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SETTEMBRE 2007

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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AGOSTO 2007 

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SOMMARIO

Editoriale
Non chiamiamolo referendum ma partecipazione democratica.- di A. Foccillo

Intervista a Luigi Angeletti
Consultazione: occasione per una valutazione oggettiva di merito - di A. Passaro

Sindacale
Donne e lavoro – L’Accordo del 23 luglio 2007 - di N. Nisi  

Economia
Le vere cause della crisi in corso nel mercato finanziario globale -di M. Sarli
Le crisi dei mercati ed il “nuovo capitalismo casinò”-  di A. Ponti
Un sostegno all’economia reale mondiale - di M. Ballistreri
Anche il Mezzogiorno cresce, ma… - di P. Nenci

Società
Un futuro umano, poco umano o post umano - di G. Paletta

Attualità
Investire nel Mezzogiorno: si può. - A cura dell’Ufficio delle Politiche Territoriali
Un inizio di anno scolastico alla ricerca di stabilità ed efficenza del sistema - di P. Turi
UIL-UNSA: grandi passi avanti per il noleggio dei testi scolastici.- di N. A. Rossi

Europa
Dialogo sociale - a cura dell’Ufficio Internazionale

Agorà
La cultura dell’Antisindacato - di C. Benevento
Le Olimpiadi di Pechino: occasione per riflettere sui diritti – di G. Moretti
Dove stiamo andando? Dove andiamo a finire? E simili – di G. Salvarani
Unità, unità, unità, in ricordo di Trentin - di G. Lattanzi
38° Conferenza Internazionale IALHI. - di P. Saija

Cultura
Leggere è rileggere: Julio Cortarzar – di G. Balella
Guernica. 70 anni di un capolavoro – di A. Carpentieri
Il Cinema orfano di Antonioni e di Bergman - di L. Gemini

Inserto
Quanto tempo di lavoro- di P. Nenci
Volantone dell’accordo su Previdenza, Lavoro e Competitività – a cura dell’Ufficio Politiche previdenziali e fiscali

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EDITORIALE

Non chiamiamolo referendum ma partecipazione democratica

Di Antonio Foccillo

Dal 17 di settembre, dopo molti anni, si è avviata nei luoghi di lavoro una fase di informazione e consultazione su vasta scala, che coinvolgerà un numero ampissimo di lavoratori e pensionati e culminerà nel voto che paleserà la valutazione dei lavoratori sull’accordo del 23 luglio 2007 fra Governo, imprenditori e sindacati. Evidenziare il carattere referendario della consultazione, a parer mio è sbagliato, perché riduce la democrazia ad un singolo voto di adesione o di dissenso e ripropone il quesito se nel movimento sindacale debba prevalere la democrazia assembleare o la democrazia di mandato. Invece, ritengo che sia stato giusto avviare, su un problema di fondamentale importanza sociale, un’ampia consultazione che, coinvolgendo quanto più persone possibile, abbia concorso ad accrescere e stimolare soprattutto la democrazia partecipata, che sembra essere sempre meno gradita nelle varie espressioni di rappresentanza dell’intero Paese. L’accordo è fatto di tante parti, fra loro legate e che vanno valutate, nel loro insieme, tutte fino in fondo per essere apprezzate e, per dar vita ad un confronto meditato e partecipato. Proprio per questo si dovrebbe dare la possibilità, alle persone coinvolte, di presentare eventuali emendamenti, altrimenti, appunto, la consultazione si riduce ad un si o un no che lascia spazio solo alla demagogia e agli slogan. Oggi tutte le forme di rappresentanza hanno difficoltà di confronto con i loro rappresentati e soprattutto non ci sono sedi in cui il soggetto partecipa a pieno titolo per convincere o essere convinto delle ragioni degli altri. Venendo meno la proposta strategica e di prospettiva, ognuno, attento quindi solo al quotidiano, valuta le proposte, da chiunque avanzate, solo in base alla propria convenienza e interesse personale. Se al contrario si ritornasse ad inquadrare le singole indicazioni entro un disegno o un progetto strategico, alla fine la discussione dovrebbe necessariamente focalizzarsi su interessi collettivi prevalenti da soddisfare. In questo modo non è il singolo interesse a dovere essere tutelato, ma quello generale e nella discussione comune si stabilisce una gradualità degli interessi ed il singolo accetta le scelte, democraticamente fatte, rinunciando al suo particolare per sostenere l’interesse generale. Non ci si può lamentare se nella nostra società si avverte sempre di più la mancanza di solidarietà e di conseguenza valori edonistici e personalistici prevalgono su tutto. Sono venuti meno i valori morali e di coesione, che erano stati alla base della politica sociale. Se in passato si sono raggiunti tanti risultati positivi per i lavoratori e per l’intera cittadinanza è proprio perché vi era la consapevolezza che eravamo tutti sulla stessa barca e che un piccolo sacrificio di chi stava meglio avrebbe permesso anche agli altri di avere una vita più dignitosa. Vi era fiducia nella classe politica che, supportata dalla “intellighenzia” e dalle forze sindacali, aveva sostenuto e raggiunto un modello sociale di riferimento dove tutele e diritti erano collegati a servizi e solidarietà e quindi le proposte di politica economica erano dirette a coordinare e bilanciare l’efficienza di questo postulato.

Oggi, non è più così, non vi è un disegno strategico complessivo della società e soprattutto non si confrontano modelli diversi, per la cui realizzazione chiedere la partecipazione attiva della società. Vi è una sorta di imbalsamazione delle menti e delle proposte. Ognuno ripete vecchie e stantie idee e non vi sono alternative nei prossimi scenari, ipotizzati dai diversi schieramenti, perché non vi è dibattito e tutte le scelte sono fatte da un numero sempre più limitato di persone. Non vi è mai la percezione che chi sbaglia poi dovrà fare i conti con le scelte che persegue. Vi è una sorta d’impunità. Si può dire tutto e il contrario di tutto senza mai doverne rispondere e senza che via sia qualcuno che chieda conto di quanto operato. Basterebbe vedere quello che si è detto sulle questioni energetiche e i possibili rischi e quello che si è sostenuto nella conferenza sul clima. Dove alla fine della fiera, seppure di fronte a due valutazioni contrarie sulle cause e sugli errori commessi, nessuno poi pagherà per le conseguenze e per le spese che cadono ancora una volta sui cittadini. Infine, vi è una sorta anche di impotenza in chi deve decidere, che, di fronte ai problemi, invece, di proporre soluzioni, anche rischiando di sbagliare, preferisce sostenere che non si può fare niente e questo crea sfiducia. In questo scenario, il sindacato ha fatto bene a sottoporre il suo operato ad una verifica, confermandosi, ancora una volta, uno strumento di democrazia, in cui milioni di persone, per fortuna con idee diverse, si confrontano e discutono. Non era facile accettare la sfida, ma averlo fatto è già un positivo sintomo di risveglio e di opportunità, che consente alle persone di partecipare direttamente, non con il telecomando, alle vicende politiche e alle scelte conseguenti sul sociale e sull’economia. Può essere anche un modo per proporre ai partiti di cambiare. Troppi tribuni si alzano e danno valutazioni e sentenze, non si sa sulla base di quale mandato, e di quali rappresentanze. Non è difficile protestare e alzare polveroni populistici. Molto meno facile è risolvere i problemi scendendo in campo con proposte e con progetti di un modello di società da sottoporre al consenso o al dissenso della maggioranza. Noi non abbiamo mai pensato che i partiti sono da distruggere, anzi siamo convinti che sono essenziali per una democrazia, dove ogni forma di rappresentanza ha il diritto di esistere e di far sentire la propria voce nello spirito di una coscienza comune che tiene insieme il Paese. Per questo pensiamo che i confronti siano fatti di merito e soprattutto siano partecipati democraticamente. Solo attraverso ciò si costruiscono classi dirigenti adeguate e disegni condivisi. La società può crescere solo nella condivisione dei progetti che rispondono ai più e non ad alcuni. Ma per fare questo bisogna essere in grado di misurarsi a tutto campo, senza confronti precostituiti e soprattutto senza diverbi in ambienti ovattati e privi di interlocutori scomodi. Il sindacato ha voluto per prima indicare la strada, percorrerla, e, poi, proporla come metodo agli altri.

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Consultazione: occasione per una valutazione oggettiva di merito. Intervista a Luigi Angeletti

di Antonio Passaro

Angeletti, gli Esecutivi di Cgil, Cisl e Uil hanno approvato l’accordo sul welfare e hanno definito il percorso per la consultazione dei lavoratori e dei pensionati che saranno chiamati ad esprimere un giudizio sui contenuti dell’intesa. E’ ottimista sull’esito del referendum?

Io credo che i lavoratori approveranno l’intesa firmata lo scorso 23 luglio. Sono in corso attivi di delegati ed assemblee in tutti i luoghi di lavoro per spiegare i contenuti dell’accordo. Si voterà così dall’8 al 10 ottobre dopo che sia stato informato il maggior numero possibile di lavoratori e pensionati e dopo un’approfondita discussione sul merito. Questo percorso democratico metterà tutti nella condizione di apprezzare i contenuti dell’intesa e di esprimere un giudizio positivo.

Tuttavia, la maggioranza della Fiom ha bocciato l’accordo e sostiene le ragioni del “no”. Ti preoccupa questa posizione?

Noi dobbiamo fare un referendum e questo è ciò che conta. Varrà il giudizio dei lavoratori ai quali stiamo spiegando l’intesa e dai quali – lo ripeto- ci attendiamo una valutazione concreta sul merito e non una valutazione politica. I lavoratori dovranno verificare se ciò che è stato concordato è positivo ed esprimere un giudizio su ciò che è scritto nell’accordo.

Non c’è il rischio che il referendum si trasformi in una questione politica? Tu stesso, nel tuo intervento agli Esecutivi, hai sostenuto che non possiamo correre il rischio di essere usati dalla politica…..

Certo, una parte del Sindacato, purtroppo, considera l’accordo come un problema politico. Ma proprio per questo motivo continuo ad insistere sul fatto che il referendum, come è giusto che sia, resti l’occasione per un giudizio sul merito di quanto convenuto e non si trasformi, invece, in un giudizio sull’operato del governo.

I sostenitori del “no” affermano che una bocciatura dell’accordo consentirebbe poi di apportare modifiche migliorative. E’ mai possibile che ciò accada?

Chi sostiene questa tesi dimentica o fa finta di dimenticare che, alla fine del percorso, occorre un passaggio parlamentare che trasformi l’intesa in provvedimenti legislativi. Ebbene, in Parlamento non esiste nessuna maggioranza che sia in grado di migliorare quell’intesa; semmai c’è il rischio concreto – per non dire la certezza- che la peggiori. Se nella consultazione prevalessero i “no” si ripristinerebbero condizioni negative o si sottrarrebbe ai lavoratori una serie di vantaggi ottenuti con l’accordo. Al contrario, un “si” darebbe il via libera ai risultati positivi conseguiti con quella firma.

Quali sono, in sintesi, le ragioni del “si”?

Le ho già sintetizzate: se si eliminasse qualunque punto dell’accordo non si otterrebbe alcun miglioramento; anzi, in alcuni casi, la situazione dei lavoratori e dei pensionati peggiorerebbe. Con questa intesa, non c’è stato nessuno scambio. Il Sindacato è riuscito ad ottenere un consistente incremento delle pensioni più basse, la possibilità per i giovani di oggi di maturare pensioni future più dignitose, la detassazione degli incrementi contrattuali di secondo livello. Inoltre, è stata evitata l’introduzione dello scalone, nei termini stabiliti dalla cosiddetta legge “Maroni” e sono state anche previste garanzie per i lavori usuranti. Certo, su questo punto sarebbe stato auspicabile un risultato positivo più netto ma, comunque, il rimedio posto ad un provvedimento già approvato è stato sicuramente migliore di un male certo e altrimenti inevitabile.

Cambiamo argomento. In queste ore, la maggioranza che governa il Paese è attraversata da fibrillazioni. C’è il rischio di una crisi?

Noi non ci preoccupiamo se i Governi restano o meno in carica, perché non facciamo parte né della maggioranza né dell’opposizione. Siamo solo preoccupati che si facciano delle buone scelte politiche. Quando queste si fanno è bene che i Governo reggano e durino.

E quali sarebbero, ad esempio, alcune di queste buone scelte politiche?

Noi abbiamo espressamente chiesto al Governo che si riducano le tasse sul lavoro. I bassi salari sono il vero problema economico di questo Paese: bisogna, dunque, che siano ridotte le tasse solo ai lavoratori dipendenti. Questo è il punto su cui, sul serio, si misura la politica economica del Governo

Si continua a parlare di pubblica amministrazione, di lavoratori del pubblico impiego e, soprattutto, di prepensionamenti. Qual è la posizione della Uil?

Intanto non è vero che nel nostro Paese ci siano troppi impiegati; al contrario, ne abbiamo meno che negli altri Paesi a noi paragonabili. Né tantomeno è vero che guadagnino più dei loro colleghi europei: anche per i lavoratori del pubblico impiego c’è un problema serio di bassi stipendi. Noi siamo disposti a discutere di aumenti della produttività nella pubblica amministrazione e di come migliorare l’efficienza e la qualità del lavoro. Ma per ottenere risparmi non serve affatto predisporre piani di prepensionamento come quelli di cui si parla in questi giorni. Sarebbe sufficiente, invece, far ricorso al normale turn over già previsto e, soprattutto, occorrerebbe ridurre i collaboratori e i consulenti che continuano ad essere davvero troppi.

In queste settimane, impazza il ciclone “Beppe Grillo” e il comico genovese sembra averne per tutti. Sul fronte del lavoro, ha parlato anche di “schiavi moderni” con riferimento alla condizione dei lavoratori precari. Cosa ne pensi?

Io penso che, in Italia, nel lavoro normale e legale, la schiavitù non esista. Esiste invece nel lavoro nero che è il vero problema. Nelle aziende italiane si lavora esattamente come si lavora nel resto d’Europa; le modalità e i tempi di lavoro sono analoghi a quelli che ci sono, ad esempio, in Germania e in Francia. Si guadagna di meno, invece, ed è questo il punto critico da risolvere.

Per quanto riguarda poi il lavoro precario -che è cosa diversa dal lavoro nero- credo che esso possa essere ridimensionato facendolo costare di più e rendendolo così meno conveniente per le imprese. In questo modo ad esso si farebbe ricorso solo quando ce ne sarebbe l’effettiva necessità.

Un’ultima domanda. Siamo ormai al super Euro che, ogni giorno, fa segnare un nuovo record sul dollaro. Quali possono essere le ripercussioni di un tale trend sul mondo del lavoro e cosa dovrebbe fare la Bce?

La Banca centrale europea ha, per statuto, l’obbligo di difendere l’euro e renderlo forte. La Banca centrale americana, invece, ha per statuto la difesa del dollaro ma anche dei livelli occupazionali. Io penso che sia giunto il momento che la Bce cambi il suo statuto e che anch’essa si preoccupi di difendere l’occupazione in Europa.

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