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LAVORO ITALIANO

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SOMMARIO

l Fatto
- L’Europa, la crisi europea e il nodo della democrazia - di A. Foccillo
- Intervista a Carmelo Barbagallo Segretario generale UIL

Crescita, contrattazione e riforma delle pensioni: queste sono le questioni da affrontare. - di Antonio Passaro

Sindacale
- Il gran Pasticcio - di A. Foccillo
- Contratto FCA e CNHI e accordo Whirlpool: due intese importanti per rispondere alla crisi - di R. Palombella
- Manifestazione Nazionale dei Lavoratori delle Costruzioni - #OggiXDomani# Roma18 luglio - di V. Panzarella
- Contratto pubblico impiego - di G. Torluccio
- Una organizzazione che vuole vivere anche nel futuro - di P. Turi
- Luci ed ombre nell’economia veneta - di G. Colamarco
- Ai “drammi” che genera la crisi occorre contrapporre il coraggio delle scelte - G. Turi
- La bilateralità artigiana e il suo processo di rinnovamento per reggere alle sfide del futuro - di G. Zuccarello

Economia
- I BRICS -Strumento di nuove opportunità per tutti - o - di antagonismi tradizionali? – a cura del Laboratorio Brics dell’EURISPES
- L’evoluzione nel rapporto tra democrazia e liberalismo - di G. Paletta
- L’ECONOMIA NELLE RELAZIONI CONGRESSUALI DEI SEGRETARI GENERALI (III) Viglianesi – Chianciano - (“Un sindacato forte per una società giusta”) – 27- 31 ottobre 1969 - di P. Saija
- L’ECONOMIA NELLE RELAZIONI CONGRESSUALI DEI SEGRETARI GENERALI (IV) LA SEGRETERIA CONFEDERALE - RIMINI - 21 - 25 marzo 1973 (“L’unità della Uil per l’unità di tutti i lavoratori”) - di P. Saija
- Stretta sulle partecipate: piani di rientro o commissariamento… - di G. C. Serafini

Agorà
- Quasi 60 milioni da cittadini a senza diritti - di P. Nenci

Cultura
- Going Clear: Scientology e la prigione della fede, di Alex Gibney - di S. Orazi

Inserto
- L’altra metà dell’azione sociale - di P. Nenci

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EDITORIALE

L’Europa, la crisi europea e il nodo della democrazia

di Antonio Foccillo

Dopo l’ultimissima crisi greca con il relativo accordo “capestro” così definito da alcuni economisti si pone il problema del futuro dell’Europa. La rivoluzione neoconservatrice ha influenzato le democrazie europee in concomitanza con il repentino declino di tutto l’Occidente, al quale si sta sottraendo gran parte della sua forza economica ma anche della consapevolezza dei suoi valori ideali. Stiamo assistendo quindi ad una trasformazione delle democrazie europee e del cittadino espressione del popolo sovrano, che sarà gradatamente sostituito da una nuova tecnocrazia.

Il modello conservatore diventato il riferimento di tutto l’Occidente, ha avviato un sistematico processo di scardinamento ideologico ed istituzionale dei valori di libertà ed uguaglianza, nonché la delocalizzazione dell’apparato produttivo nazionale (globalizzazione) e il libero operare di una speculazione finanziaria senza freni (deregulation).

E’ così velocemente passato il tempo in cui i Paesi Occidentali mostravano al mondo una democrazia incentrata sui valori laici dell’uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge e sulla tutela delle libertà individuali, valori che erano rafforzati dal principio di solidarietà che aveva come strumento il welfare. A questo modello si è poi aggiunto il pensiero di Keynes che mise in dubbio l’infallibilità del mercato, e propose di attivare un meccanismo che, per far ripartire il sistema economico, rilanciasse la domanda globale attraverso la spesa pubblica. Una economia basata sulla domanda piuttosto che sull’offerta significò dare centralità al ruolo delle masse sociali sovvertendo una situazione che legittimava la concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta elites.

La classe politica post 1989 si è adeguata al modello neo liberista ed ha sostituito il “cittadino” con il “mercato” come ispiratore del suo agire e della sua visione del mondo.

Il conflitto tra democrazia e globalizzazione diventa più aspro nel momento in cui il processo di globalizzazione finisce per limitare l’esercizio delle politiche preferenziali a livello nazionale senza un’espansione compensativa dello spazio democratico a livello globale/regionale. L’Europa è già dalla parte sbagliata di questo confine.

Jürgen Habermas, sostiene il «rafforzamento dell’integrazione europea », ma a condizione di una tripla «ridemocratizzazione » e cioè la riabilitazione della politica contro la finanza; il controllo delle decisioni centrali attraverso una rappresentanza parlamentare rafforzata; il ritorno alla solidarietà e alle riduzioni delle disuguaglianze tra i paesi europei.

In un’Europa che si vorrebbe democratica le difficoltà e l’emarginazione operate nei confronti delle giovani generazioni, impossibilitate peraltro a far sentire la loro voce dissenziente, genera fenomeni di devianza che a volte possono diventare violenza. Questa non è, non può essere, la via dell’Europa.

In questi anni abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte in materia di diritti, una distanza grandissima tra ceto politico e società. Non si possono scindere diritti e governo dell’economia. I diritti, anche in presenza di crisi economiche, non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni sociali molto pericolose e la soluzione che tutti prospettano di “avere più Europa”, presuppone che l’Europa non sia soltanto l’economia. Tuttavia dell’Europa sociale non c’è traccia, se non una inapplicata Carta dei diritti e quindi, per molti Paesi, Bruxelles è diventata la ‘fonte dei sacrifici’ e ciò che arriva dall’Europa è percepito come obbedienza a una logica economica che restringe opportunità e diritti dei cittadini.

Questa parabola discendente dell’Europa non è imputabile solo alla recessione e al declino che stiamo vivendo, perché è cominciata prima dell’attuale crisi finanziaria. L’origine deriva dalla constatazione che mentre il Parlamento Europeo ha aumentato il suo potere essendo ormai in grado di cambiare la quotidianità dei cittadini europei, la percentuale di quelli che votano per eleggerne i componenti è calata di moltissimi punti. E’ un paradosso che proietta un’ombra sul concetto stesso di democrazia sebbene ad essere inadeguati non siano i meccanismi formali di delega e dunque la legittimità delle decisioni, ma l’assenza di un’opinione pubblica europea capace di discutere e di dividersi non sulla base di interessi nazionali ma su questioni importanti di interesse generale. Manca anche una qualsiasi visibilità dei leader delle istituzioni europee per cui qualsiasi decisione su questioni cruciali appare arrivare da un luogo oscuro - l’Europa - le cui decisioni sono imposte senza possibilità di dissenso.

Quanto alla realtà quotidiana: distruzione di ricchezza, impoverimento, attacco al mondo del lavoro, tensioni sociali, crisi del debito, rischio di implosione dello spazio europeo, sono gli effetti odierni della lunga crisi iniziata nel mondo anglo americano nel 2007 e sull’altare dell’emergenza si sta rischiando di immolare la democrazia europea, dove la chiusura dello spazio per una vera democrazia compiuto con la costituzionalizzazione dell’austerità, blocca qualunque proposizione di modelli economici, sociali e politici alternativi.

Così tutti noi siamo diventati spettatori inermi di una rivoluzione dall’alto che, facendo svanire concretamente la sovranità del popolo, ha innestato la crisi della democrazia che stiamo vivendo. Possiamo dire che, concretamente, la sovranità popolare viene meno quando il risultato di un referendum viene disatteso o quando la definizione e la formazione della realtà economica e politica viene spostata in spazi inaccessibili al controllo della cittadinanza.

Ancor più importante ed infido, perché viene attuato nel più assoluto silenzio, è il processo di trasformazione dello spazio europeo in uno spazio di sorveglianza e governance economica esente da qualsiasi controllo democratico: Euro plus pact, poi rinforzato con il Fiscal Compact, e il MES, che apportano ulteriori poteri alla vigilanza sul bilancio. Con il Fiscal Compact gli Stati si sono impegnati nella riduzione del debito al 60% del PIL in misura di un ventesimo l’anno e non desta nessun dubbio sulla sua democraticità il fatto che impegna qualunque governo, di qualsiasi orientamento politico, democraticamente eletto. E’ chiaro quindi che le istituzioni sovranazionali hanno ormai il potere di guidare metodi e obiettivi dell’azione politica all’interno dei singoli Stati membri dell’Unione, fino a poterne riscrivere le manovre finanziarie, cambiarne la Costituzione e sanzionare i Paesi inadempienti. Siamo quindi giunti alla costituzionalizzazione di una dottrina economica di parte i cui fondamenti sono il pareggio di bilancio, l’esclusione dello Stato dall’economia, l’idea mistica delle privatizzazioni e l’assoluto divieto di ricorrere al debito come strumento di sviluppo. Tutto ciò sfacciatamente ignorando che la democrazia è basata sulla normalizzazione del conflitto fra le parti e sull’apertura alla cittadinanza del dibattito circa il percorso da intraprendere. Con il Fiscal Compact questo spazio di discussione e di alternativa ha cessato e continua a cessare di esistere.

Etienne Balibar, ordinario di Filosofia politica e morale presso la Università di Paris X – Nanterre, dice che stiamo vivendo una rivoluzione dall’alto che mira a delineare un nuovo assetto istituzionale con la democrazia e relegando l’alternativa ai margini dell’agire politico. Le cadute del governo greco e italiano, eletti dai cittadini furono l’irreversibile compromissione delle istituzioni e le loro modalità di legittimazione.

La crisi della Grecia ed il compromesso imposto al popolo greco sono la testimonianza che vi è una rivoluzione dall’alto che le nazioni dominanti e la «tecnostruttura» di Bruxelles e di Francoforte starebbero tentando di portare a termine e che indica un cambiamento della struttura della «costituzione materiale» e quindi degli equilibri di potere tra la società e lo Stato, l’economia e la politica. Questa rivoluzione dall’alto porta la neutralizzazione della democrazia parlamentare, i controlli sul bilancio e sulla fiscalità da parte dell’Unione Europea, la cura estrema degli interessi bancari in nome dell’ortodossia neo-liberista.

Bisogna accettare passivamente questa situazione? Finché l’economia del debito, che ormai regge le nostre società dall’alto al basso, non sarà rimessa in discussione, nessuna «soluzione» sarà possibile. Ma la governance attuale esclude a priori questa ipotesi e per questo sacrificherà l’intera crescita a tempo indeterminato.

La messa in moto di tali processi e strumenti di coercizione decisionale indebolisce anche i sindacati, rimasti a lottare su scala nazionale contro sempre più stringenti e inappellabili “raccomandazioni” europee che vedono nell’abbassamento dei salari e nella precarizzazione dell’occupazione l’unico metodo per recuperare competitività; che rendono fatue le lotte dei movimenti per i beni comuni, costringendo gli Stati a svendere infrastrutture e servizi pur di abbattere il debito e garantire la libera concorrenza secondo le logiche vigenti del mercato unico; che fanno apparire irreali, dinnanzi alla necessità di ridurre di oltre 40 miliardi l’anno le spese statali per obbedire al Fiscal Compact, le rivendicazioni di quanti chiedono un maggiore investimento nell’istruzione, nelle politiche sociali, nella conversione industriale e nella salvaguardia del territorio. Infine lega le mani ai partiti e alle loro politiche, ma soprattutto priva la cittadinanza della possibilità di definire il proprio futuro collettivo giudicando autonomamente fra diverse rappresentazioni della realtà e diverse risposte politiche alla crisi.

Sembra ormai che non ci sia più spazio alla sovranità nazionale come strumento per restituire alla cittadinanza la sovranità che gli appartiene ed infatti i tentativi “riformisti” di governare la transizione europea a livello nazionale collassano inevitabilmente in una obbedienza al pensiero economico unico e le differenze fra schieramenti si limitano a un’adesione più o meno “sentita” e una leggerissima rimodulazione della ripartizione dei costi delle “riforme necessarie”. Contemporaneamente stanno diventando sempre più estese e pressanti le richieste di un’Europa politica perchè solo nella costruzione di un vero processo costituente europeo guidato dal basso e capace di accettare cessioni della sovranità nazionale e di utilizzare questo processo per restituire ai cittadini la possibilità di decidere il proprio futuro vi è la possibilità di uscire dalla crisi nel segno della democrazia e della giustizia sociale.

Il rischio di collasso della coesione sociale e di rivolte sempre più radicali della cittadinanza contro le decisioni politiche aumenta nella misura in cui queste decisioni sono percepite come esterne al processo democratico e come costrizioni imposte da poteri distanti e tecnocratici.

Molte forze hanno avanzato l’idea di un’Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale da tutti gli europei e incaricata di redigere una nuova stesura dei trattati in stretta cooperazione con le forze sociali, sindacali e le istituzioni elette in particolare a livello locale. Nuova proposta costituzionale, quindi, da sottoporre poi all’approvazione di tutti i cittadini attraverso un referendum.

Per arrivare al cambiamento dobbiamo proporre una concreta partecipazione dei cittadini. Il fatto è che l’Europa pur essendo un’unità culturale e storica che duemila anni di guerre non sono riusciti a spezzare, pur essendo una civiltà che ha saputo mantenersi vitale attraverso i millenni, pur essendo diventata un valore universale purtroppo non è ancora riuscita a diventare una realtà politica e non si può essere sicuri che riuscirà a diventarlo. C’è chi ha frenato e continua a frenare la realizzazione dell’unità europea e continua a volere un determinato tipo d’Europa, ingabbiata in una moltitudine di vincoli, mutilata non solo geograficamente, ma sotto tutti gli aspetti.

In sintesi importa la vocazione all’Europa, non quella dei mercanti, della finanza e delle multinazionali, bensì l’Europa della cultura, delle arti, delle lettere, della scienza, della tecnologia, della civiltà, dei diritti, dello sviluppo e del lavoro.

L’attuale situazione non è, non può essere, l’Europa proposta dai padri fondatori.

Il progetto di integrazione europea si è sostanzialmente basato su una serie di limitazioni alla sovranità nazionale. Se il suo futuro è ora a rischio, è perchè si trova, ancora una volta, ad affrontare il problema della sovranità. In un’unione economica vera, sostenuta da istituzioni politiche dell’unione stessa, i problemi finanziari di Grecia e di altri paesi non sarebbero arrivati ai livelli attuali che minacciano l’intera unione.

Nella relazione tra sovranità e democrazia – sostengono alcuni politologi - non tutte le restrizioni sull’esercizio della sovranità risultano essere non democratiche. Si sostiene che alcune limitazioni selettive alla sovranità potrebbero migliorare la performance democratica ma non c’è alcuna garanzia che tutti i limiti imposti da un’integrazione dei mercati possano avere lo stesso risultato. Ma combinare l’integrazione dei mercati con la democrazia richiede la creazione di istituzioni politiche sovranazionali che siano rappresentative e responsabili. Potremmo concludere dicendo che non si possono avere globalizzazione, democrazia e sovranità nazionale allo stesso tempo. Se i leader europei desiderano mantenere la democrazia, devono scegliere tra l’unione politica e la disintegrazione economica. Devono da un lato rinunciare in modo esplicito alla sovranità economica, oppure metterla, in modo attivo, a servizio dei suoi cittadini affinché ne traggano beneficio.

La prima opzione implicherebbe la creazione di uno spazio democratico sovranazionale. La seconda opzione comporterebbe invece una rinuncia all’unione monetaria per poter implementare delle politiche monetarie e fiscali nazionali con l’obiettivo di una ripresa di più lungo termine.

Più si rimanda la scelta di una di queste opzioni più aumentano i costi politici ed economici che dovranno in definitiva essere pagati.

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1) Balibar Etienne, Cittadinanza, 2012, Bollati Boringhieri; - Le frontiere della democrazia, 1999 Manifesto Libri

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Crescita, contrattazione e riforma delle pensioni: queste sono le questioni da affrontare. Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil

di Antonio Passaro

Dopo oltre tre anni, Cgil Cisl e Uil hanno riunito le proprie segreterie e hanno affrontato unitariamente problematiche presenti sia in Italia sia in Europa. Crescita, contrattazione e riforma delle pensioni sono state le questioni aperte sul tavolo del confronto. Cosa è emerso?

Ci siamo riuniti e abbiamo affrontato le problematiche presenti in Italia ed Europa. Rispetto a questo capitolo, siamo per un sindacato europeo più incisivo nel chiedere modifiche delle politiche dell’Unione e che sia di stimolo per il superamento di questa fase di austerità. Insieme a Cgil e Cisl abbiamo definito una posizione comune sulla necessità di modificare la legge Fornero e assumeremo iniziative per aprire il tavolo del confronto con il Governo. Dovremo approfondire, poi, tutte le vicende legate al nuovo modello contrattuale su cui abbiamo ancora posizioni che devono essere sintetizzate.

Barbagallo, sul nuovo modello contrattuale, Cgil, Cisl e Uil hanno, dunque, una posizione ancora non unitaria. Come si pone la Uil?

Per quel che riguarda la riforma del sistema contrattuale, abbiamo ribadito la validità della nostra proposta, resa pubblica sin dal febbraio del 2015, che basa i rinnovi dei contratti nazionali su un parametro di crescita come quello del PIL. La Uil resta in attesa di potere avviare un percorso con le altre due Organizzazioni sindacali per addivenire a un’unica proposta condivisa da sottoporre, poi, all’attenzione di tutte le controparti. Considero necessario iniziare un confronto intersindacale che consenta di costruire il nuovo modello nel più breve tempo possibile. Rimane, comunque, la volontà comune di rinnovare i contratti con le piattaforme presentate, perché la risposta alla crisi viene anche dal recupero del potere d’acquisto dei lavoratori.

Il rinnovo dei contratti è uno degli obiettivi principali del sindacato da te guidato. Hai sempre sostenuto che il 2015 deve essere l’anno dei contratti, risultato, peraltro, già raggiunto in alcune importanti categorie. Ci sono le condizioni per proseguire lungo questa strada anche in altri settori?

Certo. Abbiamo raggiunto risultati molto soddisfacenti a partire dai rinnovi dei bancari, del commercio e dei marittimi. È necessario, ora, guardare agli altri rinnovi, dove sono già state presentate o sono in via di presentazione le piattaforme unitarie. Rivendicheremo aumenti salariali, che facciano recuperare un potere d’acquisto effettivo ed efficace dal punto di vista della ripresa economica, e chiederemo il ripristino di alcuni diritti, che sono stati ridimensionati o cancellati da improvvidi atti legislativi. L’auspicio è che a settembre si possa registrare l’apertura del confronto anche nel pubblico impiego e nei metalmeccanici.

Il pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil è sceso nuovamente in piazza mettendo in scena un sit-in davanti a Palazzo Vidoni, sede del Ministero della Pubblica Amministrazione, dimostrando con tanto di ombrelloni, secchielli e palette, che i servizi pubblici non vanno in vacanza. Quali sono le richieste dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali?

Le richieste dei lavoratori e dei sindacati sono le stesse: avviare immediatamente un tavolo di trattativa sulla riapertura del contratto del pubblico impiego. Anche la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il mancato rinnovo del contratto del pubblico impiego e il conseguente blocco degli stipendi. Bisogna riaprire la partita dei contratti. Da questo punto di vista, il Governo si è dimostrato il peggior datore di lavoro del nostro Paese.

Il Governo sostiene di non avere le risorse necessarie per rinnovare i contratti nel Pubblico Impiego. Cosa rispondi?

Rispondo che bisogna mettere mano a tre fenomeni: ai 60 miliardi di corruzione, ai 120 miliardi di evasione fiscale e ai 2milioni e 700 mila lavoratori in nero. Dobbiamo farci sentire da questo Governo e perciò dobbiamo gridare più forte per fargli capire che devono rinnovare i contratti e restituire potere d’acquisto ai lavoratori dipendenti. Dicono che non ci sono risorse? Eppure, nel pubblico impiego ci sono 300 mila addetti in meno e, proprio a causa del mancato rinnovo dei contratti, non sono stati erogati 35 miliardi ai lavoratori del settore. La spesa pubblica continua a crescere: evidentemente c’è qualcuno che bara.

Cambiamo argomento. Nel mese di luglio, anche i lavoratori dell’edilizia sono scesi in piazza per manifestare il proprio malcontento: si tratta di uno dei comparti che, forse più di altri, ha subito le conseguenze della crisi.

Il settore dell’edilizia ha perso 800 mila posti di lavoro e non c’è traccia di investimenti, né pubblici, né privati. Per far ripartire il settore, che è stato sempre trainante, e favorire la ripresa economica del Paese, il Governo deve trovare le risorse per le necessarie opere infrastrutturali e per la messa in sicurezza del territorio.

Resta poi fermo l’obiettivo di modificare la legge Fornero. Giusto?

Certo, in ogni occasione pubblica non manchiamo di chiedere una modifica radicale della legge Fornero: siamo favorevoli alla flessibilità in uscita, ma non penalizzando i lavoratori. Il Ministro del lavoro, a suo tempo, ha dichiarato che la legge Fornero ha generato disagi sociali. Cosa si aspetta, allora, a modificare quelle norme? Sul tema c’è poco da aggiungere: bisogna riformare radicalmente la “Fornero” e rivalutare adeguatamente tutte le pensioni. Anche perché i pensionati sono il vero ammortizzatore sociale delle famiglie e, dunque, possono ancora essere una risorsa per il Paese.

Il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha lanciato il “Patto con gli italiani” basato sulle riforme e sul taglio di 50 miliardi di tasse in 5 anni, tra cui la Tasi, la tassa odiata dagli italiani. Cosa ne pensi?

Benissimo: lo ha detto, lo faccia. C’è un piccolo particolare, però, dietro il quale si nasconde il diavolo: come lo farà? Noi vorremmo spiegargli che le tasse vanno ridotte, innanzitutto, ai lavoratori dipendenti e ai pensionati. In un sistema in cui gli imprenditori, mediamente, dichiarano di guadagnare meno dei loro dipendenti e alcune categorie di autonomi, come i gioiellieri, meno delle maestre, una riduzione generalizzata della tassazione è quanto di più iniquo ed economicamente inefficace si possa immaginare. Analogo ragionamento vale per l’abolizione della Tasi: se la mia prima dimora è un castello, non è giusto né opportuno che io abbia lo stesso vantaggio di chi ha una casa popolare.

Per il mondo del lavoro, agosto è tradizionalmente un mese di transizione, ma settembre è dietro l’angolo. Segretario, sarà il momento delle verifiche, delle scelte e della resa dei conti?

Ci sono tre questioni che esigono risposte immediate: il fisco, le pensioni, i contratti. Non è solo un problema di giustizia o di equità. È che la soluzione a quei problemi può spianare la strada anche alla ripresa economica. Quei nodi, dunque, vanno sciolti subito. A queste priorità, è improcrastinabile aggiungere un programma europeo di investimenti in infrastrutture, innovazione, ricerca e cultura, in linea più con Obama che con Junker. Le troppe attese hanno divorato il tempo e, con esso, le aspettative, le opportunità e persino i diritti dei lavoratori, dei pensionati, del Paese. Agosto può ancora attendere, ma settembre non porterà pazienza.

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