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LUGLIO/AGOSTO 2010

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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Il numero di giugno
GIUGNO 2010

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SOMMARIO

Il Fatto
Quali partiti e quale sindacato? - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti Segretario generale UIL: l'accordo per Pomigliano è una svolta! -
di A. Passaro

Economia
Lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili non può essere un optional - di P. Carcassi
Tirrenia: E’ finito il tempo delle “parole” - di G. Caronia
Per puntare sul futuro l’Italia deve investire in sapere: più istruzione per tutti -
di M. Di Menna
L’accordo per la Fiat di Somigliano - di R.Palombella
Manovra: grande soddisfazione per la nostra giornata di protesta nazionale -
di G. Torluccio

Sindacale
Congresso della Confederazione Internazionale dei Sindacati - di N. Nisi
Lo “statuto dei lavoratori” e l’umanesimo socialista - di E. Bartocci
40° anniversario dello statuto dei lavoratori - di A. Foccillo
Perchè Cristo non si fermi a Eboli - di C. Benevento
Il lavoro domestico non è di serie B - di P.N
Lo sciopero oggi! - di F. Tarra

Attualità
Il futuro del lavoro - di A.Carpentieri
Crisi economica e crisi democratica - di G. Paletta
Alcune considerazioni sull’esito del vertice “G20” di Toronto - di A. Ponti

Agorà
Ricordiamo Marcinelle per guardare con occhi diversi la realtà d’oggi - di G. Salvarani
Nella fattoria degli animali maghi, il polpo Paul è solo l’ultimo fenomeno -
di M. C. Mastroeni
Africa: dopo i mondiali tornano i problemi di sempre - di P. Nenci
Sudafrica e Spagna Mondiali: buona la Prima - di A. Scandura
Pubblicità indesiderata: il registro anti-telemarketing uno strumento davvero efficace? -
di G. Zuccarello

Cultura
Leggere è rileggere: Giordano Bruno Guerri: D'Annunzio l’amante guerriero - di G. Balella
Globish – “global english”, linguaggio pratico universale – di N. A. Rossi

La Recensione
Un commissario scomodo - di E. Di Francesco

Inserto
Il piano inclinato della corruzione sul quale scivola la democrazia - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Quali partiti e quale sindacato?

Di Antonio Foccillo

In questo ultimo periodo, alla luce dei tanti fatti accaduti nella vita politica, economica e sociale si sta riproponendo un dibattito molto forte sulla necessità di ripensare ai partiti, alla loro struttura, alla loro forma democratica di selezione della classe dirigente, di decisione e di discussione, magari tornando indietro e rispolverando anche le correnti che erano un antidoto alle “cricche”. Tutto questo per rispondere alle esigenze di individuare un nuovo modello economico ed una forma più intensa di partecipazione democratica quale deterrente alle egemonie economiche e di malaffare. Soprattutto perchè, oggi, la comunicazione attraverso i mass media è diventata più semplice e redditizia e quindi tutte le organizzazioni sociali tendono sempre più verso la virtualità delle discussioni. Infatti, i partiti politici hanno chiuso le sezioni, che erano le loro ramificazioni sul territorio ed ormai il sindacato rimane una delle poche realtà dove ancora si discute veramente e collettivamente. Questo è, storicamente, un punto a favore del sindacato, poiché ha conservato strumenti, metodologie e pratiche democratiche che, invece, il partito politico – senza voler polemizzare - ha smarrito. Tuttavia, diversi commentatori attribuiscono alla caduta della partecipazione democratica la causa anche della crisi del sindacato e gli ultimi tempi, confermerebbero questa teoria, dovuta però al fatto che si vive nella scarsa capacità progettuale e nell’incertezza politica. Questa inoltre porta ad un progressivo stemperarsi dell’azione del sindacato in una situazione d’incaglio politico e istituzionale che avrebbe avuto bisogno, al contrario, di un suo deciso impulso e di una sua coerente ed autonoma iniziativa. Si ripropone quindi il rapporto fra politica e sindacato. Tale rapporto, che esiste da sempre e non solo in Italia, ha subito da noi una profonda trasformazione con caratteristiche diverse per ciascuna organizzazione. Cgil, Cisl e Uil, negli anni del proporzionale, si muovevano in una logica diversa proprio per il pluralismo di cui erano portatrici. Ma credo sia più opportuno andare a vedere quello che è successo un minuto dopo la disintegrazione del sistema dei partiti del cosiddetto arco costituzionale e del sistema proporzionale. Si tratta, infatti, di riconoscere come il cambiamento del rapporto sindacato-politica sia tanto importante da non poter più essere valutato con l’ottica del passato. Il bipolarismo del maggioritario ha spaccato in due la società, e, a detta di molti, anche il sindacato doveva adeguarsi: una parte di qua e l’altra di là. Esattamente quello che non successe dopo la seconda guerra mondiale e che, puntualmente, non è successo neanche questa volta, sebbene il rischio di inseguire il bipolarismo sia esistito ed esista tuttora. E a chi dice che, per evitare sconfitte, il sindacato deve ripensare il proprio ruolo, la propria natura e collocazione dico che invece il sindacato deve elaborare proprie strategie, poiché il suo ruolo e la sua natura sono inalterabili e non si deve porre il problema della collocazione, accettando supinamente la logica bipolare. Il sindacato deve invece elaborare una sua autonoma proposta con la quale influenzare il dibattito politico, costringendo il bipolarismo ad inseguirlo su proposte innovative e condivise. Il sindacato può affermare idee alternative soprattutto tra i lavoratori ed i cittadini anche attraverso l’organizzazione di espressioni di dissenso pacifiche e simboliche, che comunque diano la misura di un consenso crescente ad una politica che nasce da una elaborazione autonoma e non ripropone, anacronisticamente, nessuna “cinghia di trasmissione”. Il sindacato deve quindi prendere atto del mutato scenario politico, per lanciare una proposta che costringa i due poli a misurarsi con essa. Naturalmente bisognerà poi affrontare anche il problema dello stesso bipolarismo poichè noto a tutti che la nostra realtà, storicamente, non si può riconoscere in due poli, con il risultato concreto di spaccare a metà il paese. Il sindacato dovrà quanto prima dire la sua sullo stato della politica e dei partiti svolgendo il suo ruolo di attore sociale autonomo, in grado di disegnare uno scenario diverso dall’attuale. Ed anche su questo punto, in realtà, il sindacato può gettare lo scompiglio nei poli di questo bipolarismo che nei fatti è solo apparente. Le strategie sulle quali il sindacato confederale deve riflettere riguardano innanzitutto le risposte da dare all’ideologia neoliberista e conservatrice imperante. Dicendo solo no, paradossalmente, si viene accusati di conservatorismo ed allora, sebbene in qualche occasione credo sia legittimo e necessario dire no, in molte altre, invece, è opportuno fare proposte, aggredire il neoliberismo da sinistra, ossia in un’ottica autenticamente riformista, che punta al progresso sulla base di valori e principi storicamente acquisiti nel patrimonio genetico del mondo del lavoro italiano. Mi riferisco a diritti e solidarietà sociale, che si declinano attraverso uno stato sociale rinnovato, più efficiente e rispondente alle esigenze mutate, ma che non abbandona ed esclude nessuno, salvaguardando pari opportunità e libertà per tutti i cittadini. Ci sono cose molto semplici, ma fondamentali, sulle quali è opportuno battersi ed avviare una riflessione per generare proposte di modelli alternativi a quelli imposti dalla globalizzazione guidata dai neoconservatori del liberismo selvaggio. Oggi in questa situazione di crisi il passo indietro dell’umanità è duplice: economico e politico, possiamo contrastarlo solo se discutiamo su diritti e valori sociali, poiché altrimenti, discutiamo solo sui numeri, secondo le leggi del mercato, senza compiere nessun passo avanti. Se cresce qualche indice, se Wall Street non perde, non significa però che l’umanità vada avanti, infatti, ci sarà sempre una forbice più ampia tra ricco e povero, in Italia e nel mondo, tra cittadini e tra continenti, tra chi può usufruire delle nuove tecnologie e del progresso e chi ne è escluso, sempre più. Il problema politico e quindi dei partiti resta quello della liberazione sociale che, nell’era della civiltà tecnica, non solo non è stato risolto, ma anzi è stato abbandonato. Questo perchè la teoria della centralizzazione e della pianificazione dell’economia anziché indicare alle società, giunte alla soglia del sovrasviluppo, il buon uso delle loro ricchezze, ha raccolto la sfida del capitalismo sul piano tecnico della produzione piuttosto che su quello delle libertà. A ciò bisogna aggiungere la rivincita delle leggi economiche che dimostra che non esiste relazione bi-univoca tra giustizia e prestazione, tra progresso tecnico e progresso sociale. Ed è qui il punto centrale: riconoscere che progresso tecnico e progresso sociale non possono andare di pari passo e che quindi bisogna sceglierne uno, almeno fino a quando la scelta sarà storicamente possibile. Il fatto è che fino a quando la società avrà l’unico progetto dello sviluppo, non potrà avere una legge diversa da quella dell’efficacia, un principio organizzatore diverso da quello del lucro, in sintesi una logica che non sia lo sfruttamento capitalistico. Bisogna porsi quindi il problema di come mettere dei limiti al potere dell’Economia, per far riguadagnare terreno ai principi organizzatori che non siano esclusivamente utilitari. La frenesia al consumo porta un vuoto assiologico, cioè all’assenza di valori comuni suscettibili di definire un programma che soddisfi i bisogni fondamentali. Ed infine se è vero che attualmente la politica non è altro che “economia condensata” per proporsi un obiettivo diverso dall’economismo sublimato o dalla logica di conquista camuffata occorre che la comunità si riconosca su un piano diverso da quello politico attuale. Chi saprà definire un progetto sociale diverso da quello che deriva dalla logica strumentale dell’economia e dello sviluppo tecnico? Lasciamo aperta la discussione atteso che, il dissolvimento dei regimi totalitari, la fine del socialismo reale e i conseguenti dibattiti sul rinnovamento della sinistra, la crisi degli Stati nazionali in seguito alla globalizzazione, costituiscono gli elementi dell’attuale dibattito su una “terza via”, alternativa al dogmatismo ideologico e all’utopismo democratico in cui fanno da riferimento le teorie di Hans Kelsen e Niklas Luhmann. Il primo sostiene che compito della scienza del diritto non è dare una valutazione etica, ma fornire una descrizione; il secondo ritiene che compito primo di uno Stato è di determinare le sue regole generali di funzionamento nel tentativo di arginare il fenomeno della vanificazione della partecipazione democratica autentica dei cittadini alla via politica che, soprattutto nei Paesi industrializzati, è resa difficile dall’impossibilità di selezionare quella massa di informazioni che sono necessarie per operare delle scelte consapevoli. In questo dibattito John Rawls ha inserito il concetto di “società giusta”, che cerca una mediazione fra l’idea di individuo e quelle di equità e uguaglianza. Per il sindacato, invece, oltre alle questioni ideali e politiche, ancora oggi resta l’impegno sul lavoro che è, infatti, il processo principale di emancipazione dell’uomo, che gli consente di contribuire al progresso della collettività e quindi deve essere riconosciuto, in base a criteri che il sindacato, in quanto rappresentante degli interessi collettivi dei lavoratori, può e deve valorizzare. Un sindacato consapevole delle proprie forze è in grado di farlo. Diritti contrattuali, stato sociale, servizi pubblici sono la base su cui il sindacato deve elaborare una progettualità, per acquisire consenso nella società ed evitare che si ripropongano situazioni unilaterali frutto della sola logica economica. Solo una proposta forte, articolata e condivisa può sfuggire alla logica del bipolarismo, soprattutto se, caratterizzandosi per il merito, guadagna anche l’autorevolezza che le deriva dall’essere generata autonomamente, senza passare per vie collaterali e dall’impatto che produce nella dinamica sociale, in tutti i suoi aspetti. Si richiede quindi uno sforzo elaborativo, che spinge il sindacato a non limitarsi più al quotidiano, poi si vedrà se sarà la sinistra o la destra a rispondere, anche se appare evidente che su alcune materie la sinistra dovrebbe essere più sensibile. Ma deve essere la pratica quotidiana a dirlo, è la politica che deve dimostrare di credere in alcuni principi e dare seguito a questi. Se il sindacato si adopera a fare lo stimolatore della politica, anziché nascondersi dietro le etichette di sinistra o di destra, farà uscire allo scoperto anche qualche politico che, diciamo così, ha sbagliato schieramento! È una battuta, ma dietro c’è qualcosa di molto serio: quanti cittadini, ormai, non vedono grandi differenze tra i due schieramenti, soprattutto in materia di politica economica? Questa è la realtà di un paese che sembra avviato verso un destino ineluttabile, verso il quale nessuno si sente di opporsi, il sindacato lo può fare, più della politica. L’azione sindacale diventa inutile e controproducente se serve solo a dire no, ma se porta con sé proposte, modelli di sviluppo alternativi e se i lavoratori ed i cittadini fanno propri i motivi della lotta, li sentono più vicini alle loro aspettative, allora il sindacato è utile, è uno strumento sempre valido per la dialettica democratica di una società postindustriale. A questo proposito devo dire che un primo, importante passo che deve essere fatto sulla via di una ricomposizione costruttiva del rapporto tra partito politico e sindacato, è quello del rispetto reciproco. Né “cinghia di trasmissione” né TUC del secolo passato, ma sia chiaro che un rapporto per iniziare bene deve partire dal rispetto reciproco. Recuperando il confronto dialettico, nella completa libertà d’espressione, si può essere in completo disaccordo, ma resta un punto fermo il rispetto dell’interlocutore, che rappresenta un diverso punto di vista, sul quale confrontarsi senza dogmi, in maniera tollerante. Questo, in effetti, è un problema per tutta la nostra realtà: prevale l’urlo rispetto al dialogo ed anche in questo senso, ribadisco, il sindacato può portare il proprio bagaglio d’esperienza che sul dialogo, anche in questi anni difficili, ha costruito tutta la sua storia ed il suo modo di essere.

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L'accordo per Pomigliano è una svolta!
Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale UIL.

di Antonio Passaro

Angeletti, da oltre un mese, il futuro degli stabilimenti italiani della Fiat è il tema economico e sindacale alla ribalta della cronaca. Tutto è iniziato dalla “vicenda” Pomigliano. Quali sono le ragioni che hanno indotto la Uil a firmare l’accordo per il sito campano?

Già molto tempo fa, il Sindacato nel suo insieme, proprio per rilanciare lo stabilimento campano, aveva chiesto alla Fiat di investire e di portare in quel sito nuovi modelli. E’ stata una rivendicazione di tutto il Sindacato. Ebbene Fiat ha deciso di investire 700 milioni di euro su Pomigliano, di riportare dalla Polonia - dove, peraltro, i costi erano più bassi - la produzione della Panda in Italia. E per realizzare questo progetto – caso unico nella recente storia industriale - non ha chiesto una riduzione dei salari. Non potevamo che condividere questa scelta: che quell’investimento fosse realizzato non era semplicemente un’opportunità, era l’obiettivo, perché noi dobbiamo difendere le persone e il lavoro.

Questa vicenda può rappresentare una svolta anche per il futuro industriale ed economico del Paese?

Sì, ne sono convinto. L’accordo per Pomigliano rappresenta una svolta non solo per le relazioni industriali ma, soprattutto, per l’industria automobilistica in Italia. Inverte infatti una tendenza negativa che ha spinto il nostro Paese all’ultimo posto nella produzione di auto in Europa e, al contempo, consente di porre un freno alla deindustrializzazione del nostro Mezzogiorno. Peraltro, gli ultimi dati macroeconomici rivelano che il divario tra il Nord e il Sud si sta accentuando proprio in relazione al crescente differenziale industriale. Servirebbero, dunque, dieci Pomigliano per rendere più credibile l’unità del Paese almeno dal punto vista economico e sociale. Per queste ragioni noi siamo convinti e determinati a lavorare per la perfetta riuscita del progetto.

La Uil ha sostenuto il progetto Fabbrica Italia partendo dal presupposto che Fiat accresca considerevolmente la produzione di auto nel nostro Paese. Come valuti questo obiettivo?

Lo abbiamo già detto: aumentare la produzione dell’auto in Italia significa cambiare la tendenza del nostro sistema economico. Questo obiettivo è così importate che non andiamo a cercare alibi o scuse per non raggiungerlo. Abbiamo bisogno di vedere riconfermato l’impegno ad implementare gli stabilimenti italiani: la Fiat deve semplicemente dirci quali sono le condizioni per cui questo progetto si realizza. La stragrande maggioranza dei lavoratori è preoccupata solo di salvaguardare il proprio posto di lavoro e a condizioni normali. Noi dunque non abbiamo problemi ad accettare e a praticare le sfide necessarie.

Ma cosa succederà per gli altri stabilimenti del Gruppo Fiat?

Gli stabilimenti della Fiat sono diversi l’uno dall’altro. Non si può fare come in passato: la camicia a taglia unica forse non è la risposta più intelligente ai problemi e alle aspettative dei lavoratori. Noi siamo disponibili a fare accordi, dopo quello per Pomigliano, anche per gli altri stabilimenti, a fronte di impegni che giustifichino l’assunzione di responsabilità da parte dei sindacati.

E per Mirafiori?

Noi abbiamo chiesto a Marchionne che la Fiat sostituisca la vettura che vuole costruire in Serbia con la produzione di un’altra vettura che abbia maggior margine e che garantisca, per quantità e qualità, non solo la sopravvivenza dello stabilimento di Mirafiori, ma anche l’ampliamento dell’occupazione.

In realtà, la Fiat in Italia non sta messa molto bene: è tra le imprese che sta pagando ancora lo scotto della crisi. Questo progetto può rappresentare il volano per la sua ripresa anche nel nostro Paese?

Effettivamente, stiamo registrando un miglioramento ma che non riguarda tutti. In particolare, è aumentata la quota del commercio internazionale: alcune nostre imprese sono tornate ad essere competitive. Per la Fiat il discorso è più articolato perché mentre è competitiva in alcuni Paesi lo è meno in Italia dove, come è noto, in alcuni stabilimenti del Gruppo i lavoratori sono in cassa integrazione. Ad esempio, mentre, in Brasile, la Fiat è prima per quote di mercato, in Italia, ha solo il 30% del mercato. Ecco perché c’è bisogno di investimenti ed ecco perché abbiamo accettato la sfida di Pomigliano. Quando le aziende vanno male, quando si distrugge ricchezza, i primi a rimetterci sono i lavoratori. Lo ribadisco: la nostra non è stata una concessione, come qualcuno ha detto, ma una rivendicazione.

Cambiamo argomento. Proprio mentre andiamo in stampa, al Consiglio dei Ministri è stato presentato il piano Triennale per il lavoro. Ora dovrà iniziare un percorso per la sua applicazione. Ma qual è il tuo primo giudizio?

Il Piano Triennale per il Lavoro merita apprezzamento. Accoglie le nostre rivendicazioni in materia di detassazione del salario aziendale e prospetta uno Statuto dei Lavori che, come Uil, avevamo sollecitato a tutela dei lavoratori più deboli e meno garantiti.Valorizzare il lavoro favorendo la remunerazione della produttività, da un lato, e modernizzare regole e tutele per l’occupazione, dall’altro, sono due obiettivi che possono segnare una svolta nelle politiche del lavoro ma che possono anche dare un contributo alle politiche di rilancio dell’economia.L’applicazione del Piano presuppone un ruolo fondamentale di Sindacati e parti sociali che, nel corso dei prossimi mesi, saranno impegnate nella sua implementazione e nella definizione dei suoi aspetti attuativi.

Un’ultima brevissima domanda: hai incontrato l’Ambasciatore americano. Avete parlato anche di industria dell’auto?

Ho incontrato l’Ambasciatore americano, David Thorne. E’ stato un colloquio informale molto interessante sui temi dell’attualità economica e sociale, anche a partire dalle vicende dell’industria automobilistica.

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