UIL: Lavoro Italiano | Novità nel sito
Il nostro indirizzo e tutte le informazioni per contattarci
Google

In questo numero

In questo numero
GIUGNO 2015

LAVORO ITALIANO

Direttore Responsabile
Antonio Foccillo

Direzione e Amministrazione
Via Lucullo, 6 - 00187 Roma
Telefono 06.47.53.1
Fax 06.47.53.208
e-mail lavoroitaliano@uil.it

Sede Legale
Via dei Monti Parioli, 6
00197 Roma

Ufficio Abbonamenti
06.47.53.386

Edizioni Lavoro Italiano
Autorizzazione del Tribunale
di Roma n.° 402 del 16.11.1984

Il numero scorso

In questo numero
MAGGIO 2015

Altri numeri disponibili

SOMMARIO

Il Fatto
La crisi della legittimità del sistema di rappresentanza - di A. Foccillo

Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale UIL
Il 2015 deve essere l’anno dei contratti - di Antonio Passaro

Sindacale
Barbagallo: la politica dell’austerità sta facendo allontanare i popoli dell’Europa. Le relazioni sindacali devono tornare ad essere un valore aggiunto indispensabile alla crescita del paese ed al suo equilibrato sviluppo - di T. Bocchi
Modificare la Legge Fornero sulle pensioni. Le proposte della UIL - di D. Proietti
Riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e del servizio civile universale - A cura del Servizio Confederale UIL Nuovo Welfare
Una grande alleanza fra lavoratori e cittadini - di A. Foccillo
È importante proseguire la mobilitazione a tutto campo sui punti qualificanti della piattaforma unitaria dei pensionati - di R. Bellissima
Contrattazione pubblico impiego allo start: la Uil Rua é pronta! - di S. Ostrica
C’è una crisi salariale dovuta a ritardi pesanti nella contrattazione e a fattori perversi di mancato rispetto delle regole - di C. Tarlazzi
Nel nostro Paese i dipendenti pubblici stanno pagando a caro prezzo la crisi economica - di N. Turco
Approvare una legge che vede tutti contrari, con continui cambiamenti di orientamento e di umore può solo fare male alla scuola che avrebbe bisogno di essere sostenuta e valorizzata - di P. Proietti

Economia
Deludente il Rapporto 2015 dei cinque Presidenti - di V. Russo
Infrastrutture: Un Paese che non investe più… - di G. C. Serafini

Agorà
Senza memoria non c’è storia! - di G. Longo
1° maggio 2015 - la solidarietà fa la differenza - di M. Tarasconi
Taranto (ri)parte dalla cultura - il “Paisiello”…patrimonio da preservare. Statizzare per continuare una storia lunga novant’anni - di G. Turi

La Commemorazione
La lezione politica e morale di Giacomo Matteotti - di P. Nenci

Inserto
Cento anni fa quando il Piave mormorò - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

La crisi della legittimità del sistema di rappresentanza

di Antonio Foccillo

Oggi purtroppo, il sistema di rappresentanza sta attraversando una crisi di legittimità, che si esprime nell’astensione elettorale, nell’apatia e nella non partecipazione politico-sociale che è sintomo di un totale rifiuto politico e mancanza di fiducia in tutta la classe politica, che viene progressivamente delegittimata dal crescente aumento dell’astensione dal voto. Tutto ciò è dovuto a molte cause, compresa la strategia di reprimere la partecipazione dei vari soggetti della democrazia, che non sono più ritenuti portatori di interessi diffusi ma vere e proprie palle al piede che frenano le scelte le decisioni dell’uomo solo al comando. Bisogna reagire per ricostruire l’autorevolezza e la legittimazione della rappresentanza quale strumento della democrazia partecipata e ristabilire le connessioni della società alle istituzioni, in assenza delle quali la convivenza civile viene meno e una comunità politica si sfalda.

Tutto ciò è da fare nonostante che le azioni di una parte rilevante del ceto politico italiano giustifichi le ragioni dell’antipolitica; la qualità della rappresentanza politica sia profondamente degradata e questo processo degenerativo non abbia trovato nelle élites anticorpi adeguati, bensì spesso collusioni interessate.

Tutti sintomi che sembrano preparare l’eclissi della democrazia stessa, che prelude non un ad un vero e profondo cambiamento, ma a possibili fuoriuscite autoritarie dalla crisi con nuove deleghe in bianco alla tecnocrazia o al populismo.

L’impotenza della politica alimenta giudizi generici e sommari, suggestioni antipolitiche che producono un avvitamento fatale, frutto di quella privatizzazione della politica che – con i suoi episodi eclatanti di corruzione, di uso personale dei partiti e delle funzioni pubbliche – è conseguenza del più generale processo di privatizzazione che ha reso subalterna la politica all’economia, secondo l’assunto che la politica non serve o al massimo deve assicurare il consenso a decisioni prese dai grandi poteri finanziari, obbedendo alla libertà dei mercati.

L’alternativa proposta a questa crisi di legittimità, che prescinde dall’analizzarne le ragioni strutturali e le conseguenze pericolose, è ridurre il peso della rappresentanza sostituendo alla politica la tecnica, come se questa fosse neutra e di per sé legittima.

L’evoluzione o meglio l’involuzione della politica rappresentativa ha inizio dai partiti di massa che, dal sistema di contatto strutturato con la propria base elettorale di cui percepivano velocemente le necessità e ne elaboravano soluzioni e strategie politiche, sono passati a privilegiare progressivamente l’esclusivo interesse personale - che ha prodotto casi di corruzione sempre più evidente, provocando la crisi del sistema, che dopo tangentopoli sembrava fossero stati spazzati via, ma che oggi sono venuti fuori con più virulenza.

La politica nel rinnovarsi (purtroppo non in meglio) ha compiuto il passaggio dalla leadership delle ideologie alla leadership del leader, sempre più mediatizzata e ridotta a slogan. Si è passati dalle ideologie all’imbonitore televisivo.

Tant’è che alcuni studiosi come Colin Crouch hanno cominciato a parlare di post-democrazia e di dittatura dei media, che avrebbero condizionato sempre più le intenzioni di voto del popolo sovrano, per evidenziare il percorso che avrebbe portato i sistemi democratici lontano dagli obiettivi della democrazia. La riduzione o l’annullamento del finanziamento pubblico ai partiti di fatto ha privatizzato il finanziamento della politica, mentre occorrerebbe porre argini forti all’influenza diretta o indiretta della ricchezza e ai conflitti di interesse, senza confidare eccessivamente in authorities e regolatori, le cui condizioni di indipendenza andrebbero sempre verificate e in particolare in Italia ricostruite dalle fondamenta. Dove più pesa il denaro nelle scelte politiche i partiti sono stati ridotti di fatto a comitati elettorali e collettori di raccolta-fondi ed il peso delle lobbies e dei loro finanziamenti agli eletti è tale da rendere quasi impossibili scelte politiche fatte nell’interesse esclusivo della collettività. I fenomeni di corruzione, strapotere della finanza sono strutturali e hanno ridotto la credibilità del sistema.

Comunque da tutte le varie analisi ne traiamo la conclusione che bisogna combattere la concezione patrimoniale della politica perché è funzionale esclusivamente all’egemonia neoliberista.

Il presupposto è una ricostruzione culturale e sociale della qualità della politica, partendo da una radicale messa in discussione della infezione ideologica “privatistica” che ha dominato, anche a Sinistra, l’ultimo ventennio.

Non è affatto facile confrontarsi sul problema drammatico dell’estinzione del discorso pubblico, soppiantato dalle simulazioni di una politica ridotta a reality, relegando i cittadini al ruolo passivo di spettatori, cui è consentito – ogni tanto - solo l’applauso o il fischio, il che ha fatto regredire la partecipazione a tifo da stadio. In aggiunta la “deriva leaderistica” ha concorso pesantemente a rafforzare questa espropriazione del diritto di poter partecipare alle decisioni collettive, autonomamente e criticamente, producendo crescenti fenomeni di rigetto nei confronti di “questa” politica, misurabile nell’aumento esponenziale del non-voto, o di movimenti anticasta la cui identità viene mistificata parlandone in termini di “antipolitica”. L’assenteismo viene considerato un banale raffreddamento della passione proprio da parte dei protagonisti della politica-reality; mentre tale fenomeno è la più radicale contestazione dell’esproprio di un bene prezioso quale la democrazia.

Tralasciando di fare discorsi sulla perdita dei valori, sul decadimento della morale sulla fine di quei sentimenti di collaborazione e di solidarietà sociale cercheremo di descrivere le nuove esperienze circa la rappresentanza, che, è bene premetterlo, essendo uno strumento non è presentato né deve essere percepito come soluzione della crisi politica.

Nella realtà sociale che, non completamente succube degli addomesticamenti dei mass media, ancora si interessa di politica emerge la necessità di una profonda riscrittura dei Patti Sociali e dunque dell’Alleanza Costituzionale, attraverso la più ampia partecipazione dei cittadini.

Il superamento dell’esperienza di democrazia partecipativa nasce dalla consapevolezza che la rivoluzione tecno-scientifica, quella degli strumenti di comunicazione e la loro velocità hanno radicalmente annullato le distanze rendendo definitivamente obsolete le “ritualità democratiche” fino a svuotare di fatto i Parlamenti della loro funzione centrale, cioè, rappresentare mediare e decidere.

Le regole classiche della democrazia, che esigono il dialogo, la consultazione, l’accordo dentro e con le minoranze, il riconoscimento e la tutela effettiva dei diritti umani, che spettano a ogni essere umano, indipendentemente dalla nazionalità e dalla cittadinanza, l’allineamento alle libertà storiche delle democrazie, cioè ai diritti civili e politici, dei sopravvenuti diritti sociali e dei sopravvenienti diritti culturali possono giovare a cercare una risultante pacifica e ordinata delle attuali società.

Purtroppo oggi l’opinione pubblica e quindi la coscienza civile è presa da problemi quotidiani e da interessi individuali, senza nessuna strategia e succube del particolare, e guarda con indifferenza e insofferenza a questi problemi, considerati generali, estranei dalla loro sfera di interessi. Così si è trasformata anche la cultura dominante non più interessata a battaglie per rendere la società più giusta, più coesa e solidale e quindi parole come globalizzazione, deregulation, mercato, competizione sono diventati slogan che hanno fatto da schermo ideologico alla delocalizzazione nei Paesi del terzo mondo di gran parte dell’apparato produttivo, alla marginalizzazione dello Stato, della politica e del ruolo del “cittadino”. La rivoluzione ideologica conservatrice, attraverso la delocalizzazione delle imprese che in tal modo potevano disporre di manodopera a prezzi stracciati, è riuscita rapidamente a svuotare la dignità del cittadino ed in particolare nella sua veste di lavoratore, ponendolo in diretta concorrenza per il posto di lavoro con il lavoratore senza tutele (suddito-schiavo) del Terzo Mondo. I suoi valori cardine, espressione del popolo sovrano, ovvero il principio di libertà, di indipendenza e il principio di uguaglianza (posta a difesa della sua pari dignità) sono diventati privi di interesse e subordinati al “mercato”.

Il principio generale di libertà è stato interamente assorbito dal principio di libertà economica, che è stato assunto a modello ideologico generale di tutta la società. Ne è nata una crisi, la più devastante e lunga nella storia dell’occidente. Le ragioni di tale crisi non sono poi così misteriose: mancano investimenti nella produzione che rilancino la base occupazionale e risanino la bilancia commerciale, ma questo è reso impossibile dall’attuale modo di funzionare dell’economia che spinge verso un crescente impiego finanziario di ogni dollaro o euro. Per invertire la rotta occorrerebbe una drastica riforma regolamentatrice della finanza, che non si è in grado neanche di tentarla perché il potere economico ha sempre contato in politica, mirando a condizionarne le decisioni.

Tutto genera come conseguenza una sorta di impotenza del cittadino e vi sono allarmanti segnali che preconizzano una conseguente riduzione delle democrazie: la scarsa partecipazione alla vita pubblica e politica dei cittadini, in tutta Europa; il ritirarsi nel privato ed una crescente sfiducia nella classe politica; una tendenziale e percepita perdita dei valori che accomunano i cittadini in una società; la perdita finanche delle regole pacifiche della convivenza sociale e di una educazione politica che induceva i consociati a sentirsi parte di una nazione, corpo di una società. E poi, non ultimo, la crisi dell’economia che fatica a trovare il suo regime di crescita in una società in cui il lavoro umano è considerato un’attività sempre meno indispensabile.

La democrazia rappresentativa è diventata una commedia il cui atto culminante sono le elezioni. Lo è tanto più oggi che, dopo la caduta del comunismo, tutti i partiti, a parte qualche eccezione senza rilievo, hanno accettato quel libero mercato che, insieme al modello industriale, è il meccanismo reale che detta le condizioni della nostra esistenza, i nostri stili e ritmi di vita e di cui la democrazia è solo l’involucro legittimante. Le antiche categorie di destra e sinistra non hanno più senso. Non esistono più le classi, ma un enorme ceto medio indifferenziato che ha, più o meno, gli stessi interessi. Stiamo vivendo una stagione di cambiamenti spesso contrari agli interessi dei cittadini e la loro scarsa partecipazione al voto, ancora una volta, dimostra come siano inadeguati. Troppa distanza, per non dire altro, fra chi decide e chi ne subisce le conseguenze.

In questo contesto di smarrimento e di impotenza dell’uomo a stabilire regole di convivenza adeguate alla realtà come si è configurata in questi ultimi decenni, riteniamo sia opportuno richiamare gli insegnamenti passati il cui valore intrinseco resta sempre valido. Va ripristinato un metodo laico e riformista del vedere la politica ed una centralità della persona nelle scelte economiche, riaffermando il metodo del confronto e della democrazia rappresentativa che quella cultura aveva portato cinquant’anni di Pace in Europa e di benessere sul piano economico e sociale. Due erano gli aspetti della battaglia politica che accompagnavano i valori di libertà e di uguaglianza ed erano solidarietà e coesione. Lo stato sociale e le conseguenti scelte di politica economica ne erano l‘espressione, non solo in Italia ma in tutta l’Europa democratica. Noi che veniamo da quella filosofia abbiamo rappresentato una concezione di sindacato laico, riformista e sempre pronto al dialogo. Siamo altrettanto convinti, anche oggi, che nel rispetto delle opinioni di tutti, il pluralismo è il sale della democrazia, e solo l’esistenza di relazioni anche contrapposte dove ogni soggetto svolge la sua funzione alimenta e dà forza alla democrazia. La Uil nella sua vita, a partire dai suoi padri costituenti, è sempre stata per il rinnovamento in una prospettiva di progresso e nella consapevolezza che ciò debba avvenire attraverso la partecipazione ed il confronto costante per tutelare prima i cittadini e poi i lavoratori. Questo è lo spirito che ci ha sempre accompagnato e sempre ci accompagnerà. Questo è il nostro Dna. Dobbiamo svolgere la funzione conseguente di ripristino di questa cultura, riaffermando una nuova concezione di ricostruzione dei valori per dare vita ad una opinione pubblica che abbia di nuovo la voglia di riprendersi gli spazi partecipativi e ridare fiato a regole di una società diversa nella quale comunque si possa realizzare sempre più democrazia.

Separatore

Il 2015 deve essere l’anno dei contratti. Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil

di Antonio Passaro

Carmelo, il mese di giugno è contrassegnato da un’altra importantissima sentenza della Corte costituzionale, dopo quella sulle pensioni di qualche settimana fa. La Consulta ha deciso: il blocco dei contratti nel pubblico impiego è illegittimo. Cosa succede ora?

Il Governo ci deve convocare immediatamente per rinnovare i contratti di tutti i lavoratori del settore: non c’è da aspettare un minuto in più degli anni che abbiamo già perso. Certamente il nostro Presidente del Consiglio e la ministra Madia saranno pronti a rispettare la sentenza e a procedere conseguentemente: se così non fosse, saremmo di fronte a un atto gravissimo contro il quale non resteremmo a braccia conserte. Inoltre, il fatto che il blocco non sia stato considerato illegittimo per il passato non ci impedisce di rivendicare il “maltolto” in sede di trattativa sindacale. E’ un diritto che vogliamo e dobbiamo esercitare, nelle forme e nei modi che potranno scaturire dal confronto, per restituire ai lavoratori del pubblico impiego il potere d’acquisto perduto in questi anni.

Intanto, in altri settori qualcosa si muove. Ci sono delle novità proprio mentre stiamo andando in stampa...

Si è vero. È stato firmato un altro rinnovo contrattuale: dopo quatto anni e mezzo di attesa, sono i 65 mila addetti del settore marittimo ad aver finalmente conseguito questo risultato positivo. Contemporaneamente, le categorie dei chimici hanno varato la piattaforma unitaria sulla cui base avviare la trattativa per il rinnovo del loro contratto: l’auspicio è che si possa giungere a una conclusione in tempi brevi. Sono tutti fatti che lasciano ben sperare. La strada, insomma, sembra tracciata e l’impegno assunto dalla Uil sta producendo i suoi frutti: il 2015 deve essere l’anno dei contratti. Affinché recuperino il loro potere d’acquisto, questo percorso deve essere compiuto da tutti i lavoratori, compresi quelli del pubblico impiego che continuano ad avere il peggior datore di lavoro. Ora, però, dopo la pronuncia della Consulta non ci sono più alibi anche perché i lavoratori stanno esaurendo la loro pazienza.

Intanto, da un lato, la Confindustria e, dall’altro, la Cisl danno segnali di disponibilità ad affrontare la riforma del sistema contrattuale. Come valuti queste prime aperture?

Vediamo, con piacere, che c’è chi si va convincendo della necessità di porre mano a una riforma del sistema contrattuale. Sono mesi che la Uil ha approntato una proposta dettagliata e articolata che può rappresentare una base per avviare la discussione e che, ad ogni buon conto, siamo pronti a modificare sulla base di un confronto tra le parti. Abbiamo anche chiesto una detassazione strutturale della contrattazione di secondo livello, ma il Governo continua a essere disattento. Noi vogliamo scommettere sullo sviluppo e riteniamo che sia necessario accrescere la competitività del Paese, perché questo sarebbe un vantaggio per i lavoratori e per l’occupazione. Mentre, però, in America si investono mille miliardi all’anno in infrastrutture, innovazione, ricerca, cultura e si punta all’industria 4.0, in Italia siamo all’anno zero. La Uil con la sua proposta di modifica del sistema contrattuale vuole dare un proprio contributo nella direzione della crescita. Ribadisco, comunque, che per noi resta fermo l’impegno prioritario di rinnovare, entro la fine dell’anno, tutti i contratti già scaduti o in scadenza.

Anche sul fronte unitario si registrano alcuni passi avanti. La Camusso ha aperto formalmente al confronto che tu stesso stai sollecitando sin dal giorno della tua elezione. E anche la Furlan sembra disponibile ad avviare un ragionamento complessivo. Siamo sulla strada giusta?

Ho molto apprezzato le dichiarazioni di Susanna Camusso e di Annamaria Furlan sulla necessità di una rinnovata stagione unitaria: finalmente va maturando il clima giusto per inaugurare la saletta pronta da mesi al secondo piano della Uil, ristrutturata proprio per ospitare le riunioni delle Segreterie unitarie! Al di là di ogni rivendicazione di primogenitura, credo che sia giunto il tempo per avviare un confronto, definire posizioni comuni e perseguire gli obiettivi individuati su contratti, fisco e pensioni. Si tratta di traguardi importanti per i lavoratori, i pensionati e per l’economia del Paese che tre grandi Confederazioni, come Cgil, Cisl e Uil possono, insieme, raggiungere più facilmente e con maggiore efficacia.

Cambiamo argomento. Sempre nel mese di giugno, insieme a una delegazione organizzata dal Gruppo interparlamentare italo tedesco, hai incontrato, a Wolfsburg, i rappresentanti del sindacato, IG Metall, e hai visitato lo storico stabilimento della Volkswagen. È stata l’occasione anche per approfondire il modello di relazioni sindacali della Germania, richiamato da più parti. Che idea ti sei fatto di quel sistema? Si può applicare in Italia?

Tutti evocano e vogliono applicare il modello della Germania, ma ognuno lo vorrebbe solo per singole e limitate parti. Noi, invece, proponiamo che sia applicato nella sua interezza, a partire dalla partecipazione dei lavoratori alla vita e alle decisioni aziendali sino alla condivisione degli utili. In Italia stiamo provando a fare qualche passo avanti in questa direzione: il nuovo modello contrattuale che abbiamo proposto è centrato sulla crescita e punta a ridistribuire la ricchezza che si produce, sulla base della produttività e competitività.

Restiamo, ancora per un attimo, sui temi sindacali europei. Hai partecipato a Bruxelles alla riunione dell’Esecutivo della Ces, in vista del Congresso che la stessa Confederazione celebrerà nel prossimo autunno a Parigi e che dovrebbe portare all’elezione di Luca Visentini, ex dirigente Uil, al vertice del Sindacato europeo. Qual è il programma concordato e quale contributo può dare la Ces perché l’attuale politica economica europea possa essere modificata?

Abbiamo messo a punto alcune rivendicazioni comuni partendo dal presupposto che è necessario cambiare le politiche di austerità dell’Unione responsabili degli squilibri e dei divari che stanno caratterizzando il Vecchio Continente. Stiamo assistendo, in molti Paesi europei, a un forte attacco alla contrattazione da parte della Commissione e degli imprenditori: bisogna contrastare questa deriva perché solo con una forte contrattazione collettiva si può uscire dalla crisi. Noi, dunque, chiediamo che la Ces possa essere coinvolta nella governance economica e che i Sindacati nazionali, coordinati dalla stessa Ces, possano negoziare le raccomandazioni specifiche destinate ai singoli Paesi. Per quel che riguarda, infine, la zona euro, è necessario un coordinamento ancor più strutturato dei Sindacati di quest’area per puntare a un’armonizzazione delle politiche sociali e fiscali rispetto alle politiche economiche e monetarie dell’Eurozona. Nei prossimi anni, dunque, il ruolo del Sindacato europeo sarà fondamentale per rendere più efficace l’azione di tutela dei lavoratori e pensionati e per contrastare l’avanzata di un neoliberismo sempre più dirompente e invasivo.

Torniamo in Italia e affrontiamo l’altro tema su cui si è concentrata l’attenzione della cronaca sindacale, e non solo, di questi ultimi tempi: parliamo di scuola. Pur di far passare la riforma, il Premier ha posto la fiducia sul provvedimento. Come giudichi questo atto?

Ancora una volta, il Presidente del Consiglio ha voluto fare da solo e ha usato l’arma della fiducia per far passare la sua riforma della scuola. Così facendo, non ha accettato l’aiuto degli insegnanti, del personale Ata, delle famiglie, degli studenti né, tantomeno, degli esperti dei sindacati di categoria. Eppure il Premier aveva detto che avrebbe voluto parlare con tutti: è riuscito a smentire se stesso. Certo, ci saranno le assunzioni che abbiamo chiesto a gran voce, ma quando? come? e, soprattutto, a che prezzo? Ora utilizzerà proprio le assunzioni come foglia di fico per coprire le vergogne di una riforma sgangherata di cui nessuno sentiva la necessità e della quale non c’era alcun bisogno per dare stabilità ai precari, anch’essi, peraltro, preoccupati di restarne succubi. Tutto ciò senza contare che questo provvedimento, in alcune sue norme, di fatto, dà un’ennesima picconata ai diritti contrattuali, a danno di tutti i lavoratori del settore, proprio mentre la Consulta ha sentenziato il principio dell’illegittimità del blocco contrattuale. Il Governo deve aprire immediatamente il tavolo delle trattative per il rinnovo dei contratti: in quella sede rivendicheremo anche il ripristino di quei diritti. Questa riforma, dunque, è inapplicabile e resterà inattuata. È rimandata a settembre, quando sarà tempo di fare i conti.

La UILP ha commissionato, di recente, un’indagine sul ruolo dei pensionati nel nostro Paese: ne è emerso che, nonostante siano rappresentati come un peso e un costo, i pensionati sono e possono diventare ancor di più una risorsa. È esattamente ciò che tu stesso sostieni da tempo...

Si è vero: io credo che i pensionati siano, in realtà, una sorta di “ammortizzatore sociale”, perché quando c’è un disoccupato, un cassaintegrato, un esodato, un giovane in cerca di occupazione, senza un pensionato in casa non si riesce a tirare avanti. Questo principio, però, non sembra condiviso da tutti. Infatti, invece di aiutarli dando loro gli 80 euro, adeguando le pensioni, restituendo il “maltolto” secondo quanto stabilito dalla Consulta, i pensionati vengono penalizzati, se non addirittura criminalizzati. E’ appena il caso di ricordare che le pensioni sono pagate con i contributi dei lavoratori e delle imprese ed è lo Stato, dunque, anche grazie alla riforma Fornero, che sottrarrà 80 miliardi ai pensionandi e pensionati nell’arco di un decennio. Ora che – grazie alla sentenza della Corte Costituzionale - devono essere restituiti 18 miliardi, ci dicono che sono troppi: quando li hanno presi, ci dicevano che erano pochi.

Un’ultima riflessione la riserviamo a una vicenda che ha visto impegnati sindacato e lavoratori nella difesa di un sito produttivo strategico per il nostro Mezzogiorno e per il Paese: finalmente è stato raggiunto un accordo con la Whirlpool. La notizia è appena giunta. Qual è il tuo primo commento a caldo?

La lotta dei lavoratori ha pagato: lo stabilimento di Carinaro è salvo e il futuro della Whirlpool non è più così buio come appariva solo pochi mesi fa. Abbiamo sfiorato un dramma sociale dalle conseguenze preoccupanti. Oggi possiamo dire che l’impegno e i sacrifici dei lavoratori e la determinazione del Sindacato hanno permesso di ribaltare una situazione che sembrava irrecuperabile. Era vitale difendere quei siti produttivi e dare garanzie forti in termini di tutela del reddito: ci siamo riusciti. Certo, su Carinaro avremmo voluto che si conservasse un numero più alto di posti di lavoro: in ogni caso, nessuno sarà licenziato e nessuno sarà lasciato senza un’adeguata tutela. Il Sindacato e – ne siamo certi – anche i lavoratori hanno la consapevolezza di dover affrontare un percorso articolato, necessario a rilanciare occupazione e progetto industriale. In questa vicenda c’è, comunque, un insegnamento: l’economia del Paese si salva e si sviluppa non sulla base delle individualità e dell’uomo solo al comando, ma puntando sulla condivisione e sul coinvolgimento delle parti sociali e del mondo del lavoro.

Valid XHTML 1.0 Transitional Valid CSS! [Valid RSS]