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MARZO 2013

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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FEBBRAIO 2013

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SOMMARIO

Il Fatto
Europa: il risveglio dal sogno - di A. Foccillo
La questione fondamentale è quale politica farà il prossimo Governo.
Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale UIL - di A. Passaro

Sindacale
Conferenze di Organizzazione, qualche prima valutazione - di C. Barbagallo
Da soli potremmo non farcela: Tutti insieme si può - di C. Tarlazzi
Universita’: un sistema in emergenza - di B. Busi e C. Amicucci
Fiat: un’intesa utile - di E. Panicali
La battaglia della Uil-Rua per il precariato - di A. Maresci e S. Ostrica
Per favorire l’occupazione nel Mezzogiorno, devono assumere un ruolo centrale,
le infrastrutture materiali ed immateriali ed un’istruzione soprattutto tecnica -
di C.Vaccaro
La Uil di Trento - di G. Salvarani

Economia
Il caso Cipro, ovvero come affossare l’Europa - di G. Paletta

Approfondimento
I licenziamenti individuali e collettivi - di E. Canettieri

Trasporti
Trasporti: Le Merci in movimento, l’idea che sfugge… Ma che esiste - di G. C. Serafini

Agorà
Stiamo calmi e teniamoci i nervi a posto - di C. Benevento
Demografia e previdenza: la vera politica per i giovani - di L. Pulcini
Rapporto Nazionale Italia - di S. Fortino

Il Corsivo
Arrivi e partenze - di P. Tusco

La Recensione
Il welfare State nell’antica Roma. Lo Stato sociale da Augusto a Obama - di V. Russo

Cultura
Zero Dark Thirty, di Kathryn Bigelow - di S. Orazi

Inserto
Un Paese in difficoltà alla prova di un voto difficile - di P. Nenci

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EDITORIALE

Europa: il risveglio dal sogno

Di Antonio Foccillo

Il Trattato di Maastricht nel protocollo sociale ribadiva che gli obiettivi della U.E. erano rivolti all’occupazione, al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, alla protezione sociale adeguata, al dialogo sociale, allo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello di occupazione elevato e duraturo. Francesco Paolo Casavola, allora presidente della Corte Costituzionale, così commentava: “Il documento raccoglie la tradizione del modello di stato sociale che ha dominato gli ordinamenti nazionali dell’Europa occidentale e che viene da molto lontano: dalla necessità di combattere la povertà, in Inghilterra fin dall’Act del 1601 di Elisabetta I, poi nel secolo scorso di proteggere gli operai, e, in un terzo e più recente tempo, nel nostro secolo, di garantire la sicurezza sociale alle intere popolazioni. Non ce dubbio che il Trattato, vincolando l’Unione e gli Stati membri al perseguimento di tali obiettivi, impedisce che si possano verificare crisi di questa politica e forma di Stato nei singoli ordinamenti nazionali.

Forse troppo ottimismo vi era nell’idea di questa Europa unita. Basta vedere, oggi, come è finita. Ma nel continuare precisava una valutazione che poi si è dimostrata realtà: “La materia delle politiche sociali si caratterizza, tuttavia per il coinvolgimento, nel suo ambito, anche di diritti fondamentali. Qualora quest’ultimi si qualifichino – più che come diritti di libertà – come diritti sociali, la loro tutela diviene assai delicata. Tali diritti sociali sono condizionati, infatti, dalle risorse collettive delle quali i Governi nazionali possono disporre: e dunque anche la loro tutela risulta influenzata da fattori economici e finanziari, quali i cicli e le alternanze dell’espansione e del riflusso.”

Qui sta il punto. Prima la crisi economica mondiale dovuta alla finanziarizzazione dell’economia e poi la crisi dell’U.E che non è riuscita a darsi una strategia vincente ed autonoma per rispondere con misure alternative in grado di difendere quei principi contenuti nel trattato di Maastricht hanno dimostrato realistica quella previsione. Oggi è diventato assolutamente prioritario per gli Stati il pagamento del debito e il mantenimento della credibilità davanti ai mercati, perciò i politici non possono più fingere di agire nell’ “interesse generale” e si rivelano essere prigionieri del capitale finanziario. I miraggi della sovranità popolare, della rappresentatività, della mediazione degli interessi svaniscono e resta un regime che poco ha a che vedere con la democrazia, se non fosse per la diretta emanazione delle dinamiche di mercato.

La globalizzazione degli anni ‘90 ha dato la prima spallata al sistema europeo in quanto è stata quella delle operazioni monetarie e finanziarie non certo quella degli scambi di beni e libera circolazione delle persone, che, in effetti, sono servite solo ad assicurare ai grandi gruppi industriali oltre che una maggiore scelta nella diversificazione della tecnologia e degli impianti, anche una differenziazione dell’offerta e della clientela. La stessa integrazione tra i paesi dell’Unione Europea ha permesso alle grandi imprese di trovare manodopera a basso costo all’interno del mercato europeo, senza dover eccessivamente delocalizzare le loro produzioni fuori dell’Europa. Tutto ciò e le differenze delle prestazioni sociali tra i vari paesi UE ci fanno comprendere, ancora più chiaramente che l’Europa monetaria e gli obiettivi del trattato di Maastricht non hanno portato a soluzione gli aspetti sociali ed occupazionali. Per “entrare” e restare nell’Europa del libero mercato dei capitali il prezzo pagato dalla popolazione è stato ed è comunque troppo alto: aumento dei ritmi di lavoro, tagli ai salari reali, disoccupazione, lavoro precario, sottopagato, senza diritti, tagli allo stato sociale, aumento della povertà, emarginazione, peggioramento delle condizioni di vita.

Ma non basta, ci si lascia intendere che bisogna ancora pagare. Infatti, basta vedere quello che sta succedendo in Italia, Spagna, Grecia, Francia, Irlanda etc. che sono state sottoposte a spropositati piani di austerity che ha prodotto solo recessione. Infine, ultima in ordine di tempo, Cipro dove per salvare le banche si tolgono soldi ai loro correntisti. Tutto ciò rappresenta la definitiva cancellazione di qualsiasi progetto di vita futura per intere generazioni, non solo per i giovani, ma anche per i lavoratori in attività e porterà i cittadini europei a ritenere l’Europa un freno più che un’opportunità, creando così sfiducia verso il progetto di un’Europa unita. Oggi purtroppo mancano i grandi statisti che realizzarono quella idea e che condivisero un processo comune di sviluppo e di grandi opportunità, il che consente che un solo Paese imponga al resto dei Paesi membri i suoi voleri nonostante il rischio di far nascere un sentimento contro i tedeschi nelle popolazioni europee.

Scrivevano Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini: “Ormai è chiaro a tutti che siamo precipitati in una trappola infernale con grossi rischi per la tenuta dei sistemi democratici …l’austerità imposta dalla Germania si è dimostrata un autentico fallimento: le politiche di risanamento delle finanze pubbliche basate su aumenti di tasse e tagli alla spesa sociale hanno accentuato la recessione dell’economia innescando un circolo vizioso di cui non si vede la fine. La tecnocrazia di Bruxelles e la stessa Banca Centrale Europea devono capire una volta per tutte che il risanamento delle finanze statali potrà essere ottenuto solo se nel Vecchio Continente sarà promosso un nuovo ciclo di crescita dell’economia e dell’occupazione…. “ E concludono: “Accade talvolta che per andare avanti nel futuro sia necessario ricorrere alle innovazioni del passato”.

Un secolare principio recita che una politica economica senza rappresentatività democratica è intrinsecamente tirannica, quindi l’Europa, per imporre democraticamente decisioni economiche a tutti i suoi cittadini deve innanzitutto avere un governo europeo eletto, altrimenti si rischia un pericoloso “default” democratico. E’ vero che esiste già un organismo democratico quale il parlamento europeo, ma esso è e resta un organo di indirizzo e non di decisione. In sintesi senza un chiaro richiamo ad una politica nazionale ed europea decisa democraticamente, le costrizioni provenienti da Bruxelles e da Berlino rischiano di accentuare una diminuzione della sovranità nazionale che va ben oltre a quando è stato trasferito a un livello soprannazionale. Noi, come gli altri paesi europei, avevamo accettato di rinunciare a parte della sovranità per riconoscerla ad un’istanza sovraordinata, ma questa ipotesi non si è ancora realizzata. Senza un potere centrale forte e democraticamente legittimato le regole comuni non resistono a negoziati tra governi nazionali formalmente pari fra loro e sostanzialmente in conflitto.

Né tanto meno organismi come la Bce e il FMI possono imporre condizioni di vita ai cittadini e la stessa Unione Europea, così com’è, non ha grande autorità nei loro confronti. Pertanto, nel rivendicare un governo politico europeo si deve proporre la modifica dei Trattati soprattutto perché la Banca Europea, non resti solo a guardia dell’inflazione, ma venga dotata della capacità di emettere moneta, favorendo così lo sviluppo, possibile, solo se gli investimenti e le spese non vengono considerati quali fattori di debito, ma fattori di sicura crescita e progresso. Gli ultimi dati economici sull’Italia non fanno altro che riconfermare che da ormai troppo tempo stiamo vivendo uno dei momenti più difficili della nostra economia. Siamo in crisi e ciò, senza dubbio, influenza sia le entrate tributarie, sia l’occupazione, sia il potere di acquisto dei lavoratori e pensionati.

Bisogna uscire da questa situazione: dopo i sacrifici, adesso è il momento degli investimenti per lo sviluppo, non possiamo continuare con la ricetta di una ripresa controllata nel rigore. E’ evidente a tutti che i tagli generalizzati e l’aumento delle imposte non possono che deprimere l’economia, per il rilancio della quale finora non si sono messe in campo operazioni di un qualche significativo risultato. Purtroppo il teatrino della politica continua con bizantinismi sia delle vecchie che delle nuove forze politiche, senza pensare che ogni giorno che passa senza un governo dell’economia la situazione si aggraverà sempre di più. Quello che fa restare perplessi è che non si discute su come affrontare le cause effettive della crisi in Italia, ma si litiga solo su come uscire dall’impasse politica. E tempo che tutti si assumano le loro responsabilità.

Pertanto, le forze politiche si debbono far carico di costituire, al più presto, un governo che avvii una reale programmazione per mantenere i posti di lavoro con aiuti alle imprese per innovazione e ricerca, ed aumentare il potere d’acquisto ai lavoratori e ai pensionati, con una riduzione della tassazione per favorire i consumi e per rilanciare il settore produttivo,, nello stesso tempo si batta perché l’Europa ritorni ad essere quella che i padri fondatori, a partire dal Altiero Spinelli, l’avevano immaginata. Bisogna imporre una nuova visione della società e cioè quella dei popoli e non degli speculatori, quella della democrazia e non quella della finanza, la scelta dell’utile e non del superfluo, quella del risparmio e non dello spreco, della condivisione e non dell’individualismo, quella dell’uomo e non quella del mercato. In questo e per questo il sindacato può e deve fare molto. Basta volerlo!

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La questione fondamentale è quale politica farà il prossimo Governo. Intervista a Luigi Angeletti Segretario Generale UIL

di Antonio Passaro

Angeletti, la rivista viene data alle stampe mentre Pierluigi Bersani, incaricato dal Presidente della Repubblica di formare il nuovo Governo, sale al Colle a dare atto dell’impossibilità di trovare in Parlamento una maggioranza utile ad ottenere la fiducia. Vedremo poi cosa succederà. Intanto, però, è giusto ricordare che, nei giorni scorsi, anche le parti sociali sono entrate nel giro delle consultazioni. In breve, puoi darci conto dell’esito dei colloqui con Bersani?

Intanto, abbiamo apprezzato la scelta del Presidente incaricato, Pierluigi Bersani, di consultare anche le parti sociali e abbiamo considerato utile il colloquio perché ci ha offerto la possibilità di esprimere le nostre posizioni in una sede ufficiale. Noi siamo convinti che la gravità della situazione sociale ed economica richieda la costituzione di un Governo che faccia bene e che abbia chiara l’idea dei provvedimenti prioritari da assumere, evitando scelte inutili o dannose. Il problema centrale non è la mancanza di un Governo - quello di Monti, peraltro, è ancora in carica per l’ordinaria amministrazione - quanto la mancanza di un programma e di una politica che risolva i problemi. La questione fondamentale, dunque, è quale politica farà il prossimo Governo: è questo che ci interessa e non le alchimie, le formule e le alleanze per dar vita ad una maggioranza.

E quali sono i provvedimenti che, secondo la UIL, dovrebbe assumere il prossimo Governo?

Noi pensiamo che la riduzione delle tasse sul lavoro debba costituire il perno della politica economica del prossimo Governo. Questo provvedimento consentirebbe di far crescere i salari, ridare fiato alla domanda interna, aumentare la competitività e mettere un freno alla crescente disoccupazione. Ormai è chiaro: più aumentano le tasse, più diminuiscono i posti di lavoro. Le tasse bisogna ridurle: non si risolverebbero tutti i problemi ma, sicuramente, questa sarebbe la scelta più efficace e veloce per invertire il declino della nostra economia.

Queste scelte vengono sistematicamente rinviate adducendo l’alibi della scarsità delle risorse. La UIL, da sempre, ha indicato soluzioni idonee ad affrontare la questione. Hai avanzato queste proposte anche in occasione delle consultazioni?

Certo. Noi pensiamo che, a fronte di un’oggettiva scarsità delle risorse a disposizione, per rendere credibile questa politica di riduzione delle tasse, occorra ridurre la spesa improduttiva. In tal senso, è necessario un accorpamento sia dei centri di decisione politica, a cominciare dalle Province e dai Comuni, sia delle innumerevoli società pubbliche locali. Bisogna, inoltre, destinare alla riduzione delle tasse anche tutti i proventi della lotta all’evasione fiscale.

C’è, poi, il problema disoccupazione....

Ci si avvia pericolosamente a superare la soglia dei tre milioni e mezzo di disoccupati. È una situazione che non si può più sopportare: le conseguenze sociali sono davvero preoccupanti. Ecco perché il futuro Governo deve, innanzitutto, assumere l’impegno di risolvere il problema dei fondi per gli ammortizzatori sociali che devono essere rifinanziati per garantire un sostegno a tutti coloro che sono in cassa integrazione in deroga.

Sono questi, dunque, gli atti di “indirizzo” che la UIL si attende da un Governo che abbia a cuore le sorti dei lavoratori e dei cittadini?

Sono atti assolutamente necessari; sono indirizzi che devono essere manifestati con chiarezza e con urgenza. Ecco perché, qualunque soluzione politica sarà adottata per dar vita al prossimo Governo, la UIL solleciterà il nuovo Esecutivo, sin da subito, ad attuare quei provvedimenti, gli unici idonei a dare una prospettiva al lavoro e alla ripresa economica.

Queste proposte potranno diventare patrimonio di tutto il Sindacato? È ipotizzabile che, a partire da questa “politica”, si generi una stagione di unità sindacale?

Solo il tempo ci dirà se si potrà andare verso una nuova stagione di unità sindacale. Io credo che la durezza dei problemi e la necessità di dare risposte qui e subito, e non sulla base dei nostri desideri e delle nostre visioni, imporrà al sindacato un’unità che, oggi, non abbiamo. Intanto, agli inizi del mese di aprile si svolgerà un primo incontro tra CGIL, CISL e UIL per concordare percorsi e azioni unitarie che puntino a restituire centralità a questi temi. Bisognerà dare risposte concrete ai lavoratori e ai disoccupati perché solo così si potrà dare un futuro al nostro Paese.

Nella prima parte del mese di marzo, l’agenzia di rating, Fitch, ha deciso il declassamento del nostro Paese. Che giudizio dai di quella scelta?

È una notizia grave perché può rappresentare l’inizio di quel declino che tutti temiamo, può essere il sintomo dell’opinione secondo cui non ce la caveremo. Purtroppo, non vedo fatti che possano segnalare un’inversione di tendenza: funzionano solo le imprese che esportano, per il resto è una frana continua. Anche il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione nei confronti delle imprese può avere effetti importanti, ma temo che sarà solo una boccata di ossigeno utile e ridurre il numero delle imprese che rischiano di chiudere. Non credo che quelle risorse saranno sufficienti a invertire la tendenza verso la ripresa.

Di recente, è stato paventato un declassamento anche da parte di Moody’s. Questo complicherebbe ulteriormente la situazione italiana?

Un nuovo declassamento potrebbe far aumentare il costo del nostro debito. Le conseguenze sarebbero serie perché ciò comporterebbe un aumento delle spese dello Stato e dei debiti delle banche. Imprese e famiglie vedrebbero peggiorare la loro situazione.

Insomma, sei pessimista?

Io penso che, alla fine, il Paese ce la farà ad attraversare il guado: non affogheremo, ma sarà inevitabile bagnarsi i piedi.

Intanto, ai confini dell’euro, è emersa un’altra crisi: quella che sta interessando l’isola di Cipro. Quali possono essere le ripercussioni per il nostro Paese?

Cipro ha un sistema finanziario anomalo: non ritengo che ci siano rischi di contagio per il nostro Paese. La vera questione è se Cipro possa restare o meno all’interno dell’euro e, quindi, se questa vicenda possa rappresentare o meno l’inizio di un ciclo. È questo dubbio che rende destabilizzante la situazione. Ad ogni modo, io sono convinto che non accadrà nulla, almeno sino alle elezioni tedesche, perché la Germania intende votare in tranquillità.

Un’ultima domanda. All’inizio di marzo è stato firmato il contratto collettivo del Gruppo Fiat: qual è il tuo giudizio?

L’accordo firmato con la Fiat è un fatto positivo. L’intesa, infatti, è stata raggiunta nonostante la redditività dell’impresa non sia brillante. Seppur la cifra sia modesta, è comunque superiore a quanto ottenuto in altre imprese metalmeccaniche. È un buon risultato per tutti i lavoratori del Gruppo.

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