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LUGLIO - AGOSTO 2016

LAVORO ITALIANO

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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GIUGNO 2016

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SOMMARIO

Il Fatto
Qualcosa si muove - di A. Foccillo
I rinnovi contrattuali non sono solo un diritto dei lavoratori ma anche un fattore di ripresa per l’economia italiana. Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale UIL - di A. Passaro

Terrorismo
Il terrorismo vorrebbe assoggettarci alla paura, ma non potrà né dovrà vincere Il cordoglio della Uil al popolo francese - di C. Barbagallo
Contro questa barbarie si mobiliti sindacato europeo e mondiale Servono vigilanza, collaborazione tra intelligence e cooperazione internazionale - a cura della Segreteria Nazionale UIL

Sindacale
Una nuova politica industriale per favorire sviluppo, occupazione e crescita economica - di T. Bocchi
Politiche industriali, sistema degli incentivi, Sud - di G. Loy
Salute e sicurezza sul lavoro: tra passato, presente e futuro - di S. Roseto
Legge 328/2000 ieri, oggi e domani: una sfida ancora aperta - a cura dell’Ufficio Politiche del Sociale e Sostenibilità
Siamo cittadini della Repubblica che rivendicano diritti e dignità - di R. Bellissima
Il contratto dopo le ferie - di R. Palombella
Il Nuovo Programma Nazionale Della Ricerca (Pnr 2015 - 2020).
La Ricerca Pubblica ne uscirà indebolita - di I. Ippoliti

Attualità
Riforma costituzionale e l’Italicum rischiano di azzoppare la fragile democrazia italiana - di V. Russo

Approfondimento
Le novità del c.d. decreto Furbetti del cartellino - di A. Fortuna

Agorà
Le prospettive di rilancio occupazionale dei giovani attraverso il c.d. Sistema Duale - di A. F.

Il Ricordo
Renzo Friolotto - di M. Brunazzi

Inserto
Il costo della libertà - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Qualcosa si muove

di Antonio Foccillo

Nella dinamica politica e nel dibattito economico, finalmente, emergono e stanno diventando opinione comune ripensamenti sulla politica di austerity che tanti guasti ha prodotto.

Ne parlavamo già nel precedente numero della rivista. Voglio riprendere la questione, anche perché, in passato, chi come me contestava tale politica era considerato un conservatore o un disfattista.

I soloni della finanziarizzazione e della globalizzazione, enfatizzavano la necessità di fare sacrifici per evitare il “disastro”.

Sulla base di tale dogma economico, tutto veniva giustificato, anche le aberrazioni come ridurre diritti o aumentare povertà ed emarginazione. Addirittura si arrivava ad imporre governi tecnici, cambiando i governi eletti dai cittadini per far prevalere l’esigenza ineludibile - per loro - della economia finanziaria, in modo da aumentare sempre più i loro profitti. Questa politica, tuttavia, era spacciata quale unico modo per creare ricchezza per tutti e per realizzare sviluppo duraturo.

Pertanto, tutto doveva esser funzionale alle logiche del “neo liberismo” compresa la politica. Infatti, per evitare opposizioni, si enfatizzava il principio della necessità di governance, osannata quale efficiente partecipazione democratica.

La governance, invece, è stata utilizzata e solennemente celebrata per delegittimare e soffocare il conflitto sociale, ma, soprattutto, perché priva di quegli elementi caotici tipici degli esercizi di democrazia, non riassorbiti nella rappresentanza.

Tuttavia le caratteristiche della governance, termine alquanto variabile nei suoi significati, si sono rivelate, a seguito della crisi in atto, ben diverse dalle promesse.

Ed è un fenomeno che riguarda tutto il mondo, compreso l’Europa.

Infatti tutta l’Europa si è dotata di una governance di natura essenzialmente finanziaria, il cui interlocutore principale è la rendita e la cui missione è conservare e riprodurre gli attuali rapporti di forza tra i soggetti sociali così come tra gli Stati.

Questa governance ha sospinto gli Stati membri a rendersi efficaci articolazioni degli imperativi liberisti, eliminando tutto ciò che li poteva ostacolare.

La governante, insomma, malleva l’assunzione di vesti dirigistiche. A titolo di esempio si evidenzia la passata richiesta tedesca di istituire un supercommissario all’euro con il potere di bocciare o promuovere i bilanci nazionali. In tal modo, la governance si fa “governo”, non certo governo politico di cui si invoca retoricamente la necessità di una legittimazione democratica, ma “governo tecnico”, che altro non è se non il governo delle oligarchie.

Questa centralizzazione tecnocratica del potere, destinata a sfociare in un dispotismo tutt’altro che illuminato, ha usato, come si diceva, il terrorismo finanziario per giustificare il suo insediamento non elettivo al governo e, di fatto, comprime ogni forma di democrazia e partecipazione politica.

Anche in Italia il fenomeno non è stato da meno.

Innanzitutto si è rivelata falsa l’esaltazione della capacità della governance di aderire, in contrapposizione alla natura centralistica dello Stato, alla complessità delle società contemporanee, conferendo poteri sempre maggiori a regioni, province, comuni, municipi con una loro capillare articolazione sul territorio.

Poi, però, alla fine sono state abolite le province, è stata ridimensionata la capacità di legificazione delle regioni, sono stati accorpati i municipi e il tutto viene sottoposto a un rigido controllo non dal basso, ma dall’alto.

Per di più questo fenomeno di accentramento si estende oltre le sedi politico-istituzionali perché si abolisce, si accorpa e si concentra tutto quanto è possibile e, dove non è possibile accorpare, si istituiscono agenzie centralistiche di valutazione e di controllo attraverso le quali una burocrazia tecnocratica, spesso fuori dal mondo, detta le regole che costano posti di lavoro, riduzione dei diritti e dei servizi e spesso regressione culturale.

Insomma, il liberismo finanziario, secondo la prassi dei regimi ex comunisti, ha attuato la vecchia idea di pianificazione, ma questa volta al servizio dei “mercati”.

Sempre in nome della governance, sono state aperte agli imprenditori le porte del governo delle università, ridisegnate a loro uso e consumo per favorire la connessione tra pubblico e privato e, al fine di risolverne l’antagonismo, favorire una straordinaria cooperazione a favore dell’innovazione e dello sviluppo; inoltre si è puntato sulla sanità privata ed è stata sovvenzionata la scuola non statale.

Insomma è stato promosso - in nome di una inesistente concorrenza - l’interesse privato nella gestione dei servizi pubblici, dai trasporti allo smaltimento dei rifiuti, alla gestione delle reti idriche.

I risultati di questa messa in opera della governance sono sotto gli occhi di tutti, a cominciare dallo stato in cui versano la scuola, la ricerca e l’università, all’erosione di redditi e dei diritti sociali e politici per finire col sistema sanitario nazionale, delle cui prestazioni finora erogate le politiche di rigore prevedevano – come ebbe a dire Monti poco tempo prima di dimettersi – la non sostenibilità. Oltretutto è stato aggravato il tutto con politiche di continui tagli di risorse e con normative dirigiste, che si sono abbattute sui diversi servizi pubblici, della cosiddetta “spesa pubblica”.

Si può facilmente dedurre che la “governance”, è stata e continua ad essere solo un processo politico volto a conservare i rapporti di forze e le gerarchie sociali esistenti.

Essa, a volte, ha fatto anche da alibi alla corruzione, come strumento di governo, infatti, nelle istituzioni decentrate troviamo la soddisfazione degli appetiti delle clientele e le paradossali ruberie dei rappresentanti politici, l’intreccio sempre più spregiudicato di politica e affari, i sistematici rapporti di scambio con le reti di potere confessionali e non.

Rappresenta anche il modo con il quale il potere ha cercato di liberarsi del dispendioso sottobosco incaricato di comprare, tra promesse e favori, il consenso popolare.

Un esempio emblematico di questa teorizzazione sta avvenendo con le dichiarazioni di molti esponenti politici che dicono che se dovesse vincere il No al referendum costituzionale si aprirebbe una fase difficile che farebbe venire meno proprio la governabilità per mancanza di ricambi.

Ebbene come sempre di fronte ad un vuoto vi è sempre qualche altra cosa che lo riempie Infatti, un esempio di un probabile sostituzione di questo vuoto è avvenuto, nelle recenti elezioni, dove in alcune regioni, si è imposta, un’altra forma di democrazia, quella diretta, sostenuta in particolare dai 5 stelle, che è un fenomeno da non sottovalutare.

La democrazia diretta viene applicata in Svizzera, dove il popolo può bloccare, tramite referendum, una legge o una modifica della costituzione decise dal parlamento o può imporre un cambiamento legislativo o costituzionale tramite un’iniziativa popolare. Il voto viene espresso al seggio o per corrispondenza e, addirittura nei cantoni di Appenzello Interno e Glarona la votazione avviene per alzata di mano, procedura detta Landsgemeinde. In passato le landsgemeinden si tenevano anche in altri cantoni.

Norberto Bobbio avanzò delle riserve sulla vecchia idea del “potere a tutti”.

Egli sostenne: “La democrazia diretta è sempre stata una illusione. Lo è a maggior ragione in una civiltà altamente tecnicizzata come la nostra, in cui ciò che l’uomo produce è l’effetto di una organizzazione mastodontica, sempre più complicata, difficile da dominare, che riesce a funzionare soltanto se affidata a pochi esperti. Si immagini una fabbrica di 100.000 operai dove tutti siano chiamati a discutere i metodi, i tempi, il processo di produzione. Dopo dieci giorni sarebbe chiusa “.

Certamente definire la democrazia diretta un’illusione non può portare a sottovalutare o disconoscere l’esistenza di esigenze reali e diffuse di una nuova strutturazione del potere, che nascono dalla constatazione che oggi si è realizzato il passaggio del potere nelle mani di pochi, oltretutto non legittimati da alcuna procedura democratica, e che oggi lo detengono in nome di una pretesa superiorità del principio tecnocratico.

La democrazia diretta al contrario affida nelle mani dei molti che oggi ne sono privi.

Noi riteniamo che il progresso della nostra civiltà, altamente tecnicizzata, deve permettere all’umanità non solo il godimento delle sue conquiste economiche, che si vanno concentrando velocemente nelle mani di pochi ricchi, ma soprattutto non deve impedire che anche le conquiste politiche e sociali progrediscano come quelle tecniche ed economiche.

Il problema del potere è reale. La soluzione vede l’élite dei pochi esperti, che dirigono la fabbrica immaginata dal prof. Bobbio, impadronirsi anche del potere formalmente politico, creando, ad esempio, una repubblica presidenziale in cui la democrazia è ridotta alla funzione puramente formale.

I giornali della nostra classe dirigente sembrano chiedere questa soluzione, attuata in certo qual modo dalla FIAT, fabbrica molto simile a quella immaginata dal prof. Bobbio.

In alternativa i 100.000 operai e impiegati della fabbrica immaginata dal prof. Bobbio conquistano effettivamente il diritto di discutere i metodi, i tempi, il processo di produzione e, per esercitare questo diritto, creano i loro comitati liberamente eletti, fino al consiglio di gestione, che insieme agli esperti dirige la fabbrica.

Ovviamente il controllo dal basso non trasforma gli operai in ingegneri, ma serve a salvaguardare i diritti e i doveri di uomo libero e di cittadino nel luogo del suo lavoro.

Tutto ciò pone anche un rinnovamento profondo dell’azione del movimento sindacale.

Nella moderna società, i monopoli hanno la possibilità di far pagare a tutti, gli aumenti sui salari e sugli stipendi, quindi l’azione sindacale deve restituire ai lavoratori il potere di discutere non soltanto i salari, ma anche i programmi di produzione, gli investimenti, i prezzi, permettendo loro di attuare un controllo democratico anche sulle influenze economiche e politiche della loro industria sulla vita nazionale.

Appare evidente, quindi, la necessita di modificare l’attuale azione del sindacato, con un rinnovamento che deve coinvolgere la loro struttura, i rituali e la strategia al di fuori della fabbrica. Il controllo dal basso può essere esercitato solo da organismi democratici eletti da tutti i lavoratori e funzionanti all’interno della fabbrica.

È una sfida, che almeno per quest’ultima parte, è stata colta con il protocollo sull’elezione delle Rsu in tutti i luoghi di lavoro, e per la verità se non decolla ancora è colpa degli imprenditori che stanno allungato i tempi.

Ma, bisogna, anche affrontare le altre questioni e questa discussione si deve avviare al più presto, comprese le regole costituzionali che sono materia che riguardano tutti e dalle quali, a parere mio, il sindacato non può restare fuori.

Separatore

I rinnovi contrattuali non sono solo un diritto dei lavoratori ma anche un fattore di ripresa per l’economia italiana Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil

di Antonio Passaro

Segretario, per sintetizzare gli eventi sindacali di questo mese, potremmo dire che luglio si è chiuso all’insegna del dialogo.
Se poi oltre alla forma ci saranno anche la sostanza e gli esiti auspicati, lo si vedrà a settembre. Andiamo con ordine, dunque, partiamo dal confronto con il Governo su pensioni e lavoro. Il giorno 29 c’è stato un incontro al vertice per fare il punto sul percorso svolto sino a ora. Come è andata?

L’incontro è stato positivo e abbiamo già fissato due appuntamenti tecnici, il 6 e il 7 settembre, il primo sul lavoro e l’altro sulla previdenza. Poi, il 12 settembre, ci sarà un nuovo confronto per tirare le fila e provare a fare un accordo entro la metà di settembre, prima del varo della legge di stabilità. Hanno parlato di disponibilità finanziarie rilevanti: noi gli abbiamo risposto che devono essere rilevantissime! E questo vale sia per il capitolo dei pensionandi sia per quello dei pensionati. Abbiamo, poi, chiesto al Governo di intervenire sin da subito, in occasione dell’imminente “correttivo” in materia di lavoro, per delimitare il campo di utilizzo dei voucher e per definire la questione degli ammortizzatori sociali. Su quest’ultimo capitolo ci hanno assicurato che hanno trovato le risorse per far fronte alle necessità del 2016. Ci siamo lasciati con questi impegni: a metà settembre saremo in grado di esprimere una valutazione definitiva su tutto il confronto.

Sulle risorse a disposizione per affrontare, in particolare, il capitolo previdenza, non hanno fatto cifre precise?

A dire il vero, non mi aspettavo che ci sarebbero state risposte già nella giornata del 29 luglio. Noi, però, un segnale chiaro glielo abbiamo mandato. Abbiamo fatto qualche conto e pensiamo che 6-700 milioni non siano sufficienti: stimiamo che servano 2,5 miliardi di euro. Vedremo se a metà settembre riusciremo a trovare un accordo.

Hai già accennato ad alcuni temi in discussione relativi al capitolo lavoro. E per quel che riguarda le pensioni?

Siamo entrati nel dettaglio di tutte le questioni e c’è la volontà di affrontare tematiche complesse per dare risposte ai problemi aperti. Si sta lavorando per ampliare la platea dei lavori usuranti, per consentire ai lavoratori precoci di accedere alla pensione dopo 41 anni di contribuiti, per rendere le ricongiunzioni non più onerose e, infine, per rivalutare le pensioni in essere. Per quel che riguarda, infine, il meccanismo dell’Ape proposto dal Governo, abbiamo chiesto di renderlo effettivamente fruibile, evitando costi o percorsi che potrebbero trasformare questa novità in un flop. Insomma, ci vuole anche semplicità e chiarezza nella definizione dei provvedimenti: se ci saranno risultati, questi dovranno essere comprensibili per tutti coloro che ne potranno beneficiare.

Peraltro, per concludere il capitolo della previdenza, ricordiamo anche che, a luglio, c’è stata la tradizionale relazione annuale del Presidente dell’Inps. Il tuo giudizio non è stato positivo: perché?

Perché il presidente Boeri ha parlato di tutto, ma poco di previdenza e di Inps. Ad esempio, ci sono 104 miliardi di evasione contributiva e, invece, lui si preoccupa per i 3 miliardi relativi alla legge sull’accompagnamento. A proposito del bilancio Inps, poi, per l’ennesima volta la Uil ha espresso il suo voto contrario perché siamo ancora di fronte a un bilancio falsato dalla mancata separazione tra assistenza e previdenza. Peraltro, l’Inps è l’Istituto nazionale di Previdenza Sociale e non di Povertà Sociale: certo, bisogna intervenire per aiutare i poveri, ma è necessario evitare che si creino nuovi poveri.

A proposito del clima di dialogo che il Governo sembra intenzionato a instaurare con le parti sociali, è per certi aspetti sorprendete l’apertura del Presidente del Consiglio sui contratti per il pubblico impiego: c’è la dichiarata disponibilità ad aumentare le risorse a disposizione. Il pressing sindacale ha funzionato. Che ne pensi?

Siamo particolarmente soddisfatti che il Presidente del consiglio abbia accolto le nostre reiterate sollecitazioni: l’impegno a mettere più risorse a disposizione per il rinnovo dei contratti dei lavoratori del pubblico impiego può essere benzina nel motore della trattativa appena iniziata. Il premier ha dichiarato che si deve sanare un’ingiustizia e che bisogna finalmente rinnovare i contratti dei dipendenti pubblici che attendono questo momento da sette anni. E ha anche detto che se vogliamo tornare a crescere, occorre aprire in modo serio la fase del rinnovo contrattuale. Tutte queste sono esattamente le nostre rivendicazioni e le nostre ragioni, perché senza il recupero del potere d’acquisto dei lavoratori e dei pensionati il Paese non cresce. Se a un impegno così forte, dunque, seguiranno i fatti, quella dichiarazione di disponibilità sarà una svolta significativa.

Nonostante l’imminenza della pausa estiva, il confronto sembra essere entrato nel vivo anche con la Confindustria. Sempre nella stessa densa e intensa giornata del 29 luglio, ovviamente in un’altra sede e su altri argomenti, c’è stato un incontro al vertice, questa volta tra una delegazione di Cgil, Cisl, Uil e una dell’Associazione degli industriali. Di cosa si è parlato e cosa è stato deciso?

A questo tavolo, abbiamo affrontato quattro capitoli: rappresentanza, politiche del lavoro, welfare aziendale e bilateralità, politica dei redditi e contrattazione collettiva. È emersa, però, la necessità di approntare, con una certa urgenza, una proposta comune sul tema delle politiche del lavoro, in vista delle trasformazioni relative agli strumenti per far fronte alle crisi occupazionali. Si è stabilito, dunque, un percorso per un approfondimento tecnico che inizierà già nei prossimi giorni di agosto. L’obiettivo è presentarsi al prossimo appuntamento al vertice, fissato per l’1 settembre, con un testo definito su alcuni punti in discussione: vogliamo predisporre un documento condiviso su ammortizzatori sociali, su modifiche a jobs act e su risorse necessarie per affrontare le cosiddette crisi complesse da sottoporre all’attenzione del Governo. Poi, continueremo la discussione sugli altri argomenti. In particolare, bisognerà capire come legare il welfare aziendale - che non può essere sostitutivo di quello statale - ai contratti.

Intanto, con altre parti sociali, si sono fatti molti passi avanti: con la Confapi è stato addirittura già firmato l’accordo sul nuovo modello contrattuale. È un primo importante segnale della volontà di rinnovamento che le parti sono in grado di esprimere...

Sì, è proprio così. Con la Confapi abbiamo firmato non solo il primo, ma anche un moderno accordo per nuove relazioni industriali e un nuovo modello contrattuale, insieme all’accordo sulla rappresentanza e sulla detassazione del salario di produttività. È l’ennesima prova che le parti si confrontano proficuamente e che sono in grado di raggiungere importanti risultati: su questi terreni le interferenze politiche possono solo creare disagi. L’intesa nel suo insieme è particolarmente significativa per la peculiare composizione del settore di riferimento, caratterizzato da piccole e medie aziende, molto diffuse sul territorio nazionale. È apprezzabile che sia stato confermato il livello nazionale e che sia stata prevista una diffusione della contrattazione di secondo livello, anche territoriale. La Confapi è la prima parte datoriale con cui abbiamo raggiunto questo traguardo. Ora dobbiamo proseguire il cammino anche con le altre associazioni: noi siamo pronti.

Dalla contrattazione ai contratti. Su quest’ultimo fronte le cose non vanno bene. Sono tante le trattative in fase di stallo, a cominciare da quella dei metalmeccanici. Sempre a luglio c’è stato un attivo unitario di Cgil, Cisl, Uil. Di cosa si è parlato e cosa si è deciso?

Intanto, abbiamo ribadito un principio che sembra scontato, ma non lo è per tutti, a cominciare proprio da molti imprenditori che si ostinano a restare su posizioni di chiusura e di rigore. I contratti non sono solo un diritto dei lavoratori pubblici e privati, ma anche un fattore di ripresa per l’economia del Paese. Senza il recupero del potere d’acquisto dei lavoratori e dei pensionati non c’è crescita economica e se non c’è crescita non c’è occupazione. Ecco perché rinnovare i contratti conviene a tutti. Io mi auguro, per i lavoratori, per i pensionati, per i giovani in cerca di lavoro, che tutti i confronti aperti portino risultati positivi. Se riusciremo a fare accordi e contratti, bene. Se questo non succederà, le lavoratrici e i lavoratori, i giovani e i pensionati sono pronti per farsi sentire al ritorno dalle ferie.

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