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NOVEMBRE 2008

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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OTTOBRE 2008

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SOMMARIO

Editoriale
Cambiare per individuare il giusto percorso - di A. Foccilo
Intervista a Luigi Angeletti Segretario Generale della Uil.
Il Paese ha bisogno di un grande sindacato - di A. Passaro

Intervista
“Un sindacato in sofferenza ma tutt’altro che sconfitto”
Intervista a Giorgio Benvenuto – di P. Nenci

Economia
Il lato positivo della crisi - di E. Canettieri
Il governo delle banche - di G. Paletta
Il mago di Oz - di A. Ponti

Sindacale
La medicina che vogliamo - di A. Masucci
“Memorandum”: è possibile una riforma condivisa per il riordino organico
degli enti previdenziali privati? - di A. Renzi

Approfondimento
Alitalia: cronaca di una morte annunciata e di una rinascita - di P. P. Maselli
Liberta’ della Ricerca Scientifica e Valori Costituzionali - di I. Vitulia

Europa
La sfida dell’Europa sociale: la partecipazione dei lavoratori - di L. Marasco

Agorà
Sull’amianto... - di A. Carpentieri
I giovani e il sindacato - di G. Salvarani

In Ricordo
Premio Giovanni Gatti - di M. C. Mastroeni

Cultura
Leggere è rileggere. GABRIEL GARCIA MARQUEZ: L’autunno del Patriarca
di G. Balella

Inserto
Le immagini della fatica - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Cambiare per individuare il giusto percorso

Di Antonio Foccillo

Voglio, per scelta, essere ripetitivo. Come si fa nel nostro Paese a non considerare che una serie di parole d’ordine che hanno proliferato a lungo non debbano essere messe in discussione alla luce di quello che sta avvenendo o che avverrà nell’economia mondiale. Quanti assunti si sono dimostrati sbagliati. Eppure erano stati proclamati come gli eventi che avrebbero portato ricchezza e benessere nel mondo.

Oggi viviamo una fase molto difficile della nostra vita sul piano economico, sociale, politico e culturale. Di fronte allo sfascio di un’economia virtuale che può coinvolgere l’intero sistema economico e produttivo bisognerebbe ritornare a progettare modelli diversi e contemporaneamente al momento dell’elaborazione attivare la partecipazione di tutte le strutture di rappresentanza che possa portare a produrre scelte economiche condivise. Ma come si fa a non volere capire che bisogna che tutti cambino registro e individuare un modello di società con regole, procedure e soggetti in grado di mettersi insieme e creare un valore aggiunto. Alcuni sostengono che dato che la crisi è globale ha bisogno di risposte globali, ma credo che senza aspettarle anche nei singoli paesi qualche cosa si possa fare e soprattutto l’Europa debba svolgere di nuovo un ruolo di proposizione come avveniva all’epoca di Delors.

Se torniamo alla storia, che è sempre necessaria nelle elaborazioni di attualità vediamo che nelle società industriali il pensiero sociale e politico si polarizza su due ideologie contrastanti: quella dello stato centralista e quella della società pluralista. La centralizzazione, nella tradizione di Rousseau e di Marx, pone l’accento sull’interazione fra l’uomo razionale e lo stato centralizzato, controllato dall’opinione pubblica.

Il pluralismo nella tradizione sociologica di Tocqueville e di Weber insiste sulla necessità di bilanciare il potere dello Stato centrale, se si vuole preservare la libertà dell’individuo, con sottostrutture che abbiano autorità all’interno della società e che siano distribuite in una vera comunità nella zona intermedia tra l’individuo e lo Stato.

Di queste due teorie la centralizzazione, anche se più attraente, rischia, se non controllata democraticamente, di portare allo stato totalitario dove la burocrazia domina incontrastata, come dimostra il passato dei paesi dell’ex Unione Sovietica.

Mentre il pluralismo presuppone il bisogno di strutture con funzioni mediatrici che siano capaci di rafforzare la comunità, anche se è difficile capire dove collocarle per renderle reali ed efficaci. Esse devono essere rappresentative della comunità locale, del movimento cooperativo, delle associazioni professionali o sindacali, ecc.

Per fare questo non basta solo la partecipazione dei diversi attori sociali, ma anche una società organizzata in modo tale che provveda ad un’equa distribuzione dei redditi, ad una tutela della giustizia individuale, a collegamenti fra gli enti pubblici e le comunità locali, all’eliminazione dell’inopportuna burocratizzazione del centro ed un’adeguata organizzazione per il pieno impiego delle capacità e dei talenti professionali. Credo che si possa progettare l’organizzazione ed il controllo in modo da avere la sicurezza che gli effetti delle scelte economiche e sociali siano in linea con le esigenze di una società civile e aperta e tali da farla crescere democraticamente.

Che esista, poi, nell’attuale situazione, la volontà politica di attuare questo piano, è un altro discorso, ma questa sarà la parte più importante che dobbiamo conseguire, visto quello che è successo fino ad oggi. Questa situazione determina un indebolimento del vincolo sociale, la diminuzione della sicurezza e della fiducia, la diffusione dell’alienazione e dell’insicurezza sociale con la conseguenza di uno sperpero di risorse, da un lato, e, dall’altro, di tempo che rende il sistema complessivo non competitivo. Quando le istituzioni causano l’insorgere del sospetto, stimolano anche, a livello inconscio, il timore che le loro azioni siano finalizzate alla vessazione e non possono diventare, in nessun caso, un valore aggiunto nella società per determinare sviluppo e benessere. Abbiamo bisogno, in primis, di procedure che funzionino con sistemi aperti e semplici in grado di costruire una società in cui il cittadino si senta garantito e tutelato in un verso e nell’altro in grado di esprimere la propria capacità di intraprendere. Una burocrazia efficiente, per la gamma dei servizi e dei vincoli che immette nella società, è in grado di contribuire al benessere e al miglioramento del tenore di vita del cittadino, e di converso, se inefficiente è in grado di ridurre la ricchezza e determinare povertà. La burocrazia è una delle principali istituzioni sociali il cui fine deve essere rivolto all’arricchimento democratico e alla sicurezza economica in tutti i campi: sociale, politico, formativo, di produzione e di benessere fisico e psichico. Il problema sociale non è altro che uno degli aspetti del tema più generale di come le istituzioni di qualsiasi società influenzano e incanalano non solo le prospettive e le aspirazioni dei cittadini, ma anche il loro comportamento. Se vogliamo avanzare ancora di più sulla via del progresso, dovremo scoprire e creare istituzioni più umane, che indirizzino e incoraggino il comportamento effettivo delle persone in una direzione sempre più coerente con il nostro senso universale, con il nostro bisogno di normalità, ragionevolezza, eticità, moralità e funzionalità. Da questo deriva che le forme organizzate delle istituzioni devono partecipare alla creazione di una società sempre più giusta, obiettivo questo sempre rivendicato dal sindacato. La seconda necessità è di puntare ad un vero decentramento dei poteri in modo tale che si arrivi, da un lato, ad un’articolazione degli stessi e dall’altro al controllo e alla partecipazione dei cittadini, al fine di realizzare una vicinanza più stretta fra chi esercita i poteri e chi ne usufruisce, e di sostanziare così quel principio, che si sosteneva in premessa, di una condivisione delle scelte per ricreare coesione e solidarietà. Oggi tutte e due i presupposti non sono pienamente realizzati. Proprio per questo dobbiamo valutare con cura quello che è successo e nello stesso tempo operare per cambiare. Tutto questo poi rischia di apparire ancora più in distonia con un processo di tutele e garanzie che debbono essere ricreate per dare risposte ad una crisi economica che sarà lunga e dirompente. Vi sono questioni che non possono più aspettare. La prima senza dubbio è quella di ricreare una condizione di sviluppo produttivo che ridia fiato all’economia reale a discapito di quella virtuale che tanti danni ha prodotto. La seconda è sempre per la stessa motivazione dare più reddito e quindi più potere di acquisto ai lavoratori ed ai pensionati. La terza è sostenere con adeguati ammortizzatori sociali le persone che rischiano sempre di più l’occupazione. La quarta è tentare di risolvere con la stabilità, ovviamente gradatamente, i tanti contratti di flessibilità che sono stati imposti come la panacea per il rilancio produttivo ed economico e che oggi con la crisi economica saranno i primi a pagare. Eppure mi sembra che ancora non si è vuole cambiare registro, si continua imperterriti a seguire logiche di neoliberismo. Come può essere giustificata la privatizzazione dell’acqua che è un bene essenziale e che si aggiunge a quella dei trasporti, alla sanità, alla scuola e all’Università. Sono state queste scelte insieme alla deregulation di tante tutele e di tante garanzie e protezioni che hanno prodotto la speculazione economica. Si risponderà come al solito che non ci sono i soldi. Ma quando ci si riappropierà del futuro. La politica ritorni a fare Politica sapendo che una società non può vivere sempre in conflitto fra fazioni, ma deve anche garantire la mediazione fra diverse posizioni. Bisognerà pensare anche alle regole della convivenza democratica che siano ripristinate perché la democrazia è riconoscimento reciproco, è garanzia di pluralismo, è tutela delle diversità, è doveri e diritti.

Separatore

“Il Paese ha bisogno di un grande sindacato”. Intervista al Segretario Generale della Uil Luigi Angeletti.

di Antonio Passaro

Angeletti, il popolo della Uil si è riunito ad Assago per dar vita ad una grande manifestazione in vista degli appuntamenti che, nei prossimi mesi, vedranno protagonista l’Organizzazione. Soddisfatto per la riuscita dell’iniziativa?

Sì, sono molto soddisfatto. C’è stata una grande partecipazione: oltre cinquemila nostri delegati sono giunti a Milano d’ogni parte d’Italia e hanno dato vita ad un momento importante per la nostra Organizzazione. Noi abbiamo deciso di svolgere questa assemblea dei delegati per spiegare le ragioni delle nostre proposte. E’ necessario che aumentino salari e pensioni e, dunque, bisogna cambiare il modello contrattuale, ridurre le tasse sui redditi da lavoro dipendente e da pensione, attuare una politica per lo sviluppo e la crescita che contrasti l’imminente recessione.

Sono mesi che si parla di crisi economica e ora anche, esplicitamente, di recessione. Una condizione che colpisce, in particolare, le aree del mondo piu’ industrializzate e avanzate e, dunque, anche il nostro Paese. Cosa ci riserva il futuro?

E’ impossibile dare una risposta a questa domanda. Stiamo vivendo una fase davvero cruciale e non solo il nostro Paese ma un mondo ormai globalizzato sta sperimentando difficoltà sempre più crescenti dal punto di vista finanziario. Di una cosa possiamo essere certi: una volta usciti da questa crisi non saremo come siamo oggi, né il nostro Paese, né il mondo e neanche - nel suo ambito – il sindacato italiano. Oggi c’è un sentimento diffuso di paura e di timore che rischia di generare ulteriori condizionamenti negativi. Ecco perché occorrono scelte politiche, economiche e sociali all’altezza della sfida che ci accingiamo a fronteggiare.

La crisi non morde dovunque allo stesso modo. Quale condizione vive il nostro Paese?

Noi viviamo una condizione ambivalente. Può apparire paradossale, ma il fatto di essere un Paese che va già abbastanza male rispetto agli altri suoi diretti competitori “occidentali”, renderà meno traumatica la crisi. Quelli che camminano più velocemente subiranno, invece, una frenata più brusca. C’è però il rovescio della medaglia. Noi abbiamo il debito pubblico più elevato: mentre gli altri paesi europei e gli americani possono permettersi di aumentare il loro debito, noi non lo possiamo fare. Purtroppo abbiamo già speso molte centinaia di migliaia di euro che altri, invece, ora si accingono a spendere, facendo crescere il proprio debito pubblico per sostenere l’economia.

E, allora, noi cosa possiamo fare?

Noi dobbiamo recuperare i ritardi che abbiamo e colmare le nostre lacune: scarsa produttività, servizi che non funzionano, eccezionale livello di evasione fiscale. E’ necessario, poi, che sia sostenuta la domanda pubblica aumentando gli investimenti, perché questo è il modo per accrescere l’occupazione o, quantomeno, per evitare un suo calo. Occorre, infine ma non per ultimo, aumentare la domanda interna sostenendo i redditi, in particolare quelli dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, e quindi i consumi.

In questo contesto, quale compito può assolvere il sindacato?

Un sindacato cosciente della difficoltà dell’attuale situazione dovrebbe usare tutta la propria forza per far sì che il Governo assuma questi positivi orientamenti. Dovrebbe adoperarsi per coalizzare interessi trovando punti di convergenza anche con il sistema delle imprese affinché questa politica economica, di cui il Paese ha un grande bisogno, possa realmente concretizzarsi.

E questo non accade?

In Italia, i sindacati sono una grande realtà dal punto di vista organizzativo ma ciò che purtroppo manca è una comune dimensione politica e culturale. Non si può pretendere di essere un punto di riferimento se una parte è prigioniera dei propri problemi interni.

Ti riferisci alla Cgil?

La Cgil ha deciso già da molto tempo di non firmare più accordi con nessuno e di proclamare una serie di scioperi da sola. Noi però non possiamo continuare a trovarci di fronte al bivio tra divisione e impotenza, tra il separarci o il non far nulla. Peraltro, un sindacato che non fa nulla è uguale ad un sindacato spaccato e, in tal caso, sono i lavoratori a pagare le conseguenze dell’assenza di risposte. Questa per noi è una sfida seria: non possiamo rinunciare a difendere le persone che rappresentiamo. Se dunque un accordo ci fa trovare delle soluzioni ai problemi dei lavoratori, noi firmiamo; se, invece, l’accordo non è possibile o la soluzione individuata non ci convince, noi facciamo gli scioperi, proprio così come è accaduto, nelle scorse settimane, per i settori della sanità, degli enti locali, della scuola, dell’università e della ricerca. Noi siamo un sindacato e facciamo il nostro mestiere stando al merito delle questioni.

Cosa propone la Uil per uscire da questa situazione di contrapposizione sindacale?

Se il sindacato vorrà continuare ad essere, nei prossimi anni, un punto di riferimento per milioni di persone, dobbiamo affrontare e risolvere il problema della democrazia. L’idea che le decisioni e la legittimazione di queste decisioni siano semplicemente la conseguenza delle volontà delle organizzazioni sindacali, non funziona più. Probabilmente siamo chiamati a fare un passaggio storico partendo dall’assunto che chi legittima le azioni del sindacato sono i lavoratori e nessun altro.

Insomma, un voto vincolante dei lavoratori?

Noi lanciamo una sfida. Siamo disposti a rinunciare al potere, che pure abbiamo, di firmare i contratti sottoponendoli al voto, al giudizio, di tutti i lavoratori. Ad un patto, però: che accada sempre così e che, dunque, quando si voglia proclamare uno sciopero, si sottoponga anche questa proposta al voto di tutti i lavoratori.

Insomma, anche il sindacato si appresta ad entrare in un nuovo mondo?

La prospettiva non ci spaventa affatto. Noi abbiamo bisogno di un grande sindacato che sia all’altezza delle sfide e dei problemi che deve affrontare il nostro Paese. Un sindacato che possa essere percepito e visto da milioni di lavoratori e pensionati come un’organizzazione di persone in grado di risolvere i loro problemi. Peraltro, questa sarebbe anche la migliore delle risposte a tutte le campagne che ciclicamente vengono messe in atto per ridurre la nostra influenza, per delegittimarci, per colpirci. Quel che è certo è che nei luoghi di lavoro in cui non c’è il sindacato le condizioni delle persone sono peggiori che altrove. Ecco perché siamo chiamati a consolidare e a svolgere, al meglio, il nostro compito ovunque.

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