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MAGGIO 2015

LAVORO ITALIANO

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APRILE 2015

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SOMMARIO

Il Fatto
Valori e regole della democrazia - di A. Foccillo

Intervista a Carmelo Barbagallo Segretario generale UIL
Dopo la parziale restituzione ai pensionati se non si avvia una trattativa, stiamo pensando di attivare una class action - di A. Passaro

Sindacale
La proposta di indicizzazione del governo dopo la sentenza della corte del Servizio Politiche Previdenziali UIL
Rinnovo dei contratti. Questo è il momento - di A. Foccillo
Sbloccare la vertenza whirlpool - di R. Palombella
Nessuna ripresa per l’edilizia - di V. Panzarella
Università, enti pubblici di ricerca, afam: un patrimonio che una politica miope ed ingerente svende e mortifica senza soluzione di continuità a danno di tutto il paese - di S. Ostrica
Sbloccare gli investimenti e migliorare servizi e infrastrutture è urgentissimo - di C. Barone
Il primo maggio a Milano si è aperta ufficialmente l’esposizione universale - di D. Margheritella
Il Mezzogiorno continua ad essere in pesante deficit nel proprio bilancio occupazionale e la Puglia non fa eccezione - di A. Pugliese
Primo maggio 2015 - di G. Zignani
Vecchi problemi. Nuove soluzioni - di P.N.

Economia
Il dibattito sul reddito minimo garantito - di V. Russo
Le riforme strutturali del governo Renzi (aumento carichi di lavoro e pressione fiscale) - di G. Paletta

Agorà
Siamo tutti “immigrati digitali?” - di A. Scalzo

La Recensione
Quello che tutti aspettiamo, la crescita - di P. Nenci

Inserto
Il vecchio sindacato in gabbia. Varata la Carta del lavoro - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Valori e regole della democrazia

di Antonio Foccillo

Questo articolo è un po’ fuori del consueto sindacale, ma data la discussione che c’è nel Paese riguardo alla democrazia il movimento sindacale non si può escludere dal dibattito.

La democrazia è una parola abusata e dietro di essa spesso si nascondono tante involuzioni. Da sempre, la convinzione più largamente diffusa, almeno nel mondo occidentale, è che la democrazia, cioè il governo di molti, sia preferibile rispetto alle forme politiche oligarchiche.

Ciò a partire dalla democrazia greca che chiamava tutti i cittadini alla partecipazione diretta e attiva nell’assemblea generale e, a rotazione o mediante sorteggio, alle cariche di governo ed a quelle giudiziarie. I Romani, invece, inventarono il concetto di repubblica che per certi aspetti assomigliava all’idea greca di democrazia, in quanto ne condivideva molti presupposti mentre per altri se ne differenziava e si contrapponeva.

La moderna teoria politica prevede la divisione del potere nelle sue tre branche principali, legislativo, esecutivo e giudiziario a cui si aggiunge la teoria della rappresentanza, cioè la delega dell’esercizio del potere a dei rappresentanti.

Nel secolo XIX la discussione e la concreta esperienza politica portarono all’opportunità di ancorare la democrazia o all’idea di libertà e di rappresentanza o all’idea di uguaglianza. Prevalse la prima ipotesi. Così il diritto di voto, originariamente ristretto ad una esigua classe di cittadini, selezionati principalmente in base al censo, si estese in modo costante verso la totalità dei cittadini (suffragio universale); e si accrebbe il pluralismo delle assemblee e degli enti che partecipano al processo democratico.

Oggi un numero considerevole di paesi in gran parte occidentali è giunto ad un importante livello di democrazia. La democrazia contemporanea, a differenza di quella degli antichi, non rispecchia più la partecipazione dei vari soggetti sociali. La causa profonda del processo storico che potrebbe destrutturare la democrazia nella sua ispirazione fondamentale sta nel fatto che la democrazia contemporanea, nata negli stati-nazione, è insidiata dalla globalizzazione come quella classica è restata perdente dinanzi a un processo di mondializzazione del potere.

La nazione è la patria del costituzionalismo liberale, per realizzare lo stato di diritto, con i tre poteri distinti, legislativo, esecutivo, giudiziario. Mai come in questo passaggio di secolo la democrazia appare, nelle sue diverse tipologie costituzionali, vulnerabile e incline alle oligarchie, strutturate in poteri anche non politici, economici, sociali, mediatici, o verso governi personali.

Per continuare a farla vivere occorre ancorarla a dei valori che la salvino anche nei grandi scenari della deterritorializzazione del potere, delle unioni sopranazionali, delle egemonie transnazionali, insomma di quelle forme inedite che andrà assumendo la globalizzazione.

La legittimazione sostanziale della democrazia sta nella sua radicale alienità dalla rivoluzione e dal terrorismo. Ne consegue che la violenza verbale, la delegittimazione reciproca di maggioranza e opposizione, vanno evitate perché eccitano intolleranza e scontro tra i cittadini. La democrazia è colloquio in ogni luogo sociale come nella sua istituzione fondamentale che è il parlamento. Eppure, nel corso della storia umana, la preferenza a volte è stata a favore del governo di pochi o di nazionalismi e dittature che insediavano un uomo solo al comando.

Il nostro Premier con le varie proposte che ha fatto nel suo governo dalla legge elettorale alla riforma della pubblica amministrazione; dalla riforma della scuola alla proposta di un sindacato unico; alla limitazione del diritto di sciopero, etc. ha largamente sostenuto questo tipo di impostazione cioè di prevedere in ogni campo un uomo solo al comando e limitare la partecipazione delle varie rappresentanze.

Una forma di concezione plebiscitaria della democrazia che non si limita a determinare l’allentamento o l’aggiramento, dei vincoli costituzionali, ma, parallelamente, innesca anche una dissoluzione della dimensione politica della rappresentanza, che viene, di fatto, svuotata dalla deriva populista, con il risultato di definire il quadro di una radicale crisi della democrazia italiana. La distorsione sistematica dei fatti e dei loro significati per opera della demagogia e della propaganda o la verità celata dalla ragion di stato o il perseguimento d’interessi spesso illegali o egoistici inducono una violenza psicologica nei cittadini con l’effetto di limitarne la libera determinazione dei comportamenti nell’esercizio dei diritti individuali e collettivi. Le regole classiche della democrazia, invece, che esigono il dialogo, la consultazione, l’accordo dentro e con le minoranze, il riconoscimento e la tutela effettiva dei diritti umani, che spettano a ogni essere umano, indipendentemente dalla nazionalità e dalla cittadinanza, ai diritti civili e politici, dei diritti sociali e dei diritti culturali possono dare significato ad una convivenza pacifica e ordinata. La trasparenza della vita pubblica è condizione delle scelte libere e responsabili delle persone. Se queste scelte non sono né libere né responsabili la democrazia diventa finzione di riti e procedure formali con il vizio originario di una coscienza violata e offuscata.

In una democrazia rappresentativa non può non essere il parlamento, quando vi si conduce una leale competizione tra maggioranza e opposizione, il luogo della più alta visibilità della libertà di coscienza.

Ma vi è un secondo valore costitutivo della democrazia contemporanea ed è la cultura, che diventa un problema politico, quando se ne scopre la forza, impiegabile sia a vantaggio dello Stato sia per la causa della libertà dei cittadini. La democrazia stessa ha bisogno di un consenso libero e critico dei cittadini, per non cadere nelle coazioni demagogiche di una propaganda politica alimentata dall’ignoranza, dalla disinformazione, dalla formazione intellettuale o subcultura faziosa. Garantire la libertà della cultura è oggi garantire il pluralismo dei media, delle istituzioni scolastiche, universitarie e di ricerca, delle imprese editoriali, delle associazioni di tendenza, delle accademie, delle manifestazioni artistiche.

Ma non è così! Sia per la riforma della “buona” scuola e sia per i continui tagli all’Università, alla ricerca e alla scuola. Per questo si è generato uno scontro sociale molto acceso e lungo che, non essendo una rivendicazione corporativa, vuole difendere proprio la libertà della cultura.

Luigi Ferrajoli, ha scritto un bel libro, condivisibile in buona parte, che richiama questi concetti e fa un’analisi molto dettagliata della crisi della democrazia. (1) Nella presentazione del libro è scritto: “I poteri, lasciati senza limiti e controlli, tendono a concentrarsi e ad accumularsi in forme assolute: a tramutarsi, in assenza di regole, in poteri selvaggi. Di qui la necessità non solo di difendere, ma anche di ripensare e rifondare il sistema delle garanzie. Solo un rafforzamento della democrazia costituzionale, attraverso l’introduzione di nuove e specifiche garanzie dei diritti politici e della democrazia rappresentativa, consente infatti di salvaguardare e di rifondare sia l’una che l’altra. L’idea elementare che il consenso popolare sia la sola fonte di legittimazione del potere politico mina alla radice l’intero edificio della democrazia costituzionale. Ne derivano insofferenza per il pluralismo politico e istituzionale; svalutazione delle regole; attacchi alla separazione dei poteri, alle istituzioni di garanzia, all’opposizione parlamentare, al sindacato e alla libera stampa; in una parola, rifiuto del paradigma dello Stato costituzionale di diritto quale sistema di vincoli legali imposti a qualunque potere”.

Secondo Ferrajoli, le cause della decostituzionalizzazione operante ai vertici del sistema democratico italiano sono, in primo luogo, la “verticalizzazione” e la “personalizzazione” della rappresentanza, che assumono, in virtù dell’ideologia populista che le accompagna, una forma di negazione della funzione della rappresentanza parlamentare che avvia un autentico mutamento di sistema. Il populismo, quando l’identificazione tra capo e popolo non è solo una tesi propagandistica ma è proposta come un connotato istituzionale e come una fonte di legittimazione dei pubblici poteri, equivale a un nuovo e specifico modello di sistema politico (2). Una seconda è la crisi “dall’alto” della rappresentanza che scaturisce da quella progressiva confusione e concentrazione dei poteri – di cui il conflitto di interessi è l’aspetto più evidente – che finisce con il determinare “una forma singolare di regressione premoderna allo stato patrimoniale, per di più contrassegnata da connotati populisti” (3). La terza causa di crisi è rappresentata dal mutamento del ruolo dei partiti: un mutamento che è legato a quanto avviene nella società, ma che si è tradotto nella “crescente integrazione dei partiti nello Stato” e, dunque, nel venir meno della distinzione fra livello dei partiti e livello istituzionale. Infine, la quarta causa, indicata da Ferrajoli nella sua analisi della crisi “dall’alto” della democrazia costituzionale, consiste nelle due “patologie” del controllo politico e del controllo proprietario dell’informazione: due patologie esistenti in molti sistemi democratici, ma che assumono in Italia un rilievo qualitativamente differente per la concentrazione di queste due forme di controllo che sono state nelle mani di un Presidente del Consiglio. Ferrajoli ancora attira l’attenzione su un duplice processo di “omologazione dei consenzienti” e di “denigrazione dei dissenzienti”, per cui “chi non si identifica con la volontà popolare espressa dal capo è un potenziale nemico: un disfattista, un anti-italiano, antidemocratico e antipatriottico, in ogni caso privo di legittimazione perché non eletto dalla maggioranza” (4). “L’obiettivo di queste politiche è la divisione e il disarmo dell’insieme dei lavoratori: per l’indebolimento delle tradizionali forme di solidarietà basate sul senso comune di appartenenza alla medesima condizione; per la competizione nel mondo del lavoro innestata dalla disoccupazione crescente e dalla moltiplicazione delle figure atipiche di lavoro precario; per la generale svalorizzazione del lavoro provocata dalle possibilità di dislocare le produzioni fuori dai confini nazionali; per la neutralizzazione del conflitto sociale e l’imposizione ai lavoratori della rinuncia ai loro diritti sotto il ricatto dei licenziamenti (5)”.

A una diagnosi così impietosa della situazione italiana, Ferrajoli non manca di far seguire l’indicazione di alcuni rimedi che potrebbero, se non risolvere la ‘crisi’, comunque arginare la tendenza alla decostituzionalizzazione. Si tratta di rimedi che toccano diversi nodi, dal ripristino di un sistema elettorale effettivamente proporzionale (che, soprattutto, elimini il collegamento fra coalizioni di liste e il nome del candidato alla guida del governo), all’introduzione di vincoli più serrati ai conflitti di interesse (anche relativi al cumulo fra incarichi di partito e cariche istituzionali), alla definizione di criteri che garantiscano la democrazia interna ai partiti, a una riforma del sistema informativo finalizzata a garantire la libertà di espressione, il pluralismo, l’autonomia dai poteri economici e politici. è difficile non concordare con molti, e forse con tutti, i punti dell’analisi di Ferrajoli, nel momento in cui segnala la crisi del ruolo dei partiti, la loro vertiticizzazione, la lievitazione dei costi della politica, ma anche la degenerazione del dibattito politico, o l’utilizzo strumentale della paura.

Quanta di questa analisi fa parte dell’attualità politica che sta modificando gli assetti e le regole costituzionali? Tanta!

Nel corso dell’ultimo trentennio si è determinato un passaggio da una concezione “ambiziosa” della democrazia (in cui la riduzione delle diseguaglianze e la vasta partecipazione popolare sono centrali), ad una concezione “minima” della democrazia (in cui diventano centrali solo le procedure e in cui la partecipazione si riduce al momento elettorale). In questo senso, si può allora legittimamente affermare che le democrazie odierne sono democrazie, come pure erano democrazie quelle degli anni Sessanta e Settanta. Ma è altrettanto legittimo riconoscere tutti quei mutamenti radicali che abbiamo segnalato, e proprio per questo si può anche sospettare che l’enfasi sulla “continuità” della dinamica democratica finisca, di fatto, con il favorire l’occultamento delle reali dinamiche di potere. Dunque, l’esito di una riduzione della struttura democratica e partecipativa sono rischi reali nella società contemporanea, per cui è quanto mai opportuno mantenere viva la riflessione sul tema e alta la vigilanza sulla qualità delle nostre democrazie.

___________________

1) Luigi Ferrajoli, “Poteri selvaggi”, Edit, Laterza.
2) (ibi, p. 47)
3) (ibi, p. 29)
4) (ibi, p. 42)
5) (ibi, p. 47)

Separatore

Dopo la parziale restituzione ai pensionati se non si avvia una trattativa, stiamo pensando di attivare una class action Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil

di Antonio Passaro

Barbagallo, una delle notizie di questo mese, che ci riguarda molto da vicino, è relativa alla sentenza della Corte costituzionale che ha sancito l’incostituzionalità della legge Fornero nel punto in cui stabiliva la mancata rivalutazione per le pensioni eccedenti tre volte il minimo. In una tua dichiarazione hai affermato che il Governo deve restituire il maltolto ai pensionati. Allora, è vero che si è fatto cassa agendo sulle pensioni?

Partiamo da un dato preliminare: ora, grazie alla sentenza della Consulta, abbiamo la conferma che ai pensionati sono stati sottratti 18 miliardi. Questo è un guaio che il governo Monti ha lasciato in eredità, ma se Renzi non sta attento lascerà anche lui altri guai al prossimo governo: secondo me, c’è il rischio di milioni di ricorsi.

Cosa intendi dire?

La parziale e limitatissima restituzione ai pensionati prevista da questo Governo per rispondere alle indicazioni della Consulta non risolve il problema fatto emergere dalla Corte. Oggi, tutti ci stanno chiedendo di promuovere cause legali, perché il Governo ha sbagliato, anche se ha ereditato dal governo Monti questa situazione di incostituzionalità. Il rischio è che l’attuale Esecutivo faccia ereditare problemi analoghi ai prossimi Governi.

Insomma, la Uil non è per nulla soddisfatta?

Aver definito una tantum o indicizzazioni senza criteri chiari comporterà solo confusione e ulteriori ricorsi. C’è una sentenza della Corte costituzionale: bisogna applicarla. È una questione di legalità. C’è un problema di gradualità, di tetti? Discutiamone, ma prima bisogna acquisire la sentenza. Poi si convocano le parti e si decide come si possono evitare problemi al Paese.

Siamo di fronte a un’altra difficoltà causata dalla riforma Fornero?

La Fornero è la peggiore e più iniqua riforma delle pensioni mai fatta: va cambiata. Lo stesso ministro del Lavoro ha detto che quel provvedimento ha creato disagi sociali. Bisogna che discutano con il Sindacato per affrontare la questione. Noi aspettiamo di poterci confrontare con Poletti: stanno riflettendo, ma la riflessione, a quanto pare, è lunga. Se non si avvia una trattativa, stiamo anche pensando di attivare una class action.

Intanto si parla di una nuova, ennesima riforma. Ancora una volta, però, piuttosto che dare ai pensionati si pensa di togliere. Qual è la tua opinione?

In questi anni, il potere d’acquisto dei pensionati è stato ridotto del 30%: pensano di poterlo ridurre ulteriormente? Il Governo tedesco, a partire dal prossimo mese di luglio, darà un incremento del 2,5% ai pensionati dell’Est e del 2,1% a quelli dell’Ovest: se lo fanno loro, che sono i cultori del rigore, perché non dovremmo farlo anche noi? Occorre, piuttosto, una riforma epocale che dia flessibilità in uscita, magari impiegando i neo pensionati in lavori socialmente utili che prima, invece, venivano proposti ai giovani creando così precariato. Dobbiamo puntare alla stabilità per i giovani e alla flessibilità per gli anziani, perché alcuni lavori, a una certa età, non è possibile più farli.

La scuola è stato l’altro tema caldo del mese di maggio. Tutti i sindacati di categoria hanno dato vita a un grande sciopero unitario come non si vedeva da anni. La partecipazione ha superato ogni più rosea aspettativa. Evidentemente, anche questa riforma della scuola non va...

Deve essere chiaro un principio: possono votare la riforma della scuola, ma nella scuola quella riforma non sarà mai applicata perché una riforma non condivisa, difficilmente si realizza. Bisogna tenere conto di ciò che insegnanti, personale ATA, studenti e genitori hanno chiesto a gran voce con l’ultima manifestazione: una scuola pubblica, libera e democratica. E questo disegno di legge non ha tali caratteristiche. La storia della cosiddetta “buona scuola” che ci riporta ai vecchi podestà non ci convince.

In estrema sintesi, quali sono le osservazioni di merito che i sindacati, unitariamente, avanzano su questo provvedimento?

Noi rivendichiamo che le materie relative al rapporto di lavoro contenute nel disegno di legge tornino a livello di contrattazione. Va, inoltre, affrontata la questione dei presidi: così come è posta, infatti, finisce per incidere sull’autonomia dell’insegnamento e può generare abusi. Sui precari, infine, ci deve essere un intervento pluriennale che consenta di garantire, in maniera stabile, la copertura dei posti disponibili anche a coloro che altrimenti rischiano di restare fuori. Ci auguriamo che al Senato siano apportate queste modifiche.

Il Presidente del Consiglio ha chiesto che si vada verso un Sindacato unico. Cgil, Cisl e Uil gli hanno fatto capire che in Italia non è una strada percorribile. Perché?

Renzi auspica il Sindacato unico. Dimentica, forse, che esperienze del genere ci sono state e ci sono tuttora, nella maggior parte dei casi, in Paesi totalitari e dove le condizioni dei lavoratori non sono eccellenti. E per il fronte imprenditoriale, dove c’è una pletora di associazioni? Anche per loro pensa a un unico soggetto di rappresentanza? In realtà, sembra che Renzi voglia far prevalere il modello dell’uomo solo al comando e che intenda esportare questa sua idea anche nel mondo del lavoro e del sociale. Noi, invece, siamo per un Sindacato riformista e unitario, in cui il pluralismo delle idee è garanzia di dialogo e democrazia e dove le decisioni vengono assunte a maggioranza.

Il ministro dell’Agricoltura, Martina, sostiene che la sortita del Premier sul sindacato unico vada letta come un invito a una legge sulla rappresentanza...

Vorremmo ricordare al Governo che una legge sulla rappresentanza per il pubblico impiego già esiste ed è correttamente applicata. È proprio l’Esecutivo, invece, che, di recente, l’ha disattesa, invitando a Palazzo Chigi, al tavolo sulla scuola, anche associazioni sindacalmente non rappresentative. Non solo: anche per il settore privato è stato predisposto un Testo Unico sulla rappresentanza, che è stato sottoscritto dalle parti ma che, per essere operativo, è in attesa di alcuni adempimenti amministrativi proprio da parte del Governo.

C’è poi chi sostiene che in Germania c’è il Sindacato unico. È così?

A parte che non è esattamente così, ad ogni buon conto, noi siamo per applicare il modello tedesco, ma tutto per intero. Siamo per la partecipazione, infatti, ma il pensiero del Primo ministro sembra essere un altro. Lo ripeto ancora una volta: noi siamo per un Sindacato unitario, riformista e pluralista. Se, invece, pensano di fare il Sindacato unico per legge, sappiano che questo è tipico di un sistema totalitario.

Un’ultima domanda. Il Presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha dichiarato che l’uso dei voucher potrebbe dare vita a nuovi fenomeni di precariato. La Uil, da tempo, aveva denunciato questo rischio che, ora, si sta materializzando...

E’ un bene che anche il Presidente dell’INPS, Tito Boeri, si sia accorto del rischio “precariato” insito nel meccanismo dei voucher. Noi abbiamo espresso questa preoccupazione sin da subito, da quando il jobs act era ancora in gestazione. All’inizio del mese di gennaio, in un’assemblea con i lavoratori della Mc Donald’s abbiamo affrontato questo tema. In quella realtà, per anni simbolo del lavoro flessibile, grazie alla contrattazione, siamo riusciti a ottenere un netto miglioramento delle condizioni contrattuali di quei giovani lavoratori. Ebbene, in quella stessa assemblea, c’era già chi temeva che il jobs act potesse riaprire la strada a nuove forme di precariato e rappresentare l’occasione per un passo indietro sul fronte delle tutele. I dati diffusi confermano che sempre più aziende ricorrono ai voucher per pagare prestazioni lavorative occasionali. Con questo strumento rischia di affermarsi, soprattutto per i giovani, il “lavoro a ore” e ciò a dispetto dei proclami fatti dal Governo sulle presunte prospettive di stabilità occupazionale. Siamo d’accordo con Boeri: questo fenomeno va monitorato con attenzione, anche perché meno contrattazione si fa, più le tutele e i salari diminuiscono e la qualità dell’occupazione peggiora.

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