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GIUGNO 2013

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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MAGGIO 2013

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SOMMARIO

Il Fatto
Quante responsabilità affida al sindacato il nuovo percorso unitario - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti Segretario Generale UIL Se vogliamo salvare gli italiani il lavoro deve tornare al centro delle politiche economiche del nostro Paese - di A. Passaro

Sindacale
Rinnovo dei contratti: il tempo è scaduto! - di B. Attilli
Una vasta campagna di mobilitazione per tutti i cittadini dell’Unione non autosufficienti e disabili, di ogni età - di R. Bellissima
Rinnovi contrattuali dei settori pubblici della conoscenza: ma anche sì e...perchè sì! - di A. Civica
Trattare i lavoratori come sudditi non porta lontano - di M. Di Menna
Rappresentanza: cauti nel rapporto con la Fiom! - di R. Palombella
Senza una radicale svolta industriale, strategica e commerciale, Alitalia rischia di non avere un futuro - di C. Tarlazzi
P.A. no a ulteriore blocco contratti. Investire su contrattazione decentrata e lotta agli sprechi - di G. Torluccio
Invertire la rotta e rilanciare le costruzioni per far ripartire l’economia - di M. Trinci
Ilva Atto IV - Immediata la risposta del Governo alle conclamate inadempienze dell’ILVA sull’AIA - di G. Turi
Immigrazione, cala anche l’occupazione etnica e gli immigrati se ne vanno - di G. Casucci
Diniego politico alla contrattazione nel pubblico impiego - di G. Paletta
Il lavoro e dintorni - di G. Salvarani

Economia
L’opera più contestata d’Italia: TAV la linea ad alta velocità Torino-Lione - di G. C. Serafini
Il turismo sociale volano per lo sviluppo e l’occupazione - di S. Fortino

Attualità
E chiamale, se vuoi emozioni - di C. Benevento

Il Corsivo Frammenti estivi - di P. Tusco

La Recensione
La Repubblica delle Api – A cura della redazione
C’eravamo tanto amati. Italia, Europa e poi? - di V. Russo

Agorà
Le banche popolari: una risorsa da valorizzare - di P. N.
In tempi difficili un matto può aiutare - di P. N.
Italia mia quanto sei diventata strana - di G. S.
I Presidenti della Repubblica: Carlo Azeglio Ciampi, il cittadino e il tecnico prestato alla politica - di P. N.

Inserto
Il mosaico Italia assemblato da Eurispes - di P. Nenci

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EDITORIALE

Quante responsabilità affida al sindacato il nuovo percorso unitario

Di Antonio Foccillo

Dopo dieci anni, il sindacato si è ripreso unitariamente la piazza. E che piazza! Festosa, colorata, ma anche orgogliosa e determinata. Sia nel gruppo dirigente sia nei partecipanti vi era la consapevolezza che si stavano determinando le condizioni che consentiranno il ruolo del sindacato nel futuro, perché si sa che il nuovo a cui bisognerà rivolgersi è già presente, non solo nelle strutture sociali ed economiche, ma già nei luoghi che si frequentano, nelle “ideologie” che attraversano le scelte economiche e sociali, nei valori che presiedono le attese. Non si tratta dunque di fare opera di divinazione per comprendere l’avvenire, si tratta invece di avere la capacità, propositiva e organizzativa, di assumere la realtà dei contenuti che essa presenta. E per realizzare questa capacità una condizione che è assolutamente imprescindibile e preliminare, è la necessità di rianimare il grado dialettico, conoscitivo e formativo dell’organizzazione di rappresentanza in generale. Per questo va attivata, a partire dalla manifestazione di sabato 22 Giugno, la quale non è che l’avvio di una nuova azione, una fluidificazione delle riflessioni politica, dei processi di coinvolgimento, per riaggregare gli scopi e gli interessi. Il sindacato da qui deve partire in quanto ha ritrovato una nuova fase di elaborazione unitaria.

Deve riaffermare un ruolo diverso e soprattutto propositivo dal punto di vista strategico e politico, non perché il passato di questi anni sia da rinnegare, ma proprio perché il senso del passato, la sua vitalità, risiede nel cambiamento che costantemente sostiene l’evoluzione. Ma l’evoluzione se vuole essere reale ed efficace, non può avvenire per inerzia, nel sospingersi lento di mentalità, culture e strutture che avanzano senza avere il coraggio di affrontarle con la volontà del cambiamento. Nel sindacato, in quest’ultimo periodo, sembrava essersi spenta e assopita la qualità e l’entusiasmo della dialettica politica e culturale, la prassi sindacale sembrava travolta dall’assuefazione della quotidianità, smarrita e demotivata. Per questo la nostra ripresa di unità d’azione rappresenta la sua apertura politica, l’ampio respiro strategico che può diventare. Bisogna ridare sostanza politica all’azione sindacale. Perché alla base delle decisioni che il sindacato dovrà assumere in merito alle proprie finalità strategiche, vi è la prioritaria condizione di saper rappresentare realmente i malcontenti sociali ed economici dei lavoratori.

E ciò significa porsi un’interrogazione esplicita e chiara sulla qualità e sulle caratteristiche con cui costituisce il consenso oggi, è evidente come i processi d’innovazione abbiano investito non solo le strutture produttive ed economiche ma anche le strutture e le dinamiche consensuali, al punto tale da presentarsi l’emergenza di una collettività che appare sfiduciata, demotivata, diffidente nei confronti dei soggetti istituzionali e non, che tradizionalmente ne hanno rappresentate le aspettative e le aspirazioni. Quel del consenso possibile è dunque il problema. Occorre rinnovare il ruolo del sindacato e i suoi comportamenti se si vuole, assolvere ancora il compito per il quale esiste. Compito che non è certo quello di rappresentare gruppi settoriali e marginali del mondo del lavoro, ma l’interesse generale. L’analisi per giungere ad una proposta non può considerare l’attualità storica. E questa mostra come sempre meno sia possibile dividere e distinguere nell’identità sociale del lavoratore la sua prestazione occupazionale e i legami che questa intrattiene con tutti gli altri gli altri ambiti esistenziali, quali l’assistenza sociale, le garanzie istituzionali, l’informazione e i mass media ma anche il sapere, la cultura. Allora la prospettiva politica che dovrà essere acquisita come referente è quella del lavoratore come soggetto integrale, come cittadino.

Non si tratta dunque di un processo semplicemente inteso ad allargare la quantità delle prestazioni che il sindacato dovrà saper offrire, ma più profondamente è un rinnovamento qualitativo di quello che deve realizzare. Occorre riqualificare la propria cultura, il proprio sapere, la propria capacità prospettica; la quantità delle prestazioni dovrà dunque reggersi sulla qualità della cultura che il sindacato saprà promuovere e realizzare. Non è sufficiente affiancarsi alle strutture istituzionali con un ruolo di protezione delle aspettative e dei bisogni, è necessario riscoprire il senso di una presenza del sindacato che sia di promozione delle scelte e dei contenuti che vengono a costituirsi.

Ciò significa investire il compito del sindacato di una professionalità politica ed ideologica, riconquistare così un ruolo di avanguardia storica. Da ciò bisogna saper riattualizzare gli strumenti tradizionali del sindacato e insieme introdurre nuovi strumenti. Sul piano economico, in Italia il problema del debito pubblico blocca qualsiasi strategia del rilancio economico. Sembra sia impossibile farlo calare senza strangolare l’economia e promuovere la competitività senza tagliare drasticamente nel sociale, nell’istruzione e nella ricerca. E’ quanto ci chiede l’Europa. Azzerare il deficit significa ridurre pian piano il debito, in anni ed anni di sacrifici e di forti “attivi primari”, con lo Stato che spende meno di quanto incassa e dove la popolazione fa forti sacrifici, ricevendo servizi inferiori alle tasse pagate. Questa strada sarebbe anche possibile teoricamente se non fosse realizzata con una montagna di tasse (che causano anche recessione ed involuzione economica) invece che riducendo massivamente la spesa improduttiva, gli enormi sprechi, la dilagante corruzione e limitando seriamente i costi della politica che ormai appaiono insostenibili a tutti i cittadini. Il sindacato, di fronte a ciò ha due ambiti di azione e di proposta: uno immeditato e interno, in cui deve rivendicare un nuovo modello di sviluppo, fondato sui diritti e la qualità sociale, un nuovo welfare fondato sulla giustizia e l’eguaglianza, politiche di solidarietà e di cooperazione internazionale.

Ciò perché la popolazione, ignorata dalla politica, avanza alcune priorità: arginare l’impoverimento sociale e la perdita di posti di lavoro, difendere il potere d’acquisto delle famiglie, dei lavoratori e dare reddito a disoccupati e a chi – come i pensionati a regimi modesti – si trova fuori dal mercato del lavoro. In sostanza il paese reale chiede alle forze politiche di rilanciare con fermezza la regia e la forza delle politiche pubbliche capaci di orientare i comportamenti e le proposte dei mercati, cose che il pareggio di bilancio inserito in Costituzione non consente di fare agevolmente. Inoltre chiede di riportare l’economia finanziaria al servizio dell’economia reale, innovare le produzioni e i consumi individuali e collettivi sulla base di un nuovo modello di sviluppo, di cui abbiamo sempre più bisogno. Il sindacato, quale forza di rappresentanza sociale, deve intervenire nel dibattito politico chiedendo, con forza, che la politica debba abbandonare le vecchie strade, mettere fine a privilegi e corporativismi, ridistribuire la ricchezza (perché questa è la vera condizione per crearne della nuova) e ridurre le diseguaglianze, ridare speranza ad un paese che altrimenti rischia di essere stritolato da una crisi che accentua le debolezze strutturali di un sistema economico e istituzionale da tempo in difficoltà. E’ necessario ripristinare un ruolo più incisivo dell’intervento pubblico capace di dare regole vere e rispettate ai mercati finanziari, di disegnare una vera politica industriale, di attivare meccanismi di incentivo e di stimolo dell’economia reale.

Infine, deve chiedere che sia rilanciata l’economia innanzitutto attraverso la promozione di adeguate politiche del lavoro quale fondamentale fattore del nuovo corso di politica economica che darebbe fiducia e riaccenderebbe nei giovani le speranze di poter programmare la loro vita futura. Programmare un piano nazionale di “piccole opere” che preveda una serie di interventi legati ai lavori pubblici nel campo energetico, della mobilità, del riassetto del territorio; un nuovo piano energetico nazionale che abbassi drasticamente le importazioni di energia elettrica anche attraverso impianti fotovoltaici e/o eolici; moltiplicare ed adeguare le linee ed i treni per i pendolari, all’interno di un più vasto progetto di mobilità sostenibile e che riguarda anche il potenziamento del trasporto pubblico locale nelle grandi città.

Non bisogna trascurare la messa in sicurezza delle 9mila scuole italiane che non rispettano le principali norme in materia. Questi interventi sostengono le imprese e creano posti di lavoro a cui si aggiungono un allargamento delle politiche di welfare, con interventi e servizi sociali mirati, permanenti e continuativi, come l’apertura di nuovi asili nido, di strutture di servizio su base territoriale a favore di disabili e anziani non autosufficienti, la realizzazione dei Livelli Minimi di Assistenza già previsti dalla legge 328 del 2000, la promozione del diritto allo studio (borse, alloggi, ecc.). Necessita anche sostenere il sistema delle imprese incentivandone l’innovazione e la ricerca, facilitandone l’accesso al credito, inoltre prevedendo interventi di defiscalizzazioni finalizzati al mantenimento dell’occupazione e alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro precario, alla promozione di patti territoriali per il sostegno al sistema locale delle imprese. Infine è urgente arginare il crescente impoverimento del paese e rilanciare la domanda interna con il sostegno al potere d’acquisto dei lavoratori, delle famiglie e dei disoccupati. Le risorse per queste politiche prevedono un inevitabile ricorrere all’indebitamento pubblico, seppure di minima entità, al quale hanno fatto ricorso anche altri paesi (Giappone e Stati Uniti), perché, in una fase di crisi è indispensabile un uso straordinario e incisivo della spesa pubblica per impedire l’impoverimento sociale ed economico, la distruzione di parte del sistema delle imprese e delle attività economiche, favorendo il rilancio della produzione e della domanda interna.

Altre più sostanziose risorse possono essere recuperate attraverso la politica fiscale e con risparmi mirati nella spesa pubblica soprattutto relative ai costi della politica. Accentuare poi la lotta all’evasione fiscale e favorire politiche di giustizia fiscale. La seconda linea di intervento del sindacato è quella strategica ed esterna, nella quale vanno affrontate le questioni Europee con un altro piglio e con altra forza. L’Europa sta affrontando la peggiore crisi della sua storia la cui soluzione è ancora molto lontana. Ma se è vero – come si sente dire - che per uscire dalla crisi abbiamo bisogno di più Europa, è altrettanto vero che ci deve essere stato un errore fondamentale nella costruzione del progetto europeo. Quanto alla realtà quotidiana: distruzione di ricchezza, impoverimento, attacco al mondo del lavoro, tensioni sociali, crisi del debito, rischio di implosione dello spazio europeo, sono gli effetti odierni della lunga crisi iniziata nel mondo anglo americano nel 2007 e sull’altare dell’emergenza si sta rischiando di immolare la democrazia europea, dove la chiusura dello spazio per una vera democrazia compiuto con la costituzionalizzazione dell’austerità, blocca qualunque proposizione di modelli economici, sociali e politici alternativi. Così tutti noi siamo diventati spettatori inermi di una rivoluzione dall’alto che, facendo svanire concretamente la sovranità del popolo, ha innestato la crisi della democrazia che stiamo vivendo. Con il Fiscal Compact, poi, tutti gli Stati si impegnano nella riduzione del debito al 60% del PIL in misura di un ventesimo l’anno e non desta nessun dubbio sulla sua democraticità il fatto che impegna qualunque governo di qualsiasi orientamento politico, democraticamente eletto.

E’ chiaro quindi che le istituzioni sovranazionali hanno ormai il potere di guidare metodi e obiettivi dell’azione politica all’interno dei singoli Stati membri dell’Unione, fino a poterne riscrivere le manovre finanziarie, cambiarne la Costituzione e sanzionare i Paesi inadempienti. Siamo quindi giunti alla costituzionalizzazione di una dottrina economica di parte i cui fondamenti sono il pareggio di bilancio, l’esclusione dello Stato dall’economia, l’idea mistica delle privatizzazioni e l’assoluto divieto di ricorrere al debito come strumento di sviluppo. Tutto ciò sfacciatamente ignorando che la democrazia è basata sulla normalizzazione del conflitto fra le parti e sull’apertura alla cittadinanza del dibattito circa il percorso da intraprendere. Con il Fiscal Compact questo spazio di discussione e di alternativa ha cessato e continua a cessare di esistere. Bisogna accettare passivamente questa situazione? I sindacati, rimasti a lottare su scala nazionale contro sempre più stringenti e inappellabili “raccomandazioni” europee che vedono nell’abbassamento dei salari e nella precarizzazione dell’occupazione l’unico metodo per recuperare competitività; che rendono fatue le lotte dei movimenti per i beni comuni, costringendo gli Stati a svendere infrastrutture e servizi pur di abbattere il debito e garantire la libera concorrenza secondo le logiche vigenti del mercato unico; che fanno apparire irreali, dinanzi alla necessità di ridurre di oltre 40 miliardi l’anno le spese statali per obbedire al Fiscal Compact, le rivendicazioni di quanti chiedono un maggiore investimento nell’istruzione, nelle politiche sociali, nella conversione industriale e nella salvaguardia del territorio.

Infine lega le mani ai partiti e alle loro politiche, ma soprattutto priva la cittadinanza della possibilità di definire il proprio futuro collettivo giudicando autonomamente fra diverse rappresentazioni della realtà e diverse risposte politiche alla crisi. Sembra ormai che non ci sia più spazio alla sovranità nazionale come strumento per restituire alla cittadinanza la sovranità che gli appartiene ed, infatti, i tentativi “riformisti” di governare la transizione europea a livello nazionale collassano inevitabilmente in una obbedienza al pensiero economico unico e le differenze fra schieramenti si limitano a un’adesione più o meno “sentita” e una leggerissima rimodulazione della ripartizione dei costi delle “riforme necessarie”. Bisogna rivendicare, per cambiare profondamente queste strategie un’Europa politica perché solo nella costruzione di un vero processo costituente europeo guidato dal basso e capace di accettare cessioni della sovranità nazionale e di utilizzare questo processo per restituire ai cittadini la possibilità di decidere il proprio futuro vi è la possibilità di uscire dalla crisi nel segno della democrazia e della giustizia sociale.

Il rischio di collasso della coesione sociale e di rivolte sempre più radicali della cittadinanza contro le decisioni politiche aumenta nella misura in cui queste decisioni sono percepite come esterne al processo democratico e come costrizioni imposte da poteri distanti e tecnocratici. Una spolverata di legittimità, quindi, arriverebbe con una proposta di Convenzione per la riforma dei trattati, che è la soluzione migliore per la continuazione senza cambiamenti, usando la parvenza di legittimità di una Convenzione per costituzionalizzare in una nuova architettura europea. Vi deve essere una concreta partecipazione dei cittadini in l’Europa, eleggendo un governo. Dicono in molti che l’Europa non imploderà, lasciando dietro a se un tracciato di rimpianti, miseria e macerie pronte ad essere svendute al primo offerente, perché l’Europa ha una grandissima forza, che è la forza di una cittadinanza capace, vigile e indisposta a farsi trascinare nel baratro.

Il fatto è che l’Europa pur essendo un’unità culturale e storica che duemila anni di guerre non sono riusciti a spezzare, pur essendo una civiltà che ha saputo mantenersi vitale attraverso i millenni, pur essendo diventata un valore universale purtroppo non è ancora riuscita a diventare una realtà politica e non siamo sicuri che riuscirà a diventarlo. C’è chi ha frenato e continua a frenare la realizzazione dell’unità europea e continua a volere un determinato tipo d’Europa, ingabbiata in una moltitudine di vincoli, mutilata non solo geograficamente, ma sotto tutti gli aspetti. In sintesi importa la vocazione all’Europa, non quella dei mercanti, della finanza e delle multinazionali, bensì l’Europa della cultura, delle arti, delle lettere, della scienza, della tecnologia, della civiltà, delle pari opportunità, della crescita, dello sviluppo, del modello di welfare e della democrazia.

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Se vogliamo salvare gli italiani il lavoro deve tornare al centro delle politiche economiche del nostro Paese. Intervista a Luigi Angeletti Segretario Generale UIL

di Antonio Passaro

Angeletti, la palma dell’avvenimento principe del mese di giugno spetta certamente alla manifestazione del 22 giugno: dopo dieci anni, Cgil, Cisl, Uil sono tornate, insieme, nella mitica Piazza San Giovanni affrontando una questione, per così dire, “generalista”. In sintesi, qual è stato il senso dell’iniziativa?

Quella del 22 giugno è stata una bella manifestazione, molto partecipata e credo che abbia rappresentato l’inizio di una svolta. Siamo in una fase di grave crisi e l’economia reale rischia di affondare, trascinando con sé imprese e lavoratori. Se vogliamo salvare gli italiani, dunque, il lavoro deve tornare al centro delle politiche economiche del nostro Paese. Questo è stato il senso e l’obiettivo della nostra mobilitazione.

Per anni è prevalsa l’illusione che sarebbe stato possibile “fare soldi con i soldi”. Da questo sogno ci siamo risvegliati tutti più poveri, con la conseguenza che si è svilito il valore del lavoro. Quanto ha pesato il contesto europeo sulla crisi italiana?

Ha avuto un suo peso se si considera che quantità e circolazione della moneta non sono più leve di cui disponiamo. E quando c’è una sola moneta, la flessibilità si scarica sul lavoro con i noti e drammatici effetti occupazionali. Va detto, però, che la crisi economica ha colpito, in particolare, il nostro Paese già gravato dai suoi deficit strutturali: basti pensare solo al tasso di produttività che è tra i più bassi in Europa. Per non parlare, poi, sia dei livelli di evasione fiscale, di gran lunga superiori ad una soglia fisiologica già difficile da tollerare, sia dei costi di funzionamento della politica, così elevati da essere deleteri per la gestione del bene pubblico. Tutte queste disfunzioni e queste incongruenze non ce le possiamo più permettere.

Il problema resta quello del controllo e della riduzione della spesa pubblica. Su quali voci si potrebbe intervenire?

Non è più sostenibile, ad esempio, l’esistenza di migliaia di società di servizio pubblico locale che, invece, dovrebbero essere opportunamente accorpate. Così come non è più accettabile la compresenza di troppi livelli decisionali che rallenta o blocca ogni scelta e, dunque, ogni possibilità di sviluppo. Bisogna aggredire la spesa improduttiva con provvedimenti mirati. Oggi, il complesso delle voci di spesa pubblica ammonta a circa 800 miliardi di euro: è incredibile che non si riescano ad effettuare tagli anche solo del 2-3%.

L’altro fronte su cui agire é quello fiscale…

Sicuramente. I lavoratori dipendenti e i pensionati percepiscono circa la metà della ricchezza nazionale e pagano più dell’80 per cento delle tasse; l’altra metà della ricchezza è appannaggio di altri soggetti che, invece, pagano il restante 20 per cento delle tasse. Il sistema fiscale nel nostro Paese, dunque, ha funzionato al contrario ridistribuendo le risorse dai poveri ai ricchi. Se a ciò si aggiungono i provvedimenti sulle pensioni, con cui si sono sottratti 20 miliardi di euro a pensionati e pensionandi, il blocco dei contratti e quello del turnover nel pubblico impiego, si comprende come e perché ci sia stato un crollo della domanda interna e, conseguentemente, una perdita di circa 500mila posti di lavoro nel primo trimestre 2013 rispetto al corrispondente trimestre del 2012. Peraltro, nel corso degli ultimi cinque anni, la disoccupazione è aumentata dal 7 al 12% e la base industriale si è ridotta del 15%. Tutto ciò ha generato una preoccupante riduzione della liquidità. Ecco perché bisogna intervenire subito per scongiurare il rischio di un’irreversibilità degli effetti pauperistici della crisi.

Anche nel tuo comizio a Piazza San Giovanni hai sottolineato la necessità di fare interventi che incidano sulla redistribuzione della ricchezza. La riduzione delle tasse sul lavoro rientra in questa logica?

E’ del tutto evidente che sia così e che questa sia la strada per riattivare i consumi interni e frenare l’emorragia occupazionale. Non possiamo più accettare logiche politiche di galleggiamento: le parole non servono più, ormai abbiamo consumato anche il tempo. Il lavoro è il problema del Paese e se il numero dei disoccupati superasse la soglia dei tre milioni e mezzo, le conseguenze sociali e politiche sarebbero imprevedibili.

Non c’è più tempo, hai detto, e sono stati fatti troppi annunci…

Esatto. Mentre si fanno annunci, piani e programmi, le nostre imprese chiudono e i lavoratori restano in cassa integrazione o sono licenziati. In molte regioni del nostro Paese si è creato un vero e proprio deserto di posti di lavoro e centinaia di migliaia di lavoratori sono nella disperazione, perché chi si trova in queste condizioni a 40 o a 50 anni rischia di perdere anche la speranza nel futuro. Noi dobbiamo evitare che passi un messaggio secondo cui ciò che sta accadendo sia da imputare a fatalità o solo alla crisi europea e mondiale e che, dunque, non si possa fare alcunché. Questo non è vero: se il paese sta andando verso una diffusa povertà la responsabilità è anche delle scelte sbagliate operate in questi anni e ad alcune di esse si può ancora porre rimedio. Così come non è vero che non via siano sufficienti risorse per affrontare questa situazione: cosa si possa e si debba fare lo abbiamo ampiamente ribadito anche in questa occasione.

Sei stato piuttosto duro anche nei confronti del Governo. Che cosa ti aspetti da questo Esecutivo?

Servono fatti veri e impegni concreti e, perciò, siamo obbligati a imporre un cambiamento sostanziale. Questo Governo è avvisato: agisca subito, altrimenti c’è il rischio che la spina che lo tiene in vita gliela stacchino non i partiti, ma gli stessi disoccupati.

Sembra che il messaggio sia stato subito recepito dal destinatario: il lunedì successivo, tu, Susanna Camusso e Raffaele Bonanni siete stati ricevuti da Enrico Letta. Com’è andato l’incontro?

Al Presidente del Consiglio abbiamo rappresentato la nostra volontà di affrontare alcuni temi che consideriamo centrali, a partire proprio dal fisco. Abbiamo riscontrato una sostanziale disponibilità a entrare nel merito di alcune questioni tant’è che, dai primi giorni del mese di luglio, dovrebbe prendere il via un confronto sull’annosa questione dell’evasione fiscale e sulla redistribuzione del reddito. Il punto, per noi, è sempre lo stesso: bisogna prevedere un taglio della tassazione sul lavoro dipendente e sulle pensioni. C’è, poi, l’esigenza di un’azione incisiva sia sulle vertenze aziendali, che vedono a rischio migliaia di posti di lavoro, sia sulla questione occupazionale nel suo insieme.

Un primo segnale è giunto dal decreto sull’occupazione varato proprio negli ultimi giorni del mese di giugno dal Consiglio dei ministri. Qual è stato il tuo giudizio?

Il provvedimento su cui ha lavorato il ministro Giovannini rappresenta un primo passo utile, ma non ci aspettiamo miracoli: vale il principio, più volte ribadito, secondo cui non è con le leggi che si crea occupazione. Certo, è un provvedimento serio perché indica una strada, ma non basta. L’importante è smettere di pensare che, per creare lavoro, bisogna pagare di meno i lavoratori o bisogna rendere l’impiego incredibilmente flessibile, perché così non può funzionare.

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