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GIUGNO 2012

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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MAGGIO 2012

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SOMMARIO

Il Fatto
Bisogna intervenire subito per la crescita! - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti Segretario Generale UIL. La strada per la ripresa è ridurre
le tasse sul lavoro e abbattere i costi della politica - di A. Passaro

Attualità
L’Emilia-Romagna reagisce - di G. Martelli

Sindacale
Le prospettive dei diversi scali italiani: Sfide e opportunità - di G. C. Serafini
La crisi economica e le risposte del sindacato - di P. Saija

Economia
Chimerica la lotta all’evasione - di G. Paletta

La Recensione
Il valore del lavoro

Il Ricordo
Attualità del pensiero e dell’azione di Bruno Buozzi - di P. Nenci
Bruno Buozzi - di G. Salvarani

Dossier
La crisi e le donne - A cura dell’Ufficio Politiche Economiche e Finanziarie

Agorà
Globalizziamo i diritti - di A. Carpentieri
Malattie professionali: Al via la campagna informativa di prevenzione - di D. Coluccia

Cultura
Il sindacato nel cuore - di cibi
Togliatti, addio! - di P. N.
Cosmopolis, di David Cronenberg - di S. Orazi

Il Corsivo
Chi sono costoro? Da quale mondo alieno provengono? - di P. Tusco

Inserto
I lavoratori dei boschi - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Bisogna intervenire subito per la crescita!

Di Antonio Foccillo

Gli indicatori dell’economia italiana sono sempre più negativi, nonostante le tante cure, i tanti sacrifici e le moltissime manovre imposte in questi anni, basti pensare solo a quelle dell’ultimo governo Berlusconi e del governo Monti. Alcuni dati significativi di questa drammatica situazione sono così riassunti:

Nel frattempo per effetto delle accise sulla benzina, dell’Imu e degli aumenti delle tasse locali la tassazione sui redditi dei pensionati e dei lavoratori è arrivata a toccare un record mai raggiunto. Sembra una situazione economica da un paese appena uscito da una guerra. L’unico dato che si mostra in controtendenza è l’inflazione che frena su base annua, ma non è un dato positivo perché conferma lo stallo delle condizioni economiche di base e non fa prevedere un miglioramento dell’economia nel nostro Paese.

L’inflazione, però, non spiega da sola il prolungato rallentamento economico, che è favorito anche dalla staticità delle retribuzioni contrattuali e dalla conseguente stagnazione dei consumi. Il problema principale rimane, come ripetiamo da tempo, la salvaguardia dell’occupazione e il miglioramento del potere d’acquisto dei lavoratori e dei pensionati ma, vista la situazione finanziaria, l’indecisione e la sottovalutazione di questi problemi da parte de governo inizia a palesarsi anche la preoccupazione sulla salvaguardia del risparmio.

AAngeletti, segretario della Uil, in una recente intervista, ha dichiarato che se non ci sarà una svolta immeditata, sia la situazione economica, sia quella sociale non saranno in grado di reggere fino a primavera del 2013. Scrive Marco Fortis3: “Per essere rigorosi, come vuole la Merkel, l’Italia è finita in recessione… nell’Eurozona stampare (troppa) moneta (come hanno fatto Americani e Inglesi) non è possibile. Per queste ragioni e per l’ostruzionismo tedesco alcune infezioni periferiche non curate ci hanno quasi trasformato in un malato terminale… Una lettera di moltissimi economisti, recentemente, ha rappresentato il pericolo che la politica restrittiva tende ad aggravare la crisi, ad alimentare la speculazione e condurre alla deflagrazione della zona euro. Di fronte a questi dati, noi riteniamo, che non è possibile aspettare oltre, bisogna ridiscutre l’austerità.

Si è rinunciato, fino ad oggi, ad ogni imposizione dui super profitti bancari e finanziari, mentre l’austerità colpisce duramente i salariati e i ceti medi e inferiori con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione, che significa concretamente la diminuzione del suo ammontare. Altri economisti, come Joseph Stiglitz, raccomandano le ricette keynesiane del rilancio del consumo e dell’investimento per far ripartire la crescita, ma per gli economisti del debito questa terapia non è più praticabile perché, dato l’esaurimento delle risorse naturali, i costi della crescita sono superiori ai suoi benefici ed i guadagni di produttività sono nulli o quasi. Quindi la ricetta che propongono è privatizzare ancora e mercificare le ultime riserve di vita sociale per far crescere il valore di una massa immutata – o in diminuzione – dei valori d’uso, per prolungare solo di qualche anno la speranza della crescita.

Questo programma è suicida, L’ultimo rapporto della Banca Mondiale conferma che il livello della povertà è aumentato ed oggi 1,4 miliardi persone vivono con meno di 1, 25 dollari al giorno. In Italia – di fronte al dicktat europeo dell’austerità – è stata riversata sui cittadini una bordata di tasse, però si spendono tantissimi soldi per le guerre (Iraq) e il settore militare, in cui – mentre si tagliano le spese pubbliche - sono stati stanziati quattro miliardi di euro per la realizzazione della portaerei Cavour, ben quattro volte l’intero Fondo nazionale per le politiche sociali e altrettante cifre folli per costruire sei bombardieri Eurofighter, il cui ammontare equivale alle spese di un anno per varie forme di assistenza per disabili, minori a rischio, tossicodipendenti, non autosufficienti e disoccupati. La cosa paradossale è che gli stessi dirigenti politici che hanno contribuito a creare le garanzie giuridiche e politiche per le masse ora, invece, le smantellano e quelle garanzie, conquistate dalla società in decenni di lotte e di sofferenze, ora si trasformano solo in profitto finanziario a favore dei soli abbienti.

Ciò avviene socializzando le perdite, aumentando le diseguaglianze e la povertà, criminalizzando l’opposizione e manovrando la ristrutturazione capitalistica in atto come una vera e propria guerra di sovranità nell’assetto della nuova geografia politica planetaria. Ma se le crisi dei sistemi sociali non sono cosa nuova e inaspettata, come è possibile che il quadro attuale, così chiaro nel suo funzionamento, così feroce e deleterio, non suggerisca il cambio radicale del modello individualistico e del profitto privato?

Concludendo solo se la politica sarà capace di riproporsi come il luogo in cui la società si autorappresenta in un progetto alternativo, collettivamente elaborato e condiviso, in cui l’organizzazione sociale si struttura solidaristicamente; se la politica ritorna ad essere luogo e tessuto di relazioni interconnesse in cui la società, la sua organizzazione e le sue crisi non sono più affare dei soliti pochi privilegiati, né tanto meno fondarsi sull’individualismo e la concorrenza individuale e sociale, allora la forza dei valori di solidarietà può rappresentare l’alternativa di oggi, non più rimandabile.

Bisogna agire, adesso, mentre il sistema finanziario internazionale è scosso dalle basi, la crisi dell’euro sta spaventando il mondo intero e mette in ginocchio le economie reali di vaste zone dell’Europa. Il debito continua ad aumentare, come pure i deficit e le contraddittorie stime degli esperti si sommano all’impotenza dei politici. Bisogna ribellarsi, anche se nessuno ha ricette pronte e tutti navigano a vista, perché comunque siamo giunti alla fine del sistema.

L’usura sta minacciando fortemente la nostra realtà quotidiana perché i mercati finanziari e le banche acquistano, con denaro virtuale, grandi quantità di azioni e obbligazioni degli Stati per impadronirsi dei loro averi a titolo di interessi su un debito consistente in una montagna di denaro virtuale che non potrà mai essere rimborsato. Non è certamente limitandosi a “indignarsi” che cambieranno le cose. Lo sdegno che non sfocia nell’azione è una comoda maniera per credere di aver fatto qualcosa.

Solo l’intervento risoluto dei lavoratori e degli esclusi può dare al risentimento suscitato dalle pratiche della finanza mondiale, o semplicemente al malcontento antibancario, una base sociale concreta in grado di invertire la rotta verso un modello comunque diverso di economia.

Anche il recente accordo, nel vertice europeo di fine giugno, non ha soddisfatto le attese. Le stesse risorse europee destinate alla crescita (120-130 miliardi di euro) sono solo sulla carta perché in parte erano già stanziate. Se non ci si vuole incamminare sulla strada sempre più acuta della recessione, bisogna reagire. Non sono, pertanto, più rinviabili misure per il rilancio dell’economia.

Servono delle buone politiche attive in grado di far diminuire la disoccupazione ed una riduzione delle tasse sia nei confronti dei redditi da lavoro dipendente sia di quelli da pensione, oltre a un più rigoroso impegno nel contrastare l’evasione.

Oggi il problema è come ricostruire una prospettiva dì sviluppo che favorisca nuova occupazione vera e duratura, uno sviluppo che produca ricchezza e che sia distribuita in modo più equo e più giusto, un’amministrazione pubblica efficiente e produttiva in modo da accompagnare i processi di sviluppo.

Per raggiungere tutto ciò anche il sindacato deve fare la sua parte. Il sindacato deve proporre nuovi modelli economici e sociali, per avviare uno sviluppo diverso, non più solo mercantile, considerando le modalità di un lavoro a valenza sociale complessiva. Bisogna uscire da una logica difensiva, riproporre come centrale il problema del sociale e ripartire all’attacco anche con obiettivi intermedi, ma ben definiti e caratterizzati.

Un nuovo modello di crescita economica, un forte progetto di rinnovamento che riaccenda le speranze sopite con una seria e corretta politica sociale non più basata sull’assistenzialismo e le spese improduttive, ma un percorso verso un progetto di una reale democrazia economica del sociale e del lavoro può realizzarsi.

_____________

Note:

1 Dati infocamere, rielaborati dalla Cgia
2 Dati Banca d’Italia
3 Il Mattino del 12 giugno 2012

Separatore

La strada per la ripresa è ridurre le tasse sul lavoro e abbattere i costi della politica. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario Generale UIL

di Antonio Passaro

Angeletti, il rapporto tra sindacati e Governo si avvicina sempre più, ormai, ad uno scontro al calor bianco. Proprio mentre andiamo in stampa, si è concluso, a Palazzo Chigi, un incontro sulla spending review che ha riservato poche certezze e molti dubbi. Qual è il tuo primo giudizio?

Per dirla con una battuta, per quel poco che ci è stato concesso di capire, la spending review proposta dal Governo è un buffetto ai costi della politica e una stangata agli impiegati. Non vorrei che di tutte le buone intenzioni a cui hanno accennato nel corso dell’incontro, restasse solo il taglio lineare del personale della pubblica amministrazione. Vorremmo capire se il Governo è davvero intenzionato a razionalizzare l’uso del denaro pubblico scontrandosi anche con chi ha il potere politico di gestire quelle risorse. Non sembra però che il governo sia disponibile ad un confronto vero… E’ così: non sono affatto intenzionati a dare vita ad un confronto vero. A questo punto, se nel decreto che si apprestano a varare ci saranno solo tagli lineari, non credo proprio che si potrà evitare lo sciopero generale.

Cosa dovrebbe fare il Governo per lanciare un segnale chiaro e forte circa la volontà di ridurre i costi della politica?

Intervenire sulle società pubbliche degli enti locali: sono troppe e ciò provoca, di per sé uno spreco di risorse e un costo eccessivo del servizio ai cittadini, proprio perché si genera un effetto moltiplicatore dei costi di funzionamento. Ad esempio, nel nostro Paese ci sono 1200 società di trasporto pubblico. Se ci rapportiamo agli altri Paesi europei, sono oggettivamente troppe. Dobbiamo accorpare queste società facendo in modo che abbiano un mercato più ampio.

Non basta ridurre i membri dei Consigli di amministrazione, come hanno proposto nel corso della riunione a Palazzo Chigi?

La semplice riduzione dei membri dei Consigli di amministrazione è un passo avanti ma non basta. La proposta degli accorpamenti di queste società, invece, si traduce in un’operazione che riduce i costi, ma non i servizi: c’è una logica economica.

…e questa logica non sembra ancora essere emersa…

Ed ecco perché noi siamo preoccupati e temiamo che, alla fine, della cosiddetta spending review resti solo la riduzione del 20% dei dirigenti e del 10% dei dipendenti. Peraltro, sarebbe interessante capire sia il criterio con cui questi lavoratori verrebbero messi in mobilità sia le tutele prevedibili e possibili. Insomma, occorrerebbe conoscere quello che, normalmente, si definisce il piano industriale. Non solo, però, non c’è alcuna risposta a tal proposito, ma non è neanche chiaro, a questo punto, che valore ha l’accordo sottoscritto tra Funzione pubblica e sindacato lo scorso mese di maggio e che affrontava, in modo razionale, alcune questioni relative alla maggiore efficienza della Pubblica amministrazione.

Se passasse questa linea, sarebbe un problema serio. Ci sarebbero ripercussioni per la stessa Pubblica amministrazione e anche per i cittadini?

Certamente. La macchina amministrativa non funzionerà affatto meglio. Anche perché, se adesso funziona, è solo per merito della buona volontà di chi ci lavora. Un processo di efficientamemto deve essere vissuto come giusto ed efficace, va costruito con il consenso, vanno spiegati gli obiettivi, i costi, i risparmi, vanno tagliati i veri sprechi, vanno sanate le diseconomie. Noi temiamo seriamente che non sarà così.

E tutto ciò si colloca in un quadro complessivo che non dà segnali di miglioramento. Quali sono le tue previsioni?

Purtroppo le cose stanno andando diversamente da come noi desideriamo: la realtà si sta allontanando dai nostri desideri. Abbiamo sempre meno posti di lavoro e quelli che lo conservano vengono pagati sempre meno. Entro la fine di questo anno, rischiamo di avere un tasso di disoccupazione superiore a quello della media europea. Ed è difficile immaginare che ci possa essere un’inversione di tendenza sino a quando continueremo ad avere alti tassi di interesse e, soprattutto, alti livelli di tassazione. Noi, forse, ancora non abbiamo elaborato il fatto che non siamo solo in una fase di emergenze ma che, in realtà, abbiamo imboccato la strada del declino. Nei prossimi venti anni le risorse pubbliche diminuiranno e coloro che le amministrano devono essere in grado di gestirle eliminando gli sprechi. Ecco perché bisogna intervenire riducendo le tasse sul lavoro e abbattendo i costi della politica. Questa è la strada per la ripresa.

Insomma, Angeletti, sabato 16 giugno Cgil, Cisl e Uil sono scesi in piazza, con la parola d’ordine “Il valore del lavoro”, per chiedere politiche economiche in una prospettiva di sviluppo. Quella potrebbe essere stata la prima e non l’ultima delle manifestazioni?

Noi abbiamo chiesto una svolta al Governo per il lavoro, per un fisco più equo, per lo sviluppo. Questa politica economica non funziona perché, come ho già avuto occasione di dire in altre circostanze, noi vogliamo salvare l’Italia, ma vorremmo salvare anche gli italiani. Ecco perché bisogna spostare un po’ di risorse sul lavoro che resta l’unica ricchezza di questo Paese. Se il Governo non va in questa direzione – e gli ultimi fatti non fanno altro che confermare i nostri dubbi – la nostra mobilitazione proseguirà.

A livello europeo, però, dopo il vertice UE di fine giugno, sembra che ci siano prospettive più incoraggianti: i rischi di frantumazione dell’euro e di dissolvimento della stessa idea di Europa sembrano ridimensionati. E’ così?

Questi sono processi molto complessi che richiedono verifiche nel tempo. Certamente, dal punto di vista “politico” il vertice UE ha dato risultati importanti. D’altro canto, personalmente, sono convinto che abbiamo un solo futuro: diventare cittadini europei. Le regole e le culture sociali dovranno “europeizzarsi”. Dal nostro punto di vista, poi, non dobbiamo mai dimenticare che la differenza tra i lavoratori italiani e quelli tedeschi non sta nel fatto che i primi avrebbero meno diritti dei secondi. Il punto è che gli italiani guadagnano il 40% in meno dei tedeschi. Ed è questo gap che deve essere affrontato e risolto.

Un’ultima domanda. Hai partecipato di recente a due iniziative in cui è stata affrontata la questione del merito. In che misura questo principio “culturale” può inserirsi in un ragionamento sullo sviluppo e sulla crescita?

Quello del merito è uno dei presupposti “culturali” per realizzare politiche di sviluppo. Abbiamo avuto molte difficoltà nel mondo sindacale a fare accettare l’idea che il merito non è un valore reazionario ma democratico. Ed è democratico perché l’alternativa al merito è il censo. Abbiamo impiegato oltre venti anni per superare la logica degli aumenti uguali per tutti e questa logica ha generato molti guasti. Il contrasto tra merito e uguaglianza ha visto prevalere, dialetticamente, quest’ultimo e ciò ha generato anche perdita di produttività. Non abbiamo ancora risolto questo problema: sono in molti a ritenere che “meritocrazia” sia una brutta parola. Ma anche questa, prima o poi, è una battaglia che vinceremo.

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