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NOVEMBRE 2010

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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OTTOBRE 2010

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SOMMARIO

Il fatto
Le nuove relazioni industriali - di A. Foccillo

Intervista a Luigi Angeletti Segretario generale UIL
Siamo un Paese fondato sul lavoro: questa è la nostra ricchezza - di A. Passaro

Sindacale
Il Libro Verde - di D. Proietti 
Il settore costruzioni chiede un intervento deciso e scende in piazza il primo dicembre - di A. Correale
Pac 2020, se l’Europa sceglie la politica del “carretto” -  di S. Mantegazza
Abusivismo dilagante in campo medico e nelle professioni sanitarie - di G. Torluccio

Attualità
Vicenza: 1 Novembre 2010 - la grande alluvione - di R. Dal Lago
Salerno e la sua provincia: luci ed ombre - di G. Pirone
Il “collegato lavoro” e il diritto del lavoro - di M. Ballistreri 

Il Ricordo
Novantesimo Anniversario della nascita di Lino Ravecca - di P. Saija

Società
Italiani nel mondo e nel mondo Italiani - di M. C. Mastroeni 
Società, costume, danni morali e materiali - di G. Salvarani
Le donne oggi: sempre più divise tra lavoro e famiglia - di G. Zuccarello

Economia
Seoul 2010 - di G. Paletta
La crisi economica non è una tigre di carta - di A. Ponti

Il Corsivo
Il trionfo del Tafazzismo - di Prometeo Tusco

Agorà
Pomigliano: un accordo; un referendum, una speranza - di G. Lattanzi

Cultura
Leggere e rileggere - Il Faro di Akerman - Divagazioni su una lirica di Adam Mickiewicz - di G. Balella
Nascita di una Nazione. Noi credevamo di Mario Martone - di S. Orazi

Inserto
La guerra, un anacronismo crudele e insensato - di P. Nenci

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EDITORIALE

Le nuove relazioni industriali

Di Antonio Foccillo

E’ importante capire cosa sono diventate le relazioni industriali nell’era della globalizzazione, alla luce di quello che sta avvenendo in Italia e nel mondo. Si discute molto anche per le innovazioni invocate da Marchionne, il manager Fiat, e soprattutto per la crisi produttiva innescata dalla grande crisi Finanziaria. Molti sono i suggerimenti al sindacato sulla sua necessaria svolta per la modernizzazione, ma in realtà vediamo come stanno le cose. Oggi è evidente un indebolimento di tali rapporti in quasi tutte le economie industrializzate. Le cause delle difficoltà in Europa vanno ricercate in una serie di ragioni di carattere economico e sociologico. Innanzitutto la composizione del mercato del lavoro è radicalmente cambiata negli ultimi decenni. Col declino del modello fordista e la rapida evoluzione delle tecnologie della comunicazione, sono state ridotte le unità produttive e sono iniziati e si sono ampiamente diffusi i processi di esternalizzazione verso imprese di piccola dimensione, per cui sono venuti a mancare i tipici luoghi di aggregazione dei lavoratori. Ebbene, se dovessimo guardare alle esperienze di altri, vedremmo che, in tutto il mondo occidentale, gli effetti combinati della globalizzazione, del liberismo, delle delocalizzazioni e deregulation hanno prodotto flessibilità, indebolimento di alcuni diritti e riduzione del peso del sindacato, nel tentativo di confinarlo sempre più in una logica aziendale per poi accusarlo di corporativismo. Anche in Italia questi processi hanno prodotto alcuni danni, in verità limitati perché il sindacato confederale è ancora forte dal punto di vista della rappresentatività e aggregazione del consenso, che derivano proprio dalla sua caratterizzazione confederale. Il punto è proprio quello di mantenere il carattere confederale, cioè un sindacato che sia in grado di entrare nei processi politici, economici e sociali con l’intenzione, senza conservatorismo, di prevederli, anticiparli e gestirli. Certo negli anni sono cambiate tante cose: dalla composizione quantitativa e qualitativa del mercato del lavoro ad uno stato sociale che è passato dal welfare state al welfare community che ha ampliato i soggetti che intervengono, sia privati che organizzazioni non profit; dalla crisi dei sistemi di tutela per gli alti costi dovuto alle modifiche dell’età (aumento degli anni) di chi li utilizza al ridimensionamento del poter di acquisto dei salari e delle pensioni; da un fisco che sempre meno è in grado di essere distributore di ricchezza ed, anzi, amplifica le differenze ad un sistema produttivo in difficoltà, per la crisi, a rilanciare prodotti di qualità, avendo perso investimenti in ricerca ed innovazione; da infrastrutture sempre più vecchie e non rispondenti alle esigenze della competitività dell’intero sistema paese ad un’amministrazione pubblica che negli ultimi 10 anni aveva avviato un’opera di modernizzazione e di riforma dello status giuridico e che negli ultimi due anni è stata frenato enormemente: da una serie di servizi pubblici esternalizzati o pubblicizzati che ancora di più hanno aumentate le divaricazioni fra cittadini ad una politica che limita molto il potere partecipativo democratico; da una politica europea che non decolla pienamente e non riesce ad essere “sentire comune” dei cittadini ad un sindacato europeo che non trova una sua funzione vera di potere contrattuale anche per i lavoratori europei.

Di fronte a ciò piuttosto che chiudersi in difesa il sindacato confederale deve uscire allo scoperto ed indicare un suo modello di società e di regole condivise, un modello di stato sociale, una partecipazione nella gestione dell’economia e delle scelte economiche e quindi, anche, di nuove relazioni partecipate a livello di azienda. In sintesi deve ritornare a fare politica, avendo la consapevolezza di essere soggetto rappresentativo di un vasto mondo e che in una società democratica e pluralista ogni soggetto è legittimato e accettato anche per la sua capacità propositiva, che partendo dagli interessi particolari li inquadra sempre in un quadro di compatibilità generale del Paese. Sulla base di queste considerazioni, possiamo chiederci quale sarà il futuro per il sindacato e come continuerà a esercitare la sua funzione di rappresentanza e in tal senso, oltre alla funzione di soggetto di partecipazione alla politica macroeconomica, dovrà conquistare nuove relazioni industriali per la partecipazione a livello microeconomico. Prima di arrivare alla conclusione vorrei ricordare qualche definizione di relazioni industriali:

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera: In diritto con relazioni industriali si intende la moderna disciplina giuridica sorta agli inizi degli anni novanta del Novecento, che studia i rapporti tra stato, imprese, sindacati e lavoratori. Comunemente le cosiddette relazioni industriali consistono nell’insieme delle regole vigenti in materia sindacale, all’interno del vigente ordinamento giuslavoristico. Più di recente, nuovi studi dottrinari, all’interno dei soggetti che caratterizzano le cosiddette relazioni, osservano una sorta di crisi delle organizzazioni sindacali di stampo tradizionale: si parla, in questo caso, anche di relazioni sindacali. Il Giurista e già Ministro del lavoro, Tiziano Treu, sostiene che esse sono: un insieme di norme, formali ed informali, relative al rapporto di lavoro; di metodi, dalla contrattazione collettiva alla legislazione, per stabilire ed applicare tali norme; di attori tra loro interagenti (imprenditori, sindacati, Stato) e operanti in un dato contesto economico e politico. Generalmente si dice che un sistema di relazioni industriali è efficace, quando il conflitto in uscita è minore di quello in entrata.1”

Per quanto ci riguarda possiamo aggiungere che fra gli elementi costitutivi del sistema di relazioni industriali, tradizionalmente individuati, le condizioni sono determinate dai diversi equilibri politici, che influenzano di volta in volta l’assetto dei rapporti tra i soggetti. Infatti, nell’analizzare le dinamiche delle relazioni industriali, cioè l’insieme dei rapporti negoziali, si dovrebbe partire da uno studio della contrattazione collettiva, che rappresenta un fattore in grado sia di dare senso all’azione sindacale sia di valutarne i risultati. Altresì non possono essere ignorati i condizionamenti dati dall’ambiente e dalle organizzazioni economiche alla situazione dei lavoratori e alle loro rappresentanze e dall’altra i cambiamenti che avvengono nell’impresa a causa dell’azione rivendicativa e negoziale. Ed, infine, anche la legislazione che ha influenzato in vari modi le relazioni sindacali ed in particolare quella che ha aiutato gli attori sociali a riconoscersi e a legittimarsi. Gino Giugni, uno dei padri di questa teorizzazione, non solo a parole ma con interventi molto incisivi dallo Statuto dei lavoratori all’accordo sulla politica dei redditi, sostenne che la legislazione dovesse essere di “sostegno” o “promozionale” e dovesse mirare: “ad incoraggiare e garantire la contrattazione e gli autori di essa, rimuovendo ostacoli giuridici e di fatto, ponendo in essere più avanzate condizioni legali e di esercizio, che non fossero quelle di mero diritto comune”. E, di fatto, proprio a luglio 1993 si giunse a un nuovo accordo sul costo del lavoro, che segnò l’inizio di una strategia di concertazione che ha caratterizzato il sistema di relazioni industriali per quasi un decennio. Esso, infatti, ha ridisegnato profondamente il sistema delle relazioni industriali, stabilendo una nuova disciplina delle rappresentanze sindacali aziendali, individuando un equilibrio preciso fra contrattazione collettiva nazionale e aziendale, istituendo il metodo di negoziazione delle retribuzioni nel quadro di una politica dei redditi nazionale che superava il meccanismo della scala mobile. Inoltre, il nuovo assetto contrattuale introdotto dal Protocollo del 23 luglio 1993 ha favorito un clima di bassa conflittualità sociale, ponendo le basi di un modello di relazioni industriali concertativo e maggiormente partecipativo. Oggi, la struttura delle relazioni industriali in Italia, presenta un problema di “fondo” per l’instaurazione di una “nuova” prassi di partecipazione dei lavoratori alla gestione d’impresa. Nella tradizione italiana, non solo è sconosciuta la forma della partecipazione forte, ma anche il coinvolgimento dei lavoratori, racchiuso nei sistemi di informazione e consultazione, è sempre stato subordinato o legato all’azione sindacale di rappresentanza. Vi sono state solo alcune eccezioni, basate sull’iniziativa volontaria, in cui i rappresentanti dei lavoratori hanno avuto un ruolo importante nel tavolo decisionale, come in Zanussi, Electrolux e ENI. A parte queste eccezioni, non vi è stata altra pratica di partecipazione al processo decisionale dei rappresentanti dei lavoratori Tuttavia le parti hanno iniziato ad adottare un approccio più pragmatico a partire dal dibattito in seno alla trasposizione della direttiva sulla Società europea, che ha prodotto l’avviso comune del 2 marzo 2005, dove le parti si sono espresse a favore del sistema dualistico. In seguito, mentre nell’accordo sulle regole contrattuali del Gennaio del 2009 si è dato un ampio spazio al ruolo e alle funzioni degli Enti Bilaterali, proprio nell’ottica partecipativa. Venendo al domani è fuor di dubbio che il tema della modalità e del processo di partecipazione, alla luce delle tante difficoltà diventa elemento fondamentale e cruciale per il sistema italiano. Su questo debbono caratterizzarsi le nuove relazioni e la definizione di un nuovo modello italiano. Se la sfida sarà colta lo potrà dimostrare solo l’indirizzo delle prassi negoziali che si avvieranno, alle quali è data la scelta del modello e del grado di coinvolgimento dei lavoratori.

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Note:

1. T.Treu - Glossario italiano del lavoro e delle relazioni industriali – ed. FrancoAngeli – Milano 1992 – cit. pag.180

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Siamo un Paese fondato sul lavoro: questa è la nostra ricchezza. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale UIL.

di Antonio Passaro

Angeletti, il 2010 potrebbe chiudersi con una crisi di governo certificata dalla sfiducia parlamentare. La situazione è del tutto incerta al punto che l’esito del voto potrebbe essere differente tra i due rami del Parlamento. Quali possono essere le prospettive di questa difficile e complessa congiuntura politica?

In questo momento la situazione è talmente fluida e incerta che preferisco limitarmi ad una battuta. Io penso che i governi servano per governare: se non hanno la forza politica per farlo, o se manca la volontà, allora è meglio andare alle elezioni anticipate. Intanto, il prossimo 14 dicembre, capiremo se il governo ha ancora la fiducia dei due rami del Parlamento, poi si vedrà.

In questo quadro, la ripresa economica è ancora troppo timida ed emerge una difficoltà a competere da parte delle nostre aziende. Da qui l’idea del tavolo tra le parti sociali. A che punto siamo?

Al momento non c’è ancora un patto: vanno sciolti alcuni nodi relativi a tre capitoli. In particolare noi consideriamo quello sulla produttività decisivo perché si possa parlare di un contributo serio delle parti sociali alla crescita della nostra economia.

Mi sembra comunque che, proprio alla luce di queste difficoltà, si vada affermando un’idea diversa delle relazioni industriali. E tuttavia c’è ancora qualche resistenza…

Oggi l’oggetto delle relazioni industriali è diventato la sopravvivenza dell’azienda. Si compete tra Paesi che hanno tutti lo stesso obiettivo: esportare. Noi dobbiamo produrre beni e servizi che qualcuno deve comprare volontariamente. Siamo un Paese fondato sul lavoro perché questa è la nostra unica ricchezza. Salvare l’impresa e far sì che essa sia competitiva, dunque, è anche un nostro problema e questo, per l’appunto, determina un cambiamento della qualità delle relazioni industriali. L’auspicio è che tutte le forze sociali ne siano effettivamente consapevoli.

Anche l’occupazione risponde a logiche diverse. Che cosa serve, oggi, per creare posti di lavoro?

A differenza di quello che molti erroneamente pensano, l’occupazione non è una derivata della politica ma dell’economia. Se si potessero creare posti di lavoro per legge, avemmo già risolto il problema da molto tempo: ma non funziona così. Si crea occupazione e buona occupazione se le imprese generano lavoro e se si fanno investimenti produttivi. Poi, certo, se si realizzassero anche politiche fiscali adeguate a sostenere la domanda interna, questo potrebbe rappresentare uno stimolo ai consumi e quindi un input per la produzione di beni e servizi delle nostre imprese, con ripercussioni positive anche per l’occupazione

Qual è il tuo giudizio sullo Statuto dei lavori recentemente varato dal Consiglio dei ministri?

Per certi aspetti, lo Statuto dei lavori va proprio nella direzione di cui parlavamo prima: è una rivendicazione della nostra Organizzazione per dare risposte efficaci alla rapida evoluzione del mercato del lavoro. Nuove forme e nuove modalità occupazionali richiedono un’estensione delle tutele e un’attenzione particolare alle esigenze dei giovani e delle donne. E’ da apprezzare, inoltre, il metodo che prevede non una consultazione delle parti sociali ma un loro coinvolgimento nella forma dell’avviso comune. Può iniziare ora un percorso per approdare ad un testo condiviso, con l’obiettivo di tutelare chi lavora ma anche di sostenere chi vive le difficoltà di una condizione di precarietà

Il lavoro è un problema soprattutto nel Sud del nostro Paese. Nel mese di novembre c’è stato a Palazzo Chigi un tavolo sul Sud ed è stata accolta l’idea di una cabina di regia per coordinare una serie di provvedimenti. Soddisfatto di questo nuovo percorso?

Condivido la proposta della cabina di regia: noi siamo disponibili. Perché funzioni, però, occorre una ferma volontà politica dei soggetti coinvolti. Il coinvolgimento delle regioni è fondamentale ma è necessario che, anche su questo terreno, potere e responsabilità siano sempre congiunti. Ecco perché abbiamo chiesto, con determinazione, l’attivazione di strumenti che inducano la pubblica amministrazione nel Mezzogiorno a funzionare meglio.

E a proposito di Sud e di lavoro, facciamo un passo indietro e torniamo a parlare di Pomigliano. La vicenda Fiat, proprio in queste ore, è ancora alla ribalta della cronaca. Quali sono le prospettive dello stabilimento campano e degli altri siti produttivi del Gruppo?

Il progetto va avanti e Pomigliano ha rappresentato una prima importantissima tappa. Sono anni che chiediamo alla Fiat di consolidare e accrescere la produzione di auto negli stabilimenti italiani. Li abbiamo convinti e l’accordo di Pomigliano, che porta la produzione della Panda in Italia, garantendo così occupazione e futuro a quello stabilimento, è una vittoria dei sindacati e dei lavoratori. Ora occorrono accordi anche per rilanciare gli altri siti, a partire da Mirafiori. Ma sarebbe un errore pensare che si possa esportare il cosiddetto “modello Pomigliano” negli altri stabilimenti della Fiat: ogni singola fabbrica è una realtà a sé stante con le sue specificità che richiedono approcci e soluzioni diversificate.

C’è stato chi, a proposito dell’accordo di Pomigliano e della Fiat, ha parlato di strappi alla democrazia. Cosa rispondi a queste affermazioni?

Chi parla, con riferimento alla vicenda Fiat, di strappi alla democrazia e ai diritti costituzionali, mente sapendo di mentire o non sa di cosa parla. Negli stabilimenti Fiat esistono più tutele e più diritti che in altri stabilimenti europei. Così come in tantissimi altri posti di lavoro, ogni tre anni, nel segreto dell’urna, i lavoratori scelgono i loro rappresentanti sindacali. A Pomigliano, c’è stato un referendum con cui i lavoratori hanno detto sì all’accordo. Non è stato intaccato alcun diritto, men che meno un diritto costituzionale. Al contrario, con quell’accordo, sarà garantita l’occupazione in una realtà difficile dal punto di vista sociale come è la Campania e ci sarà anche una crescita del salario in presenza di maggior lavoro. Sono questi i risultati a cui deve puntare un sindacato.

E proprio in questi giorni si è aperto il tavolo su Mirafiori. Qual è l’obiettivo della Uil?

E’ molto semplice: dobbiamo mettere in sicurezza Mirafiori dando a questo stabilimento nuovi modelli da produrre e garantendo così l’occupazione e lo sviluppo. Questo è l’obiettivo e ci auguriamo che tutti quanti lavorino nella stessa direzione. Marchionne ci ha rassicurati: continuerà ad investire in Italia. E’ esattamente quello che noi vogliamo.

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