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SETTEMBRE 2015

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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SOMMARIO

Il Fatto
- Ritornano i processi mediatici - di A. Foccillo

Intervista a Carmelo Barbagallo Segretario generale UIL
Un’Europa dei popoli - di Antonio Passaro

Confederazione Europea dei sindacati
- Luca Visentini eletto al vertice del Sindacato europeo.

Sindacale
- Valore legale del titolo di studio: perchè in Italia non si può abolire - di S. Ostrica
- Una privatizzazione contro l’interesse del Paese - di C. Tarlazzi
- La Scuola pubblica statale rimane il fulcro su cui determinare lo sviluppo economico e sociale del Paese - di P. Turi
- I tagli alla sanità e al sociale non fanno che acuire il disagio fino ad arrivare all’esasperazione - di A. Civica

Assemblea Uil
- Sviluppo, contratti e sud... Obiettivi prioritari per la Uil - di T. Bocchi
- La Pubblica Amministrazione ed il mezzogiorno - di A. Foccillo
- Le nostre proposte per i problemi che attanagliano il Sud - di G. Loy
- La modifica della legge Fornero, la riforma fiscale e la lotta all’evasione - di D. Proietti
- Povertà, Non autosufficienza / invecchiamento attivo, Infanzia e adolescenza, Dipendenze, Salute, Disabilità, Terzo settore, Ambiente e Salute e sicurezza sul lavoro - S. Roseto
- In Italia si può ripartire se al Sud si riparte - A. Pugliese

Agorà
- La nostra funzione confederale ha anche l’onere di far vivere lo straordinario valore della cultura laica – di M. Di Menna
- Sindacato e rifugiati. Fare di più e fare meglio nella governance di un fenomeno epocale - di G. Casucci
- Valori e simboli - di G. Longo
- La geografia del mondo in rapido cambiamento - di P. Nenci
- Non sono giusti i processi sommari - di S. Moroni

Il Ricordo
- Franco Lago, l’Artigianato UIL - di P. Briano

Inserto
- Un ciclone iconoclasta contro uomini e cose - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Ritornano i processi mediatici

di Antonio Foccillo

Ho pensato a lungo se scrivere o no sul fatto del momento, poi ho deciso per il si, perché la situazione che si sta determinando contro il sindacato mi ricorda un passato che tutti pensavamo fosse definitivamente sepolto.

Purtroppo è ripartito il carrozzone mediatico, con i processi di piazza e con una virulenza ed una violenza nei confronti del sindacato e dei suoi dirigenti che è molto simile al 1992 quando fu distrutta, spesso solo con la calunnia, quasi tutta la classe dirigente della politica ed i partiti stessi.

L’unica differenza è che oggi non ci sono avvisi di garanzia perché non ci sono reati, ma l’attacco lo motivano con la mancanza di etica e montano l’opinione pubblica contro il sindacato.

Diceva Barbagallo nella sua replica ad un articolo del Corriere della Sera: “La denigrazione è diventata l’arma principe… si è deciso di contrastarlo (il sindacato n.d.r.) anche a livello personale, ritengo che ciò sia incivile e inaccettabile.” L’autore dell’articolo in replica risponde che gli dispiace che Barbagallo non abbia colto l’ironia del pezzo. Come si fa non pensare che questa “presunta ironia” possa anche alimentare un odio che può sfociare in qualcosa di grave come in passato è già successo? Proseguire con questa continua accusa può alimentare qualche sconsiderato a fare atti estremi, abbiamo già vissuto l’esperienza di questi periodi in passato.

La violenza dell’attacco è continuato in ordine di tempo dopo una assemblea, dico assemblea, dove pur ritenendola legittima si è riaperto comunque il fuoco mediatico. Tutto questo è stato amplificato grazie all’intervento del Presidente del Consiglio che ha colto la palla al balzo per dichiarare: “Non lasceremo l’Italia a questi sindacati” ed immediatamente ha preparato un decreto legge per limitare lo spazio di agibilità sindacale paragonando i Beni Culturali ai servizi essenziali che per chi non lo sapesse i servizi garantiti alla persona come essenziali sono contenuti nella Costituzione ed i Beni culturali non ci sono. (La Costituzione è ancora in vigore?)

Una domanda sorge spontanea: se è vero che il governo, il giorno prima dell’assemblea sapeva, tanto è vero che aveva già scritto il decreto, perché non ha informato l’opinione pubblica del fatto che il Colosseo sarebbe rimasto chiuso per tre ore? Forse perché si aspettava il pretesto e si augurava quello che è successo per poi poter intervenire.

Questo fatto è stato poi preso come ulteriore esempio di un sindacato da attaccare.

Addirittura un direttore di un quotidiano scrive che: “Un paese con il sindacato come abbiamo in Italia è un paese incivile” e così continua: “Non siamo qui a discutere se quelle assemblee fossero legali o meno, non è questo il punto, quanto il fatto che un confronto sindacale teso solo a difendere piccoli interessi di bottega della struttura che rappresenta è incurante, invece, di quelli generali è ormai incompatibile con il confronto democratico”. Come se rivendicare di essere pagati per il lavoro che si è fatto e chiedere ulteriore occupazione fossero interessi di bottega. E se la rivendicazione era corporativa perché il giorno dopo sono stati immediatamente trovati i fondi per pagare subito la rivendicazione dei lavoratori. Non si potevano trovare prima dell’assemblea?

Infine, un’ultima considerazione: hanno scandalizzato le file dei musei capitolini, ma quelle all’expo di Milano il giorno dopo come mai non hanno avuto lo stesso impatto mediatico? Forse perché in quel caso non c’erano i sindacati ad organizzare. Eppure anche quelle sono la dimostrazione dell’immagine del nostro Paese, proprio nel luogo dove si doveva fare pubblicità al nostro sistema.

Tutto questo non per dire che tutto è giusto nel sindacato. Certamente qualche errore è stato commesso e qualche errore anche di comunicazione c’è stato, mentre emerge forte la necessità di cambiamento nell’organizzazione e nelle rivendicazioni, a cui, la UIL, nella conferenza di organizzazione ha cercato già di rispondere ed adeguare la sua struttura molto prima di queste aggressioni.

Quello che deve far riflettere l’opinione pubblica che ogni occasione viene presa a pretesto per intaccare qualche conquista fatta in un’epoca in cui il diritto del lavoro doveva salvaguardare il debole, cioè il lavoratore.

Il problema oggi, di fronte a questo tentativo sempre più marcato di indebolire il sindacato fino a ridimensionarlo del tutto, è come rispondere, cioè come individuare un nuovo rapporto fra sindacato e pubblici poteri, fra sindacato e opinione pubblica, fra sindacato ed i lavoratori. Non possiamo assistere passivamente ad un processo di progressivo deterioramento della volontà politica di riconoscere nel sindacato, portatore di interessi diffusi, un interlocutore e pertanto screditarlo con tutti i mezzi della propaganda a fare da grancassa di risonanza.

Se il sindacato non si vuole far travolgere dal cambiamento del sistema nella società italiana, deve evitare di colpevolizzarsi quasi come se dovesse dimostrare la sua correttezza, ma deve porsi il problema della proiezione politica istituzionale di questo cambiamento.

Il sindacato viene accusato di tutto ed il contrario di tutto. Allora si potrebbe rispondere difendendo solo i lavoratori senza riguardi verso le compatibilità economiche? E’ questo che vogliono? Gli stessi che oggi dicono che con Monti il sindacato ha accettato tutto (a parte che non è vero) qualora il sindacato avesse alimentato il conflitto quanti articoli scandalistici avrebbero scritto sulla incapacità del movimento sindacale di tener conto del bene generale dell’Italia, prima degli “interessi di bottega”.

La verità che ancora una volta nel nostro Paese è venuto meno lo spirito laico che aveva caratterizzato in passato la politica e le relazioni. Quando dico spirito laico, intendo quella esperienza che ha formato intere generazioni, nel dubbio e non nelle certezze, nella difesa della libertà di chiunque di potersi esprimere liberamente anche quando è in posizione di minoranza, nell’evitare dogmi ed egemonie culturali e politiche, nel valutare tutti gli aspetti dei cambiamenti, e soprattutto nel ridefinire regole di partecipazione per tutti i soggetti rappresentativi. In tal senso il sindacato deve ritornare ad essere un soggetto politico che ripropone tale spirito e la sua cultura di coesione, condivisione, solidarietà e partecipazione.

A chi dice che il sindacato deve ripensare il suo ruolo, la sua natura e collocazione per evitare ulteriori sconfitte dobbiamo rispondere che invece il sindacato deve ripensare le sue strategie, poiché il ruolo e la natura sono inalterabili, e quindi deve elaborare una sua autonoma proposta unitaria (è quella che è mancata) di modello di società, di welfare, di economia e dei diritti. Il sindacato deve quindi prendere atto del mutamento dello scenario politico per lanciare la sua proposta per costringere gli altri a misurasi con essa.

La società si sta orientando sempre più verso la virtualità delle discussioni, i partiti politici non hanno più un rapporto con la base, anche perché le modifiche del sistema elettorale riduce sempre più la necessità di ricercare il consenso perchè il potere si sta spostando progressivamente sempre più dalla volontà popolare e dai rappresentanti eletti del popolo alle decisioni di pochi leaders. Al contrario il sindacato è una delle poche realtà dove ancora si discute collettivamente perché ha una vicinanza con i bisogni delle persone. Ne deriva che il rapporto fra chi governa ed il sindacato, se restasse così com’è, conserverebbe un unico interlocutore scomodo che potrebbe portare ad un ripensamento delle scelte economiche permettendogli di riappropriarsi della politica. E’ questo che si vuole distruggere per eliminare un soggetto pericoloso per chi vuole decidere da solo. Gli si vuole negare il ruolo di interlocutore attivo, riconoscendogli capacità di analisi e di proposta idonea al superamento della crisi economica e sociale. E lo si vuole marginalizzare quasi rappresentasse la voce di una coscienza sociale scomoda da ascoltare.

Un importante studioso della democrazia, R. Dahl, parla più esattamente di poliarchia, cioè di una forma di democrazia nella quale, accanto alla divisione dei poteri costituzionali, vi deve essere la divisione sociale dei poteri, e quindi il concetto della pluralità irriducibile delle funzioni e istituzioni sociali: economiche, scientifiche, religiose e anche politiche

Nella società italiana si deve ripristinare un nuovo modo di fare politica, anche in tempi in cui non esiste opposizione, per sancire principi e regole dalle quali non si deroga, se non riconosciuti come valori fondanti di una comunità ed il sindacato ne deve indicare alcuni ben precisi, anche all’attuale politica che è concentrata su tutte altre sintonie.

Solo una proposta forte, articolata e condivisa con i lavoratori ed i pensionati (non si capisce perché il rappresentarli è sbagliato, come se non fossero anch’essi cittadini) può sfuggire alla logica di chi ci vuole vedere in declino. Noi come Uil – in quanto potere sociale di una democrazia moderna - in questi ultimi mesi abbiamo rilanciato una serie di proposte che riguardano la riforma della contrattazione, delle Amministrazioni pubbliche, del fisco e della previdenza, del mezzogiorno e del mercato del lavoro, del sociale, ma siamo convinti che non bastano le proposte di una singola organizzazione e per questo abbiamo rilanciato il patto federativo. Perché siamo convinti che si richiede uno sforzo di elaborazione unitaria che sia in grado di ripristinare nuovi valori e nuove forme di partecipazione per farli diventare opzioni, modelli alternativi sui quali la politica è costretta a confrontarsi. Se il sindacato si riadopera a fare lo stimolatore della politica farà uscire allo scoperto anche qualche politico che, diciamo così, si è dovuto arrendere alla “dittatura della maggioranza”.

Quanti cittadini, ormai non vedono grandi differenze fra i due schieramenti ed i governanti che li rappresentano, soprattutto in materia economica e di restringimento dei diritti. Questa è la realtà di un Paese che da questo punto di vista sembra avviato verso un destino ineluttabile, contro il quale nessuno si sente di opporsi.

Credo che bisogna fare di tutto per recuperare un rapporto con la politica e con la società attraverso il rispetto reciproco. Bisogna ritrovare il confronto dialettico che, nella completa libertà di espressione, pur in presenza di un completo disaccordo, non fa venir meno il rispetto dell’interlocutore. Questo, in effetti, è il problema del nostro tempo: prevale l’urlo rispetto al dialogo. Comunque, in questo momento il sindacato deve uscire dal guscio accentuando il suo ruolo di soggetto politico trainante per rispondere all’attuale politica che ha perso la voglia del confronto e del dialogo, che annulla il rapporto con le parti sociali, mortifica le tensioni sociali per indirizzare tutte le sue energie verso leaders che una volta ottenuta la guida del governo diventano centrali e per rimanere tali, conculcano a loro volta le forze che rappresentano, convinti di divenire gli unici diretti interlocutori dei cittadini. Essi così facendo preferiscono prefigurare scenari di contrapposizione e di divisioni. Mentre sarebbe più responsabile, se non doveroso, valutare tutti assieme come uscirne per porre il paese nella condizione di rispondere alla sfida dei nuovi mercati, dei paesi emergenti, dell’Europa.

Ma anche il ruolo del sindacato deve cambiare, tornando ad essere il sindacato di tutti, dei grandi progetti di rilancio che diano certezze al futuro di tutte le componenti di una società più giusta e più equa. Si dia vita ad iniziative condivise che producano scelte sindacali strategiche per i prossimi anni con la condivisione non solo dei lavoratori ma dei cittadini.

Vi deve essere uno sforzo di modernizzazione del sindacato che deve essere rivolto a costruire una società più articolata, una società più attenta al lavoro che alla rendita; che integra e non esclude; che garantisca pari opportunità attraverso la scuola pubblica, la sanità ed i servizi pubblici; una società che coesiste con il mercato regolandolo per garantire la democrazia. Queste esigenze la politica le ha smarrite e vuole dare la colpa al sindacato, lavando così la propria coscienza. Il sindacato, invece, deve far emergere con le sue proposte la capacità di rappresentare una politica diversa, inserendole in una strategia innovativa funzionale al miglioramento della qualità della vita di tutti i cittadini, iniziando dai più deboli.

Separatore

Un'Europa dei popoli. Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil

di Antonio Passaro

Barbagallo, mentre scriviamo è in corso il Congresso della Ces. Un avvenimento estremamente importante perché segna l’avvento al vertice del sindacato europeo di un italiano: Luca Visentini, ex dirigente sindacale della Uil. Qual è il tuo commento a caldo?

La candidatura di Visentini alla Segreteria generale della Ces è stata una vittoria di Cgil, Cisl e Uil che, quando decidono di portare avanti battaglie unitarie, evidentemente, riescono a ottenere risultati importanti e apprezzabili. Nei mesi precedenti non era stato facile conseguire l’obiettivo dell’individuazione del candidato unico da eleggere al Congresso. Siamo riusciti, poi, a costruire il consenso delle Organizzazioni sindacali europee intorno alla persona di Visentini, ma il percorso è stato complesso. Si tratta perciò di un’affermazione che assume un sapore davvero particolare e che ci inorgoglisce tutti.

Cambierà qualcosa nella politica della Ces?

Noi sosterremo, con tutte le nostre forze, il nuovo corso perché siamo convinti che ci voglia più Europa e più Sindacato in Europa: e questa, ne sono sicuro, sarà la linea che caratterizzerà il mandato di Visentini. Ormai molte decisioni si assumono a livello europeo e poi vengono calate nelle singole realtà nazionali: è in quelle sedi, dunque, che occorre intervenire per far valere le nostre posizioni. La politica del rigore non regge più e, in questi anni, non ha fatto altro che far impoverire i lavoratori e i pensionati. C’è bisogno di investimenti pubblici e privati, veri e sostanziosi, che rilancio occupazione e sviluppo. Questo è ciò che serve.

Intervenendo alla giornata di apertura del Congresso, Junker, Schulz e Hollande si sono dimostrati molto aperti al confronto con i Sindacati. Che idea ti sei fatto dalle loro dichiarazioni?

Fino ad oggi abbiamo avuto un’Europa economica e monetaria, ora serve un’Europa politica, sociale e solidale: un’Europa dei popoli. Ecco perché abbiamo accolto con estremo favore l’invito di questi leader europei a incentivare la cooperazione sociale. In particolare, è stato proprio Juncker ad affermare che bisogna rilanciare il dialogo sociale: una dichiarazione che suona ancor più forte all’indirizzo del nostro Paese. In questi anni, peraltro, la politica dell’austerità ha generato una riduzione delle tutele dei lavoratori ed è cresciuto il numero dei disoccupati. Ecco perché serve puntare allo sviluppo con investimenti pubblici e privati.

Al Congresso della Ces è stato affrontato anche il tema della contrattazione. Sei intervenuto dal palco e hai ribadito le posizioni della Uil in materia, sottolinenando anche una decisa assonanza con le politiche della Confederazione europea. È così

Ho voluto precisare che la Uil condivide le proposte e gli obiettivi della Ces in tema di contrattazione, politica salariale e relazioni industriali. Soprattutto ne condivide la premessa generale e cioè che i salari devono essere considerati un motore della crescita economica attraverso il rafforzamento dei consumi interni. Infatti, dopo anni di contenimento salariale per far fronte alla crisi, oggi, è indispensabile non solo puntare al recupero del potere d’ acquisto perduto, ma anche legare lo stesso salario a fattori di sviluppo, quali il prodotto interno lordo e la produttività

E sulla questione del salario minimo? In Europa le posizioni sono diversificate...

Abbiamo apprezzato la proposta di un approccio equilibrato e differenziato al tema del salario minimo, nel rispetto delle specifiche necessità e consuetudini nazionali. Crediamo sia necessario difendere le migliori prassi esistenti nei vari paesi, in termini di coinvolgimento delle parti sociali e di individuazione del livello di copertura salariale che, comunque, dovrebbe essere incrementato in ogni Paese. In Italia, in particolare, i minimi salariali vengono fissati dai contratti nazionali di lavoro che rappresentano anche un consolidato riferimento giuridico e che sono in grado di cogliere le singole specificità settoriali, evitando fenomeni di dumping salariale. Insomma, su questo aspetto, una legge non serve, perché rischia di livellare tutti i salari verso il basso.

La vicenda della riforma del sistema contrattuale, non è ancora entrata nel vivo e ha già fatto registrare forti contrapposizioni, tanto che la prima riunione tecnica fissata per lo scorso 22 settembre non ha avuto luogo, in particolare, proprio per l’opposizione della Uil. Ci sono stati malintesi ed equivoci, ma anche strumentalizzazioni. Tu hai sentito la necessità di fare un chiarimento. Vuoi precisare i termini della questione?

Sì, effettivamente la storia è piena di intrecci e, dunque, è meglio chiarirla, poiché le conseguenze che scaturiscono dai malintesi possono procurare danni seri. Nello scorso mese di febbraio fu proprio la Uil a dare inizio alla partita, presentando alle altre parti una dettagliata proposta di riforma, ovviamente emendabile, basata sul Pil e sulla produttività, nella prospettiva dello sviluppo del Paese. Un inspiegabile silenzio assoluto accolse il nostro invito ad avviare la discussione.

E poi cosa è successo?

Dopo alcuni mesi, in vista della scadenza dei rispettivi contratti, alcune categorie hanno presentato le piattaforme per i rinnovi. Da parte della Confindustria trapelava una sola voce: quella che faceva giungere ai destinatari l’idea di una moratoria. Offerta irricevibile e rispedita al mittente, perché le condizioni per avviare o proseguire i confronti di categoria c’erano tutte. A luglio, intanto, la Cisl avanzava la sua proposta sulla contrattazione e inoltre, grazie a un impegno unitario, la Cgil esprimeva la volontà di sedersi al tavolo.

Nei primi giorni di settembre, quindi, si è svolto un incontro informale interconfederale che ha segnato l’avvio del negoziato...

Esatto. Cgil, Cisl, Uil e Confindustria si sono dati un reciproco affidamento: quel confronto non avrebbe dovuto comportare l’interruzione o anche solo il rallentamento dei singoli percorsi verso i rinnovi dei contratti. Dopo pochi giorni, invece, un’importante Federazione datoriale, ignorando quell’invito, ha proposto di bloccare la trattativa della sua categoria. La decisione del Sindacato di non partecipare, lo scorso 22 settembre, al tavolo tecnico sulla riforma, dunque, è stata solo l’esito di queste contraddizioni.

Ebbene, allora sgombriamo definitivamente il campo dagli equivoci: la Uil vuole la riforma del sistema contrattuale e relazioni industriali partecipate e costruttive. È così?

Certamente. Io credo che il tavolo interconfederale e quelli di categoria debbano procedere autonomamente e contemporaneamente. Ma Confindustria pensa davvero che sia possibile dire alle nostre categorie di fermare i rinnovi in attesa che si costruisca il nuovo modello? E’ mai possibile che si chieda a milioni di lavoratori di pazientare ad avere gli aumenti salariali, necessari peraltro a riattivare la domanda interna, finché non sia stata riformata la contrattazione? Nessuno si illuda: se non si rinnovano subito i contratti pubblici e privati, anche il più radicato dei moderati non potrà contenere l’inarrestabile spinta alla mobilitazione che già proviene dal mondo del lavoro. Si rispettino i patti, dunque, e si riattivino subito tutti i tavoli. Per il bene dei lavoratori, delle imprese, del Paese. Ne va del futuro di tutti, nessuno escluso.

Prima del Congresso della Ces, la Uil aveva riunito l’Assemblea nazionale a Bari. Oltre mille delegati si sono riuniti alla Fiera del Levante per parlare di Sud, sviluppo e contratti. Puoi sintetizzare l’esito di questo importante incontro?

A Bari abbiamo voluto dare il nostro contributo di Sindacato riformista per evitare che si costruisca una ripresa fatta solo di carta e numeri. I problemi strutturali dell’economia e del lavoro non sono stati ancora superati e molte contraddizioni, che esplodono in particolare nel nostro Mezzogiorno, restano ancora irrisolte. Dell’importanza di contratti e sviluppo abbiamo già detto. Un accenno, dunque, lo faccio alla nostra posizione su quella che potemmo definire la “nuova questione meridionale”, anche se di nuovo, purtroppo, non c’è assolutamente nulla, salvo un peggioramento delle condizioni di questa parte del nostro Paese. In realtà, dopo tante promesse, il Governo sembra volersi limitare all’amministrazione dell’esistente. Noi, invece, abbiamo lanciato una sfida: abbiamo chiesto investimenti per infrastrutture materiali e immateriali e, per quel che ci riguarda, ci siamo dichiarati disponibili a fare la nostra parte accettando una flessibilità contrattuale, per un periodo determinato, a favore di tutti coloro che verranno a investire nelle Regioni meridionali. Siamo convinti, inoltre, che occorra anche una regia nazionale per superare gli intoppi, per sciogliere i lacci e laccioli della burocrazia e per lottare per la legalità. Senza crescita del Mezzogiorno non ci sarà la crescita del Paese.

Un’ultima domanda. È in ballo anche una possibile riforma del sistema previdenziale. Ma, neanche a dirlo, le opinioni sull’argomento divergono anche nello stesso Governo. Ribadiamo la nostra posizione?

Confermo che per noi è necessaria la flessibilità in uscita verso il pensionamento anche per dare stabilità in entrata ai giovani. Ci sono proposte in campo, ma prima di esprimere un giudizio vogliamo leggere i testi, perché tra annunci e successivi pentimenti non si capisce bene di cosa si parla. La flessibilità in uscita è una necessità non solo di giustizia sociale, ma anche per le imprese che hanno problemi a mantenere i lavoratori anziani in attività. Non è possibile, infatti, andare in pensione tutti alla stessa età, a fronte di lavori differenti tra loro. Anche quella degli esodati è una questione prioritaria: quei lavoratori avevano fatto un patto con le aziende e con lo Stato. Quando vengono meno i patti, non c’è più credibilità nel futuro.

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