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GIUGNO 2011

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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MAGGIO 2011

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SOMMARIO

Editoriale
Siamo alla svolta? - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti Segretario generale UIL. La competitività e la produttività aziendale sono i presupposti per una crescita occupazionale e salariale - di A. Passaro

Sindacale
Stati Generali 2011: “Qualità del lavoro e del costruire,  formazione e tutela.” -
di A. Correale
FINCANTIERI e non solo - di P. Massa
Attendere, prego! - di G. Pirone
Castellammare ovvero (i)cantieri navali - di G. Sgambati
Crisi economica e territorio: l’Italia che fatica a ripartire!- di G. Stamegna

150° dell’Unità d’Italia
Il progressivo contributo del mondo del lavoro all’Unità d’Italia - di P. Neglie
1911: anno socialmente difficile e con una guerra in corso - di P. Nenci

Speciale L’Aquila
Storia di una ricostruzione virtuale senza inizio e senza fine - di M. Cattini

Economia
Crisi finanziaria e debiti sovrani - di G. Paletta 
Il grande bluff - di A. Ponti

Società
Indignati e non solo - di G. Salvarani

Il Corsivo
Il vento del cambiamento - Prometeo Tusco
E se l’orco fosse innocente? - Prometeo Tusco

Attualità
Nuove regole per contratti di lavoro e rappresentativita’ sindacale - di M. Ballistreri

Agorà
“Lavoro e Costituzione” - di S. Pasqualetto
Un giorno offline… ed è sindrome da vuoto digitale - di M. C. Mastroeni

Cultura
Leggere é  rileggere - Il sentimento della vigilia. E’ proprio impossibile la gratitudine? -
di G. Balella
Proposta della UIL UNSA: riduzione dell’aliquota IVA al 10%   per opere dell’espressione artistica - di N. A. Rossi  

Inserto
Dopo la sentenza eseguita in tutta fretta su Osama Bin Laden, il nemico numero
uno dell’Occidente. Giustizia è fatta? - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Siamo alla svolta?

Di Antonio Foccillo

Quanti avvenimenti stanno succedendo che ci hanno visto protagonisti e che rilanceranno l’azione confederale per rinnovare le speranze e la fiducia nel futuro. Il primo è stato la manifestazione Uil e Cisl che ha rimesso al centro dell’agenda politica la riforma fiscale. La consapevolezza è ormai comune sulla necessità di farla, ma i risultati si potranno vedere ed apprezzare solo quando sarà conclusa la manovra economica del Governo. Il secondo è l’accordo con la confindustria sulle regole che ha visto le tre organizzazioni sindacali, Uil, Cisl e Cgil riunite di nuovo e che potrà essere foriero di una nuova stagione sindacale. E’ la vittoria della ragionevolezza e di chi ha sempre creduto alla necessità di mediazione, abbandonando le rigidità di organizzazione. In un recente convegno su relazioni, contrattazione e partecipazione avevamo sostenuto che CGL, CISL e UIL sono state in grado, in tutti i momenti drammatici e difficili di questo Paese, di trovare l’unità e sono state in grado di assumersi le proprie responsabilità, anche convincendo chi rappresentavano, a volte imponendo loro sacrifici, che era importante costruire un futuro con un obiettivo che sosteneva tutto il progetto, tutta la strategia e tutta l’azione. Da oggi, sulla base di questo primo passo, dobbiamo creare le condizioni perché ci siano regole nella vita politica e sociale, perché sia rispettata la dignità umana, sia affermato il valore del lavoro e siano appunto regolati le relazioni in termini partecipativi. E’ da qui che dobbiamo ripartire nel processo di ripristino delle condizioni unitarie, altrimenti gestiremmo solo le difficoltà senza aver determinato le prospettive generali di sviluppo.Il ruolo confederale emerge, all’interno di una politica di rilancio del ruolo contrattuale, nel riferimento determinante al valore sociale del lavoratore. Questo deve diventare il referente ideologico per un’azione confederale, che contratta nella difesa dei salari anche l’estensione dei contenuti sociali, che saranno specificati nell’impegno per la qualità dello Stato e della sua efficienza, ai fini dell’equità distributiva della ricchezza e dei servizi. La politica di concertazione o un nuovo patto sociale è, e deve restare, la disciplina sociale di remunerazione di tutti i fattori produttivi. Essa serve a riequilibrare i forti squilibri esistenti nella distribuzione della ricchezza e le distorsioni che permangono nella sua formazione. Un sindacato che concorda su come mantenere in vita un’azienda è naturalmente interessato a salvaguardare il lavoro in quel posto. Ma la domanda che ci dobbiamo riproporre - avendola già risolta in passato – basta l’azione nella singola azienda per cercare di tutelare il lavoro o magari sarebbe più opportuno aggredire le crisi e nello stesso tempo, svolgere anche una funzione diversa dalla semplice difesa? Per farla breve UIL CGIL CISL debbono cominciare, tutti e tre - salvaguardando il pluralismo, che è la ragione che mantiene viva la democrazia, nel rispetto e nella tolleranza di tutte le posizioni - ad individuare strategie confederali per proporre forme di salvaguardia dell’occupazione in una strategia di sviluppo del sistema produttivo. L’azione strategica del sindacato deve essere strettamente intrecciata, a parer mio, al modello di società che dobbiamo individuare in questa situazione economica, sociale e politica che si sta determinando. L’attuale condizione in questo modello di società amplifica l’emarginazione e aumenta la povertà, pertanto, il sindacato deve riproporre una società in cui si stabilisca, non dico un giusto equilibrio, ma un equilibrio fra quelli che sono i forti e quelli che sono i deboli della società! Negli ultimi dieci anni, mentre i privilegi e gli stipendi dei politici crescevano enormemente quelli dei lavoratori e pensionati hanno visto cadere il loro potere d’acquisto, ciò non è in alcun modo giustificabile per questo abbiamo avanzato come Uil la proposta di intervenire sui costi della politica, riducendoli. Anche questo tema sembra che sia condiviso da tutti.Di fronte a questa situazione generale del Paese, se vogliamo diventare protagonisti e propositivi come sindacato confederale non possiamo che svolgere una azione di rivendicazione di misure per mantenere il Paese solidale e coeso. Infatti, ripeto, se focalizziamo tutto il nostro tipo di lavoro all’interno dell’azienda potremmo essere bravi a difendere quella qualità del lavoro, quel tipo di produzione, quell’investimento, ma non impediremo mai alle multinazionali di andarsene, quando il loro interesse viene meno e si preoccupano poco sia dell’occupazione e sia della coesione sociale. Per questo bisogna pressare il Governo che, qualunque colore abbia, comunque resta un interlocutore del sindacato, per rivendicare e concordare le misure per regolare le presenze delle multinazionali nel nostro Paese. Infatti, se il Governo non fissa dei paletti a garanzia del lavoratore nel momento in cui sostiene l’investimento nei confronti delle multinazionali, queste che cinicamente investono in funzione del guadagno, altrettanto cinicamente se ne andranno per trovare nuovi investimenti in altri Paesi, molto più remunerativi per loro perché le condizioni di lavoro sono peggiori. Il movimento sindacale si deve far carico di avviare un ragionamento su queste tematiche, su quale modello di società e su quali regole stabilire dentro la società. È necessario razionalizzare un sistema che rischia di impoverire il cittadino, senza dargli la possibilità di gestire adeguatamente il proprio reddito. Simile è il discorso per il risparmio, dove si concentrano i poteri forti e dove il cittadino è in balìa delle banche, di un mercato sempre più ostile e dove la seconda casa rischia di diventare il principale rifugio d’investimento, ma forse ancora per poco. Ma un costo significativo sul reddito dei lavoratori e pensionati è proprio l’incidenza della casa sia in affitto che in propietà, e l’altro è il costo dell’energia, difatti manca una politica delle fonti, una strategia innovativa e ci si limita a rincorrere il prezzo del petrolio.Per affrontare questi aspetti la politica di concertazione potrebbe rappresentare uno strumento sempre valido, ma va aggiornata rapidamente! Infatti, quando si firmò l’accordo nel 1993 la politica economica era ancora prerogativa in gran parte nazionale oggi, invece, i livelli di decisione politica sono ormai tre, quello europeo, quello nazionale ed infine quello delle autonomie locali. Da allora in questi ultimi cinque anni il paese si è diviso e frammentato sempre di più è ciò fa venire quella cultura di coesione che portò a salvare e rilanciare il Paese. Lo scontro politico ed il sistema elettorale hanno prodotto l’abbandono della coesione per sostenere ognuno le tesi del proprio schieramento, con il risultato che essendo prevalsi altri valori, sono venute meno quelle posizioni di mediazioni fra interessi diversi e di solidarietà fra le persone. Cosicché l’unità del corpo sociale è stata continuamente divisa: governanti e governati, società economica e società politica, nord e sud, pubblico e privato. Anche in termini di leggi e contratti si è registrata la prevalenza della frammentazione sull’omogeneità, dei vincoli derogabili su quelli inderogabili e la giustizia commutativa (ugual valore degli scambi in società di uguali) ha ceduto il passo alla giustizia distributiva (a ciascuno secondo il bisogno, il lavoro, in società di diseguali). Gli strumenti di partecipazione democratica sono stati ridimensionati nelle loro funzioni di rappresentanza e sono aumentate le distanze fra i cittadini, perché vi è purtroppo la crescita di povertà, dilatatasi anche a quei ceti prima considerati non a rischio. Nello stesso tempo ha conquistato terreno il fenomeno di una nuova emarginazione sociale.Si tratta allora di stabilire sedi pronte a decisioni politiche di portata generale. Vi è ancora bisogno che la società civile ne condivida con la prassi della politica di concertazione la prospettiva e la progettualità politica, pur lasciando al Governo la decisione finale di come realizzarle. A nostro avviso non è più possibile, oggi, pensare di rilanciare l’economia, senza un ruolo propositivo e di partecipazione di tutte le rappresentanze economiche e sociali. Ebbene, oggi in Italia, a causa dell’affievolirsi del senso di solidarietà, sono venuti meno quei collanti che qualificavano la nostra comunità. Bisognerà tutti insieme riprendere il cammino per ripristinare queste condizioni. Il sindacato nel passato è stato un rappresentante della coesione sociale, perché è stato contemporaneamente strumento di democrazia, di solidarietà, di emancipazione, di tutele e garanzia dei diritti. Inoltre, in tutti i momenti di difficoltà di questo paese, il sindacato ha rappresentato anche un ormeggio; ha difeso le istituzioni nelle situazioni di terrorismo; si è esposto per ridare prospettive di rilancio dell’economia, chiedendo alla sua gente di sacrificarsi per il bene del paese. Oggi, ancora una volta, può integrare la classe dirigente, se coinvolto e partecipe ai processi economici e sociali, perché è un soggetto che volge tutta la sua azione sul riconoscimento dei bisogni primari della persona e sulla salvaguardia della dignità dell’individuo con tutte le prerogative riconosciutegli dalla Costituzione italiana. Quindi nasce, oggi, anche alla luce della ritrovata funzione della prevalenza dell’accordo sullo scontro, l’opportunità di dar vita ad un’iniziativa sindacale in grado di sviluppare un nuovo rapporto con la politica per migliorare non solo le condizioni socio-economiche dei lavoratori, ma anche per divenire un punto di svolta e di riferimento nella stessa gestione della vita pubblica del Paese.Questo è la prassi del sindacato riformista che pure è emersa in tanti frangenti del nostro quotidiano, che, però, non è stata patrimonio di tutte le organizzazioni sindacali. In questo momento l’accordo che si ritiene più importante da proporre è un accordo ideale: dobbiamo ridare voce alla società e riprendere spazi che il mercato ha invaso prepotentemente. Il diritto del lavoro deve uscire dalla logica difensiva e riprendere una fase espansiva ed l’amministrazione pubblica deve riacquistare dignità e valore di garanzia sociale; la politica deve essere vissute con partecipazione dai cittadini che devono sentirsi protagonisti dei cambiamenti e non tornare a vivere come sudditi ai quali vengono imposte le scelte. Non dobbiamo dimenticare che le conquiste sociali e le ampliate esigenze che chiamiamo diritti sono veramente tali se non rimangono una affermazione puramente teorica e culturale. I diritti sono tali se sono garantiti e, naturalmente anche i diritti sociali rimandano ad uno status di cittadinanza, che nel loro complesso li renda efficaci anche quando la società è sonnolenta, poco sensibile, o per una congiuntura sfavorevole, egoisticamente sorda alla solidarietà. Dunque la cittadinanza è agire politico autonomo e la sovranità popolare nel tempo non diventa più identità e neanche adesione ad una comunità, ma piuttosto condivisione di uno status di diritti civili, politici e sociali e di valori universali. Vale a dire lo Stato Sociale non rappresenta altro che la dimensione sociale che fa di un uomo un cittadino. Le stesse regole di un normale confronto in una società non debbono essere modificate con superficialità. Ci si dimentica che una società riesce a mantenere un minimo di coesione sociale se vi è uno spazio, non solo di rappresentanza per tutti, ma anche se questa rappresentanza sfocia in una vera partecipazione. Il sindacato in questo frangente, ha ancora una volta l’opportunità di contribuire a dare prospettive positive alla società, finalizzando la sua partecipazione a politiche economiche e sociali per appianare gli squilibri ed ridurre la povertà. Per questo l’impegno a tutti i livelli non può che essere rivolto a ricercare soluzioni di dialogo, fra le diverse componenti sociali e politiche, e di partecipazione in modo da costruire un progetto unico. In una società che ha trasformato esigenze e bisogni della gente, bisogna mantenere un equilibrio sociale adeguato. La confusione tra libertà economica e libertà politica ha fatto sì che prevalesse solo la prima, inoltre facendo credere che le regole neghino la libertà economica. Il sindacato deve quindi, innanzitutto per respingere questa idea e, sulla base di una opportuna riflessione, deve investire non solo le organizzazioni nazionali dei lavoratori, bensì quelle internazionali, respingerla con la forza di una seria proposta alternativa. Considerare questi obiettivi come utopie irrealizzabili significa, per il sindacato, rinunciare al ruolo che storicamente si è dato. Per tornare al concreto e concludere vogliamo porre all’attenzione su alcuni temi del nuovo patto sociale che si potrebbe decidere di avviare: il lavoro, il diritto alla contrattazione, la partecipazione ed il fisco. Partendo dal lavoro si può affermare che l’Unione Europea ed i paesi che vi aderiscono hanno bisogno di politiche che ridiano slancio e fiducia al settore produttivo, occupazionale per riconquistare un buon futuro per i suoi cittadini sempre più sfiduciati - lo ricordava anche il Papa, considerando il lavoro buono e non precario un elemento che ridia dignità e certezza nel futuro alla persona. Invece, la necessità della riduzione del debito pubblico, anche nell’impostazione delle prime informazioni sulla politica economica prevista nella prossima manovra economica, si realizza, ancora una volta, proponendo un ulteriore taglio dello Stato sociale che era l’elemento di coesione del modello economico e politico europeo ed ai lavoratori del pubblico impiego che svolgono una funzione essenziale nel dare pari opportunità ai cittadini. Oggi il problema, viceversa, è come ricostruire una prospettiva di sviluppo che favorisca nuova occupazione vera e duratura, uno sviluppo che produca ricchezza e che sia distribuita in modo più equo e più giusto, un’amministrazione pubblica efficiente e produttiva in modo da accompagnare i processi di sviluppo. La situazione economica mondiale ed europea viene vista dagli analisti economici con lo stesso metro di misura e dopo la sbornia della finanza creativa o distruttiva si torna a proporre che, per uscire da questa crisi, bisogna che gli Stati intervengono sullo stato sociale e sul debito (le riforme tanto decantate). Ma questo spesso contrasta con chi poi rappresenta gli interessi dei più deboli e dei lavoratori. Queste inconciliabilità devono conciliarsi? E si possono conciliare? E’difficile che ciò possa avvenire senza che sia regolato, in termini di equità, il processo economico, perché la protesta rischia di superare anche le stesse rappresentanze (vedi Grecia, Gran Bretagna, Irlanda. Spagna, etc ).Allora questo è il primo punto da cui si deve partire per rideterminare quella società giusta ed equa che è il patrimonio di tutto il mondo del lavoro. La conseguenzialità sta nell’articolo 36 della Costituzione dove si stabilisce che: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Questo assunto è stato garantito da sempre con la contrattazione. E’ fuor di dubbio che le precedenti esperienze della contrattazione, sia nelle regole sia nelle procedure, andavano modificate. Non rispondevano più né alla salvaguardia del potere di acquisto dei lavoratori, né tanto meno a corrette relazioni sindacali, dove i diritti e i doveri sia del datore del lavoro sia del lavoratore siano sullo stesso piano.Il recente accordo sulle nuove regole della misurazione della rappresentatività e sulla legittimità degli accordi e sulla responsabilità vanno in questo senso. Proseguendo nella struttura dei rapporti fra lavoro e datore non si può dimenticare l’art. 46 della Costituzione dove è stabilito che: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.” Nella tradizione italiana questo articolo, per lo più, è stato disatteso. Vi sono state alcune eccezioni, basate sull’iniziativa volontaria, in cui i rappresentati dei lavoratori hanno avuto un ruolo importante nel tavolo decisionale. Ultimamente le parti hanno cominciato ad avere un approccio più pragmatico che ha portato a valorizzare i temi della partecipazione con gli Enti Bilaterali. Venendo al domani è fuori di dubbio che il tema della modalità del processo di partecipazione, alla luce delle tante crisi, diventa elemento fondamentale e cruciale del sistema di relazioni industriali e sindacali. Se la sfida sarà colta da tutti avremo una nuova stagione del coinvolgimento dei lavoratori per evitare che siano chiamati solo a gestire le crisi.Infatti, se non si fa partecipare la cittadinanza o la si chiama solo nei momenti di crisi, essa si sfiducia e rischia, così, di ridursi anche il rapporto di rappresentanza con le organizzazioni sindacali. In tal senso si crea un sentimento di apatia che è molto più distruttivo, in un sistema democratico, di un qualsiasi dittatore. Quando si genera l’apatia, non riconoscendo un proprio ruolo dentro il sistema decisionale, si rischia non solo la partecipazione, ma la stessa democrazia.

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La competitività e la produttività aziendale sono i presupposti per una crescita occupazionale e salariale. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale UIL.

di Antonio Passaro

Angeletti, per commentare le vicende di questo mese di giugno, abbiamo l’imbarazzo della scelta. Sono stati trenta giorni davvero intensi di fatti e di grandi novità. Tra i capitoli più importanti da annoverare, certamente, quelli sulla rappresentatività e i contratti, sul fisco e la manovra economica e, ancora una volta, sulla Fiat. Andiamo per ordine. Parliamo dell’accordo sottoscritto il 28 giugno tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria?

Sì. E’ stato un accordo molto importante grazie al quale possiamo dire che sono stati superati i conflitti e le lacerazioni degli ultimi tempi. L’intesa è stata firmata non solo e non tanto per regolare i rapporti tra le parti sociali quanto per meglio tutelare gli interessi dei lavoratori ma anche del Paese. E’ stata aperta una nuova frontiera perché è ormai evidente a tutti che le regole scritte senza tener conto delle esigenze concrete che emergono nei singoli luoghi di lavoro hanno esaurito la loro funzione.

In che senso?

Nel senso che questa intesa consolida e conferma il valore della contrattazione nazionale ma stabilisce, in particolare, una serie di regole che si prefiggono l’obiettivo di rendere esigibili e generalizzabili i contratti aziendali. Noi non possiamo dimenticare che la competitività e la produttività aziendale sono i presupposti per una crescita occupazionale e salariale. Ora, anche grazie a questo accordo, i contratti aziendali potranno porsi questi obiettivi di crescita e potranno adattarvisi secondo logiche certe e condivise.

L’intesa risolve anche la questione della rappresentanza….

L’intesa affronta e risolve l’annosa questione della certificazione degli iscritti e definisce un efficace sistema di misurazione della rappresentatività sindacale. Nei fatti, viene praticamente richiamato quanto già pattuito nel 2008 tra le tre Organizzazioni sindacali, da un lato, e viene data continuità ad alcuni principi fissati nell’accordo del gennaio 2009.

La firma del 28 giugno era stata preceduta da una vicenda che aveva visto la Uil protagonista assoluta della scena sindacale: la disdetta del Protocollo del luglio 1993. Tra i due fatti non c’è un rapporto diretto di causa ed effetto. Tuttavia, non c’è dubbio che la decisione della Uil di mandare definitivamente in soffitta il vecchio modello contrattuale, in qualche misura, ha impresso un’accelerazione anche alla trattativa tra le parti sulla rappresentanza e sulla contrattazione aziendale. Quali sono state le ragioni di fondo che ti hanno indotto a questa scelta?

Chiariamo subito che il Protocollo del 1993 già apparteneva alla storia, ormai da circa un decennio, e che l’intesa del 2009 aveva già preso il suo posto con un nuovo modello contrattale basato, a livello nazionale, non più sull’inflazione programmata ma sull’Ipca, un indice più efficace per la definizione degli incrementi salariali. La stessa contrattazione di secondo livello aveva acquisito una nuova forza e una centralità corrispondente alla necessità di far crescere i salari e la produttività. Dunque, la disdetta formale del luglio 1993 da parte della Uil non ha fatto altro che ratificare una condizione già definita. La decisione è scaturita dal fatto che l’Abi, l’Associazione Bancaria Italiana, aveva di recente manifestato l’intenzione di applicare, in occasione del prossimo rinnovo del contratto nazionale della categoria, le regole contrattuali del Protocollo. Dunque, proprio per evitare ogni possibile equivoco circa l’attuale applicabilità di quelle vecchie norme e di quelle superate procedure, la Uil ha deciso di disdettare, ufficialmente e formalmente, il Protocollo del 1993.

L’insieme di tutta questa storia si intreccia con l’insieme delle vicende che, ormai da un anno a questa parte, riguardano la Fiat. L’Amministratore delegato, Sergio Marchionne, pur apprezzando l’intesa tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, ha inviato una lettera con cui ha chiesto che siano fatti ulteriori passi, altrimenti la Fiat si vedrà costretta ad uscire dal sistema confindustriale. Qual è la tua opinione, a tal proposito?

Comprendiamo le ragioni della Fiat espresse nella lettera alla Confindustria. Nessuno più di noi vuole salvaguardare gli accordi di Pomigliano, di Mirafiori e della ex Bertone, soprattutto perché rappresentano la salvezza di molte migliaia di posti di lavoro. Accordi che, lo ricordiamo, sono stati approvati dalla maggioranza dei lavoratori. Noi pensiamo però che, nelle prossime settimane, si potrà dimostrare come questi accordi siano difendibili anche restando dentro Confindustria.

Cambiamo argomento e parliamo di fisco e di costi della politica. Lo scorso 18 giugno, Cisl e Uil hanno dato vita alla loro seconda manifestazione di piazza per chiedere intereventi proprio su quei due punti. Dal palco di piazza del Popolo di Roma hai lanciato un avvertimento al Governo, precisando che se ci dovesse essere un’altra manifestazione di Cisl e Uil non sarà fatta di sabato ma di venerdì. Un modo abbastanza chiaro per minacciare uno sciopero….

Sì, noi pensiamo che il governo debba fare una riforma fiscale per ridurre le tasse sul lavoro e sulle pensioni. Una riforma fiscale sarebbe un atto di giustizia sociale nel nostro Paese, oltre che una vera e propria necessità economica. Bisogna anche aiutare le aziende che fanno onestamente il loro lavoro e che reinvestono i loro soldi in azienda. O il governo riesce a realizzare questo atto o è meglio che non continui a sopravvivere. Per quel che riguarda, poi, i costi della politica, noi tutti dobbiamo avere consapevolezza che il nostro sistema politico costa troppo e che non possiamo più permettercelo. E’ più costoso che in Francia e in Germania ed è anche un po’ criminogeno. Senza demagogia e con pacatezza ma ormai è chiaro che bisogna intervenire.

E intanto, proprio mentre diamo alle stampe la nostra rivista, il Consiglio dei ministri ha varato la manovra economica. Siamo in grado di dare un primo giudizio?

La scarsità e l’incertezza di notizie ufficiali ci impedisce di esprimere una valutazione precisa e puntuale sulla manovra. Noi auspichiamo che ci sia un confronto nelle sedi istituzionali preposte per ottenere una manovra che tenga conto delle nostre rivendicazioni. Chiederemo – lo ripeto – che sia definita una riforma fiscale basata sulla redistribuzione del carico fiscale, tale da favorire lavoratori dipendenti e pensionati, e strutturata su detrazioni per i figli a carico. Ribadiremo, altresì, la necessità di tagli veri ed effettivi ai costi della politica.

Dalle prime avvisaglie sembrano esserci problemi anche sul fronte del pubblico impiego. Le categorie interessate esprimono forti preoccupazioni…

Sì, è vero c’è un forte disagio delle categorie dei lavoratori del pubblico impiego, che sarebbero ulteriormente penalizzati dall’attuazione delle decisioni sino ad ora pubblicizzate. Noi sollecitiamo, peraltro, un’iniziativa per il rilancio della contrattazione nel settore. Infine, abbiamo anche sottolineato la necessità che gli eventuali risparmi sul fronte previdenziale vengano utilizzati per incrementare le pensioni, frutto di decenni di contributi, che oggi rischiano di finire al di sotto dei livelli di sussistenza.

Se le cose restassero così come sembrano, i tuoi propositi “bellicosi” sarebbero confermati?

In mancanza di risposte soddisfacenti, sull’insieme di questi punti, la Uil metterà in campo iniziative di mobilitazione.

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