Di certo, ed è questo che abbiamo appurato nell’indagine conoscitiva congiunta, l’attuale sistema rende poco trasparente le offerte e ne impedisce la comparabilità. Occorre inoltre eliminare quel carattere di regressività del costo di ricarica, che incide in misura maggiore sui tagli inferiori, creando effetti distorsivi per i consumatori più deboli.

Negli anni si è affermata la politica delle privatizzazioni, per favorire appunto la concorrenza. Nell’insieme è realmente riuscita questa politica? Quali sono in realtà i punti critici e quelli invece positivi?

Volendo schematizzare si può dire che i processi di privatizzazione hanno prodotto effetti positivi quando sono stati accompagnati da politiche di liberalizzazione. Sostituire un monopolio privato a un monopolio pubblico non serve a nulla, anzi: si finisce col regalare rendite di posizione ai privati. Laddove però alla privatizzazione è seguita l’apertura dei mercati i risultati si sono visti, eccome. Basti pensare alla telefonia mobile: quando arrivarono sul mercato i primi telefonini Telecom aveva il monopolio assoluto. Oggi il consumatore può scegliere tra una miriade di offerte e la torta complessiva, e quindi la ricchezza prodotta, è aumentata in modo esponenziale.

La pubblica amministrazione è sempre nell’occhio del ciclone. Eppure ci sono state riforme e progressi indiscutibili, cosa dovrebbe avvenire ancora per soddisfare i cittadini?

Credo che occorrerebbe innanzitutto riequilibrare il rapporto tra back office e front office: non serve che ogni ministero abbia un certo numero tra impiegati e dirigenti che si occupano di buste paga, gestione di ferie e permessi o malattie. Queste attività potrebbero addirittura essere esternalizzate, affidandole a privati dopo averle messe a gara. Ciò non significa però tagliare il numero dei dipendenti ma impiegarli nelle attività di front office, quelle strettamente a contatto con i cittadini. Le ricadute positive sarebbero evidenti, a partire da turni di lavoro flessibili, in grado di andare incontro alle esigenze degli utenti. Non è pensabile che l’apertura al pubblico di moltissimi uffici sia limitata a poche ore al giorno, magari solo la mattina. Lo Stato, e dunque la pubblica amministrazione, non può ignorare la richiesta di flessibilità che viene dai cittadini i quali, non dovremmo dimenticarlo mai, sono coloro che con le loro tasse ci pagano lo stipendio.

E le aziende? Che responsabilità hanno gli imprenditori per la fase di stanca del sistema paese?

Credo che occorra leggere l’attuale situazione in chiave storica: per anni la competitività del nostro sistema Paese è stata affidata alla leva del cambio e a quelle monetarie e creditizie: quando queste, grazie al processo di integrazione europea, non sono state più azionabili i nodi sono venuti al pettine. L’imprenditoria privata, senza più i suoi tradizionali paracaduti, si è trovata a fare i conti con un grave deficit di competitività e con la mancanza di cultura della concorrenza. Del resto non credo sia casuale che in Italia la normativa Antitrust sia arrivata buona ultima rispetto al resto d’Europa. Ora si tratta di recuperare in fretta il tempo perduto: c’è molta strada da fare ma non credo esistano alternative. Tutto il Paese deve diventare più competitivo se vuole riprendere a crescere. E ognuno si deve assumere le proprie responsabilità: la politica, innanzitutto, che non deve farsi intimidire dalle naturali reazioni delle corporazioni. Le imprese, che devono aprirsi ai capitali anche stranieri, senza temere il confronto internazionale. Anche i sindacati devono fare la loro parte: crescita significa maggiore ricchezza per tutti e mantenere lo status quo non può  che danneggiare anche i lavoratori dipendenti.

Ci può indicare un settore in cui si deve intervenire prioritariamente per favorire lo sviluppo?

Il tema caldo è l’energia. Occorre innescare un processo virtuoso che porti a una riduzione dei costi che ricadono, oltre che sui bilanci familiari, anche sull’intero sistema produttivo. Si tratta di un settore complesso, che sta passando da una struttura monopolista a una struttura oligopolista, senza però che si riesca a sviluppare una reale concorrenza: per questo l’Autorità ha voluto avviare un ‘supplemento’ di indagine conoscitiva per capire meglio quali sono le reali strozzature che impediscono una discesa dei prezzi.

* Presidente Autorità Garante della Concorrenza del Mercato

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