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OTTOBRE 2015

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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SOMMARIO

Il Fatto
- Si ripropongono scelte economiche sbagliate, senza confronto e partecipazione - di A. Foccillo
- Legge di Stabilità: manovra senza direzione e insufficiente a promuovere la crescita - Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale UIL - di A. Passaro

Sindacale
- Jtuc – Rengo 14° Convegno biennale. No alle diseguaglianze! Creare una società sicura favorendo l’acceso di tutti i lavoratori al sindacato - Tokio - 6 e 7 ottobre 2015 - Domenico Proietti e Giovanni Casale
- Il Ccnl dei metalmeccanici modello per il futuro - di R. Palombella
- La ripresa selettiva: aumentano le differenze e si indebolisce lo stato sociale - di G. Cortese
- Expo 2015: un primo bilancio - di D. Margaritella
- Patto per il Lavoro - di G. Zignani
- L’economia del Mezzogiorno - di S. Pasqualetto

Economia
- Requiem per le economie di alcuni Paesi europei - di G. Paletta
- Infrastrutture: Il Sud ad una svolta. Sarà possibile? - di G. C. Serafini

Società
- Riforma della cittadinanza, Ius soli e Ius culturae: un fatto storico - di B. Casucci

Agorà
- Paisiello in…sicurezza. dopo la grande emergenza, ora un percorso di futuro – di G. Turi
- Il sindacato e la crescita della cultura dell’appartenenza - di G. Zuccarello
- Nasce Labsud – Laboratorio Sud - a cura dell’Eurispes

La Recensione
- Le proposte Uil in tema di previdenza - di P. Nenci

Inserto
- Settant’anni fa un effimero impero - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Si ripropongono scelte economiche sbagliate, senza confronto e partecipazione

di Antonio Foccillo

Queste considerazioni nascono dall’analisi sulle scelte economiche, sociali e politiche che da tempo stanno influenzando la vita dei cittadini, non ultima la legge di stabilità 2015. Gli slogan proposti sono sempre retorici ed enfatici. Presuppongono benessere, sviluppo e migliori condizioni di vita, ma alla fine si rivelano quali risanamento, sacrifici e tagli lineari di beni e servizi ai cittadini con la conseguente cancellazione dei diritti di cittadinanza.

In un Paese in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili” e dunque vige la legge del più forte o, a seconda, del più preminente, del più affluente, del più ammanicato, vi è ancora la possibilità di garantire a tutti gli stessi diritti? In questi anni abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte in materia di diritti, una distanza grandissima tra ceto politico e società. Negli Anni Settanta ci fu una grande affermazione dei diritti civili, oggi siamo in un’altra dimensione. Allora la legislazione italiana su alcuni punti era la più avanzata d’Europa. Ora siamo non solo fanalino di coda, ma lontani culturalmente. La fine delle ideologie ha portato solo alla prevalenza assoluta del mercato e di fronte a questo mondo ‘a una sola dimensione’ il contrappeso è unicamente quello che viene dalla forza dei diritti che non possono essere sacrificati senza avere ricadute sul terreno economico. Il caso dell’Ilva di Taranto ne è la dimostrazione: per anni sono stati trascurati i diritti di lavoratori e cittadini, come il diritto alla salute. Adesso tutto ciò sta portando a una crisi economica drammatica dell’azienda. Non si possono scindere diritti e governo dell’economia. La politica si è fatta fortemente condizionare da un’idea di diritti e non diritti che proveniva dalla pressione dalla forza della finanza. Così alcuni diritti non ci sono riconosciuti nella loro pienezza perché appartenenti a ognuno, ma sono accessibili soltanto a chi ha le risorse per poterli far diventare effettivi. Nel merito, dopo la fine della prima Repubblica ed in particolare a partire dal premier Mario Monti si sono prefigurate forme di privatizzazione del pubblico e del servizio sanitario nazionale con un costo dei servizi tale da non poterlo più garantire ai cittadini, pertanto come conseguenza la salute è garantita solo dalla possibilità che ognuno avrà di comprarsela sul mercato. Non ha più importanza quanto afferma l’articolo 32 della Costituzione, laddove si dice che la salute è un diritto fondamentale del cittadino. Si romperebbe lo schema indicato dal principio di uguaglianza. I miei diritti saranno misurati non dal riconoscimento della mia dignità, del mio essere persona uguale a tutte le altre, ma in base alle mie risorse. Così anche per la formazione, l’assistenza etc.Se torniamo a misurare i diritti non sulla libertà e sull’uguaglianza, ma col censo e in base al denaro, noi torniamo alla democrazia censitaria.

I diritti, anche in presenza di crisi economiche, non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni sociali molto pericolose e la soluzione che tutti prospettano di “avere più Europa”, presuppone che l’Europa non sia soltanto economica. Tuttavia dell’Europa sociale non c’è traccia, se non una inapplicata Carta dei diritti e quindi, per molti Paesi, Bruxelles è diventata la ‘fonte dei sacrifici’ e ciò che arriva dall’Europa è percepito come obbedienza a una logica economica che restringe opportunità e diritti dei cittadini.

Parlando di lavoro, l’articolo 36, dice che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” e quindi per essere tale non può essere sempre e soltanto subordinata alla logica economica, che afferma solo un minimo per la sopravvivenza che umilia le persone. Un’economia basata sulla considerazione che il lavoro non è una merce da comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere generale molto impegnative.

In periodi di difficoltà economica la parola d’ordine è sempre stata la riduzione del costo del lavoro, ignorando la scarsa capacità imprenditoriale, le diseconomie molto forti, la corruzione che significava costi più elevati in quanto costituiva un aggravio per il sistema delle imprese. Inoltre l’elevato costo del lavoro è anche il risultato del drenaggio di risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente piuttosto che un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, che sono stati – secondo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il profitto di pochi.

In definitiva il lavoro è stato sacrificato a favore di altri tipi di interesse.

In questo contesto di smarrimento e di impotenza dell’uomo a stabilire regole di convivenza adeguate alla realtà come si è configurata in questi ultimi decenni, è stata una politica con la p minuscola.

La Politica invece, è un’attività autonoma, che ha solo in se stessa e non fuori di sé, la giustificazione che la legittima: garantire la concordia interna dei cittadini e la sicurezza esterna dello Stato. Quindi, nella capacità operativa della politica di evitare scelte sbagliate e di essere all’altezza del compito affidatogli che dà “prova morale” del suo agire politico. Governare, infatti, significa riuscire ad essere efficaci, così che è l’inefficacia ad essere “immorale”.

Gli uomini hanno accettato, e continuano ad accettare, di vivere politicamente insieme per vivere meglio. Alla Politica, dunque, è affidato l’incarico di individuare le forme migliori e gli attori più capaci a realizzare le condizioni concrete per una vita felice, ragione necessaria del vivere insieme. Alla Politica i cittadini hanno diritto di chiedere volontà, forza, capacità per decisioni che perseguano e realizzino il “bene comune”, registrato quanto meno su quella speciale “amicizia utilitaristica”, indicata da Aristotele, seppure come ultima, tra le tre autentiche forme di filia capaci di mettere comunque in forma una società, che si giustifica sull “interesse di tutti”.

Fine dello Stato è la libertà, che significa insieme la meta diretta del benessere materiale e non solo di quello spirituale. Non può esserci vera libertà politica per l’uomo, se a questa non si accompagni l’affrancamento dalle immediate necessità economiche. Infatti, il criterio discriminante della libertà è la sicurezza materiale e morale.

Sovrano è colui che decide. Carl Schmitt nella sua opera conferma ciò. Il cittadino, allora, è davvero sovrano solamente quando può partecipare direttamente alle scelte fondamentali della Città alla quale appartiene. Se al suo posto sono altri a decidere, magari istituzioni bancarie, compagnie assicurative, proprietà di giornali a queste fortemente intrecciate, lobby economiche-politiche, consorterie finanziarie transnazionali poco palesi, è evidente che dire che sovrano è il popolo è un artifizio retorico e mistificante. Il cittadino, il popolo, unico titolare della sovranità, è costretto a godere, invece di un mezzo titolo di sovranità e di cittadinanza. In altre parole ad essere libero a metà. E ancora meno, se gli si sottrae la titolarità della moneta. Come si può, infatti, chiamare libero un popolo, quando non può disporre della proprietà della moneta e quando questa è in possesso di istituzioni bancarie private, che badano ai loro profitti privati e mai all’interesse comune dei cittadini?

La democrazia rappresentativa e la democrazia partecipativa

Il presupposto della democrazia liberale moderna, cioè il principio della rappresentanza sembra essere ormai superato poiché, nel mondo globalizzato, appare più adeguato un sistema di democrazia diretta che le moderne tecnologie elettroniche e di telecomunicazioni potrebbero consentire in nuove forme.

Nelle società odierne è evidente come il liberalismo non sia affatto sinonimo di democrazia, anche se le origini dei sistemi rappresentativi nascono da concezioni liberali che esprimevano lo sviluppo e la maturazione delle società mercantili e delle condizioni oggettive per il sorgere del capitalismo.

Di fronte al tentativo in atto di privatizzare e comprimere i soggetti della democrazia, bisogna reagire per ricostruirne l’autorevolezza e la legittimazione. Ristabilire le connessioni della società alle istituzioni, in assenza delle quali la convivenza civile viene meno e una comunità politica si sfalda.

Oggi sembra prepararsi l’eclissi della democrazia stessa, che prelude non un ad un vero e profondo cambiamento, ma a possibili fuoriuscite autoritarie dalla crisi, nuove deleghe in bianco alla tecnocrazia o al populismo. Infatti, l’impotenza della politica alimenta giudizi generici e sommari, suggestioni antipolitiche che producono un avvitamento fatale frutto di quella privatizzazione della politica che – con i suoi episodi eclatanti di corruzione, di uso personale dei partiti e delle funzioni pubbliche – è conseguenza del più generale processo di privatizzazione che ha reso subalterna la politica all’economia, secondo l’assunto che la politica non serve o al massimo deve assicurare il consenso a decisioni prese dai grandi poteri finanziari, obbedendo alla nuova “teologia dei mercati”. L’alternativa proposta a questa crisi di legittimità, che prescinde dall’analizzarne le ragioni strutturali e le conseguenze pericolose, è ridurre il peso della rappresentanza sostituendo alla politica la tecnica, come se questa fosse neutra e di per sé legittima. L’evoluzione o meglio l’involuzione della politica rappresentativa ha inizio dai partiti di massa che dal sistema di contatto strutturato con la propria base elettorale di cui percepivano velocemente le necessità e ne elaboravano soluzioni e strategie politiche sono passati a cedere progressivamente alle tensioni oligarchiche che si muovevano al loro interno, provocando la crisi di questo sistema. Ma la politica nel rinnovarsi (purtroppo non in meglio) ha compiuto il passaggio dalla leadership delle ideologie alla leadership del leader, sempre più mediatizzata e ridotta a slogan. Il presupposto per modificare profondamente l’attuale situazione è una ricostruzione culturale e sociale della qualità della politica, partendo da una radicale messa in discussione della infezione ideologica “privatistica” che ha dominato, anche a Sinistra, l’ultimo ventennio.

La Rappresentanza

Il concetto di rappresentanza (1) rimanda a uguaglianza, libertà, legittimazione. Tenendo conto del principio di uguaglianza diventa difficile fondare un ordine politico legittimo, perchè nessuno ha più diritto di un altro a rappresentare gli altri. La soluzione è quella di delegare il potere ad una persona che agisca nel nome della collettività come unico interprete legittimo della volontà generale. Le scelte che egli farà si considerano fatte in nome di tutti quelli che l’hanno delegato a farle. Questo ordine politico sottintende un patto in cui tutti i singoli individui cedono una parte del loro potere ad una persona che agirà in vece loro. La particolarità è che gli individui stringono il patto non con un rappresentante già presente, poichè è compito del patto creare il soggetto collettivo. Una volta determinato il rappresentante, egli non ha più nessuno di fronte a lui: è l’unico soggetto politico legittimo. Gli individui quindi non sono più presenti, ma vengono, per così dire, assorbiti nel corpo rappresentativo. Gli individui non trasferiscono però alcun contenuto politico, che sarà stabilito solo da chi è legittimato a farlo. Da questo momento in poi il rappresentante è dotato di un potere indiscutibile: qualsiasi diritto di resistenza viene negato.

In conclusione, come tutti i più pregnanti concetti politici, anche quello della rappresentanza cerca di rendere presente ciò che per sua natura è assente e questa aporia sta proprio nel patto e relativa delega al rappresentante poichè costui è sia effetto, sia condizione del patto stesso. Mai come in questo passaggio di secolo la democrazia appare, nelle sue diverse tipologie costituzionali, vulnerabile e inclinante verso oligarchie, strutturate in poteri anche non politici, economici, sociali, mediatici, o verso governi personali. La democrazia non sopravvisse alla città antica, potrebbe non sopravvivere alla nazione moderna. Occorre ancorarla a dei valori che la salvino anche nei grandi scenari della deterritorializzazione del potere, delle unioni sopranazionali, delle egemonie transnazionali, insomma di quelle forme inedite che sta assumendo la globalizzazione, ivi comprese quelle città-mondo in cui sta andando a concentrarsi metà della popolazione del pianeta, e che fungono da capitali dei mercati globali. Per quanto la democrazia sia senza dubbio una questione di regole e procedure, sebbene la democrazia richieda che esistano dei criteri ‘minimi’, la democrazia non si esaurisce infatti nelle regole, perché, inevitabilmente, è anche un ‘prodotto culturale’: non nel senso che la democrazia richieda determinate basi culturali per essere efficiente, ma nel senso che il significato di «democrazia» è sempre un prodotto culturale, è il sempre il risultato di un confronto teorico, di conflitti sociali, di esclusioni e di inclusioni, di contrapposizioni e alleanze internazionali. Quindi, se è vero, se non vi sarà partecipazione dei soggetti rappresentativi, a partire dal sindacato, per trovare forme di condivisione e coesione nelle scelte politiche in modo da agire sul quadro esistente per modificarne alcuni aspetti in termini riformistici, saranno i conflitti sempre più esponenziali a determinare una rottura radicale rispetto all’attuale assetto politico con conseguenze tutte sconosciute e non certo ottimali.

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1) Rappresentanza, ovvero la trasmissione formale del potere tra chi detiene la sovranità (il popolo) e chi è legittimato da questi ad esercitarla dal verbo latino arcaico re-ad-praesentàre, da cui il latino classico repraesentàre. e cioè di “dar forma a”, e, dunque, in questo senso, di “rappresentare”.

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Legge di Stabilità: manovra senza direzione e insufficiente a promuovere la crescita. Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil

di Antonio Passaro

Barbagallo il mese di ottobre è stato significativo per le vicende che hanno riguardato la nuova tornata di rinnovi contrattuali e, soprattutto, per la rottura di Confindustria sul confronto per la riforma del sistema contrattuale. Qual è il punto di vista della Uil?

Siamo pronti a riaprire il confronto su entrambi i capitoli: sui rinnovi contrattuali di categoria, che stanno proseguendo, e sulla riforma del modello contrattuale. In realtà, Confindustria ha fatto tutto da sola: prima ha convocato il tavolo, poi ha detto che ci sarebbe già stato un accordo tra le parti, poi ha affermato che la discussione era chiusa. Squinzi sta facendo un assist al Governo. Noi non abbiamo mai abbandonato il tavolo. Sono stati loro a non dare l’indicazione di procedere anche su quelli di categoria. Anzi, c’è stato il segnale di bloccare le trattative in corso. La nostra posizione è chiara: noi vogliamo sia rinnovare i contratti, ai tavoli di categoria, sia approntare le nuove regole, al tavolo interconfederale. Confindustria non perda tempo, ne ha già perso troppo. E non si aspetti sconti da parte nostra: milioni di lavoratori attendono i rinnovi.

Intanto, con due mesi di anticipo e senza un’ora di sciopero, è stato raggiunto l’accordo per il rinnovo del contratto del settore chimico farmaceutico.

Per fortuna gli imprenditori del settore non hanno avuto il tempo di leggere il decalogo o il pentalogo dei vertici di Confindustria e, così, non hanno seguito le loro indicazioni. Da tempo abbiamo detto che il 2015 deve essere l’anno dei contratti: questo evento va nella giusta direzione. Per agganciarsi alla ripresa, serve detassare strutturalmente il lavoro, rinnovare i contratti, restituire potere d’acquisto ai lavoratori e ai pensionati e dare stabilità occupazionale ai giovani. Solo così si può dare impulso alla domanda a vantaggio del 75% delle imprese che producono per il mercato interno, con ricadute positive per l’occupazione e l’economia del Paese. Tradizionalmente, il settore chimico ha fatto da apripista: altre categorie dovranno seguire, non solo nel privato, ma anche nel pubblico, perché se non si firmano i contratti, i lavoratori continuano a perdere potere d’acquisto e noi non potremo restare a guardare. Ora aspettiamo il rinnovo degli altri contratti privati: metalmeccanici e alimentaristi.

E mentre, dunque, nonostante le difficoltà, nel privato è possibile chiudere gli accordi per i rinnovi contrattuali, il datore di lavoro del pubblico impiego resta a guardare. Non è ancora partito alcun confronto e le risorse appostate nella Legge di Stabilità per il rinnovo contrattuale non lasciano ben sperare…

Effettivamente il Governo si conferma il peggior datore di lavoro. Guardando la Legge di Stabilità l’aspetto più negativo è proprio il finanziamento risibile per il rinnovo dei contratti dei lavoratori del pubblico impiego: i 300 milioni stanziati per il 2016 equivalgono a un incremento di soli 8 euro mensili lordi. Una scelta in palese violazione della sentenza della Corte costituzionale che ha prescritto la necessità di rinnovare i contratti già a partire dal 2015. Se non si siedono per fare il contratto, avranno le risposte che un sindacato - che invece vuole fare contratti - deve dare.

Le categorie del pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil, infatti, sono già sul piede di guerra e hanno annunciato una serie di proteste e mobilitazioni, non escludendo, se non ci saranno risposte, lo sciopero generale. Cosa ne pensi?

Dopo 7 anni, senza risposte, è il minimo che si possa fare. Faremo una lotta a tempo indeterminato e a tutela crescenti, perché la sentenza della Corte Costituzionale deve essere rispettata. Un sindacato prima bussa delicatamente, poi insiste perché si apra la porta e, quando nessuno risponde, dà una spallata. Il Governo deve sapere che non può dare tutto ai datori di lavoro e nulla ai lavoratori. Per rinnovare i contratti del pubblico impiego servono maggiori risorse: stando ai calcoli che, indirettamente hanno fatto loro stessi, occorrono 7 miliardi. Uno Stato che non si preoccupa dei propri lavoratori è uno Stato che non crede nel lavoro.

Nel suo insieme, qual è il giudizio della Uil sulla legge di Stabilità?

È una manovra senza direzione e insufficiente a promuovere la crescita. L’Esecutivo non ha fatto una scelta di campo: è stato dato un contentino a tutti, secondo le vecchie logiche “cerchiobottiste” democristiane, non risolvendo strutturalmente i problemi di fondo. In realtà, siamo in presenza di più manovrine piuttosto che di una linea omogenea e coerente.

Nel dettaglio, cosa non ti convince?

Oltre alle esigue risorse per il rinnovo dei contratti dei lavoratori del pubblico impiego, ci sono molte altre misure che non possiamo tollerare. Sul fronte fiscale, ad esempio, riteniamo sbagliata la scelta di innalzare a 3000 euro il tetto per l’uso del contante: non aumenteranno i consumi, non si aggiungerà un centesimo nelle tasche degli italiani e si rischia di incentivare l’evasione fiscale e il malaffare. Importante, invece, è il ritorno alla detassazione degli incrementi salariali legati alla produttività, anche se le risorse appostate appaiono insufficienti. Il piano di contrasto alla povertà è ancora inadeguato e non è del tutto strutturale. Infine, risultano insufficienti i provvedimenti sul Sud: anche in questo caso, a differenza dei proclami della vigilia, gli stanziamenti sono assolutamente inadeguati. Non c’è traccia di investimenti significativi per le infrastrutture materiali e immateriali che sarebbero, invece, necessari per lo sviluppo di tutto il Paese e, in particolare, del nostro Mezzogiorno.

Sul Sud, dunque, il Governo è sembrato impreparato, ma senza la ripresa nel Mezzogiorno, il Paese potrà mai decollare?

Non tutti hanno la percezione che senza il Mezzogiorno il Paese non va avanti. Lo abbiamo detto molte volte: bisogna investire in infrastrutture materiali e immateriali, recuperare la regia delle autorizzazioni e, soprattutto, commissariare ad acta le Regioni, a cominciare da quelle del Sud, che non spendono le risorse dell’UE. Occorre radicare la produzione di beni e cose nel Mezzogiorno, altrimenti il Paese non si riprende.

Dopo mesi di discussione sull’opportunità di abolire o meno la Tasi, la Legge di stabilità ha chiarito l’intento dell’Esecutivo. Cosa ne pensi?

La riduzione della TASI è un fatto positivo, ma la generalizzazione di questo provvedimento, con il paradosso degli sconti per chi ha immobili di enorme valore commerciale e con la mancanza di un criterio selettivo, lo rende iniquo e anche economicamente inefficiente. È necessario, ora, avere la certezza che le casse dei Comuni non risentano del mancato introito, altrimenti c’è il rischio di riflessi negativi sull’erogazione dei servizi o sulla tassazione locale notevolmente accresciuta negli ultimi anni. Identico ragionamento e stesse preoccupazioni valgono per il mancato finanziamento integrale del fabbisogno del sistema sanitario.

E sulle pensioni?

Sul fronte delle pensioni è inaccettabile che, nonostante i proclami dei mesi precedenti, non sia stato affrontato il tema della flessibilità in uscita, operazione che avrebbe risolto non solo i problemi dei pensionandi, ma avrebbe creato nuovi spazi per i giovani. Un piccolo passo avanti, tuttavia, è stato fatto con l’introduzione del part-time negli anni antecedenti al pensionamento: era stata una richiesta della Uil, proprio per favorire la cosiddetta staffetta generazionale, e su questo punto il nostro giudizio è positivo.

La Uil, insieme alla Uil pensionati, ha giudicato insufficiente il cosiddetto “rimborso Poletti”: i pensionati, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale, non hanno ricevuto tutto ciò a cui avrebbero avuto diritto. E così è nata l’idea del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Cosa viene contestato?

Contestiamo la mancata attuazione integrale della sentenza della Corte Costituzionale n. 70 che ha dichiarato incostituzionale il blocco totale della perequazione automatica delle pensioni di importo superiore a tre volte il minimo. Le misure del Governo vanificano, di fatto, gli effetti del pronunciamento della Corte Costituzionale, restituendo solo una piccola parte di quanto non percepito nel periodo 2012-2015. Se otterremo un pronunciamento favorevole, la Corte europea potrà condannare il Governo italiano ad adottare tutte le misure necessarie in grado di risolvere il problema della mancata perequazione per tutti i pensionati.

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