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GENNAIO 2016

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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DICEMBRE 2015

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SOMMARIO

Il Fatto
- Lo Stato e la Pubblica Amministrazione - di A. Foccillo
- Mi sto battendo per costruire la nuova Federazione unitaria - Intervista a Carmelo Barbagallo Segretario generale UIL - di Antonio Passaro

Sindacale
- Febbraio d’incontri per i metalmeccanici - di R. Palombella
- Legge 125 del 2015 e le conseguenze sui lavoratori - di G. Torluccio
- Un comparto e una legge di “sostegno” per i settori della produzione dei nuovi saperi - di S. Ostrica
- Superiamo la Brunetta - di N. Turco

Welfare
- Universalismo imperfetto e integrazione sanitaria - di F. M. Gennaro

Economia
- La Uil nei suoi congressi - (VI) L’economia nelle relazioni congressuali dei segretari generali Benvenuto - Roma 10 14 giugno 1981 - di P. Saija
- Il decreto salvabanche e il bail in - di P. Scozzi

Attualità
- La retribuzione dei tempi di vestizione e svestizione - di A. Fortuna

Approfondimento
- La riforma costituzionale: quadro generale - di P. Scozzi

La Recensione
- Sono i doveri non i diritti la matrice del cambiamento sociale - di P. N.

Inserto
- Quando la Uil si rimise in moto - di P. Nenci

Inserto 1
- Lavoro Italiano - Indice 2015 - di P. N.

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EDITORIALE

Lo Stato e la Pubblica Amministrazione

di Antonio Foccillo

Lo Stato moderno, come finora l’abbiamo conosciuto, non ha avuto origine all’improvviso, anche se la sua nascita storicamente si fa risalire al trattato di Westfalia, che rappresenta l’inizio convenzionale di un nuovo ciclo storico, essendo lo Stato moderno la risultanza di evoluzioni plurisecolari.

Le connessioni con le epoche precedenti sono in rapporto a tre elementi costitutivi dello Stato: il governo, il popolo e il territorio. Inoltre caratteristica dello Stato è la sovranità, designata come attributo della suprema potestà statale e che consiste nell’indipendenza assoluta da altre potestà e altri ordinamenti,e infine nell’egemonia assoluta nei rapporti con altri soggetti all’interno del territorio e dell’ordinamento statale, nei rapporti con Comuni, Province, Regioni.

Da più parti viene oggi affermato che l’epoca della statualità è ormai arrivata alla fine, questo perché l’Europa, dove lo Stato nazionale aveva rappresentato l’organizzazione propria tipica della vita politica e della formazione del diritto positivo, ha perduto il ruolo di centro della politica mondiale. La ragione principale sta nel fatto che i singoli Stati europei progressivamente hanno perso la capacità d’essere all’avanguardia sul piano politico, sociale, culturale e scientifico, e ciò appare connesso ai fenomeni più generali della decadenza della civiltà europea.

Segno di questa decadenza si considera anche il fatto che, da tempo, non vengono più concepiti e propugnati sistemi di pensiero o visioni generali del mondo 1. è vero che vi sono stati persistenti tentativi di comprendere fatti nuovi ma sono stati sempre analizzati mediante applicazioni di categorie e schemi ideati in diverse condizioni storico-spirituali e quindi inefficaci a far fronte alla realtà in cambiamento.

La costruzione stessa dell’Unione europea è stata attuata facendo riferimento a figure e modelli del costituzionalismo liberale e più in generale ci riconduce a un movimento, divenuto preminente nel secondo dopoguerra, quando si impose il disegno di trasferire oltre i limiti ristretti dei vecchi Stati nazionali la protezione dei diritti fondamentali e anche l’attuazione dei principî del costituzionalismo per i pubblici poteri, legislativo, amministrativo, giudiziario.

Così con l’Europa la compagine nazionale e territoriale dello Stato sovrano si apre e tende alla propria dissoluzione, in forza di un duplice trasferimento di potestà: da un lato nel senso delle “integrazioni” sovrannazionali e del nuovo ordine mondiale, e dall’altro delle attribuzioni a poteri intermedi autonomi.

Nella formazione dello Stato moderno ha importanza primaria l’organizzazione che si realizza in una pubblica amministrazione distinta per il carattere professionale dei dipendenti e la natura tecnica delle regole di azione.

Purtroppo, con il tempo lo Stato è divenuto apparato, complesso istituzionale, separato nettamente dalla collettività e parallelamente l’amministrazione ha assunto una caratterizzazione più burocratica e professionale, rompendosi il legame diretto con la società degli amministrati.

In estrema sintesi la funzione amministrativa si distingue da quella legislativa perché quest’ultima si traduce nella creazione di norme generali e astratte, con efficacia erga omnes, mentre l’amministrazione provvede tendenzialmente per il caso singolo, mediante norme speciali e concrete, aventi efficacia inter partes.

L’interesse pubblico era il fine che ogni pubblica amministrazione doveva perseguire secondo il principio della massimizzazione dell’interesse primario, a fronte di tutti gli altri interessi cosiddetti “secondari”. Solo una norma di legge poteva qualificare come pubblico un interesse ed attribuirne la cura alla comunità nazionale o alle comunità minori (Province, Comuni, ecc.), espressione dei principi di autonomia e decentramento. In tal modo l’organizzazione della pubblica amministrazione, strutturata sul modello ministeriale di derivazione ottocentesca, disponendo di proprie risorse e dotata di autonomia in tutti i settori, rispondeva in maniera coerente ed efficiente al raggiungimento del “fine pubblico”.

I mutamenti legislativi, strutturali e politici degli ultimi due decenni hanno trasformato, in modo incoerente e disorganico, l’Amministrazione pubblica da complesso autoritativo e burocratico a “rappresentante” della comunità pluriclasse per cui anche la nozione di interesse pubblico è divenuta insufficiente a rappresentare le tensioni sociali. In più, il sovrapporsi del diritto comunitario e la cosiddetta globalizzazione dell’economia hanno determinato sostanziali mutamenti dei fini pubblici, così al posto della vecchia dicotomia tra “interessi legittimi individuali” e “interessi pubblici generali” la dottrina liberista sta imponendo quella tra «diritti di terza generazione» e «interessi pubblici emergenti». In particolare questi ultimi sono correlati alla nuova impostazione comunitaria derivante dal Trattato di Maastricht e dal Trattato di Amsterdam 2, nonché con la tematica della deregolamentazione che consegue al processo di integrazione europea.

Vi è quindi una nuova concezione dello Stato, la quale postula che i veri soggetti di diritto sono le “comunità”, cui spetta la sovranità ai sensi dell’art.1 della Costituzione e, a sua volta la nozione di interessi pubblici diviene inattuale, poiché il vero soggetto giuridico non è l’ente pubblico ma la comunità 3.

Ne conseguono importanti cambiamenti in ordine all’agire della PA

Le trasformazioni nell’amministrazione italiana conseguenti al processo di privatizzazione in atto nel nostro Paese a partire dall’inizio degli anni Novanta, si inseriscono nell’interno del tema più generale del principio di sussidiarietà, che gli studiosi ritengono vada intesa come «funzione sussidiaria dei pubblici poteri rispetto alle formazioni sociali naturali» 4.

Questa definizione, applicata ai rapporti tra Stato e mercato, significa che, il mercato per funzionare in modo corretto, non ha bisogno di alcun puntello esterno da parte dei pubblici poteri il che spinge gli economisti a minimizzare la necessità e il carico della regolamentazione (o regulation).

Il processo di privatizzazione – nella teoria neoliberista - avrebbe dovuto portare il miglioramento dell’efficienza e funzionalità del sistema economico a condizione che lo Stato, nel momento in cui rinunciava al ruolo di gestore, avesse dato vita ad una seria attività regolativa con strumenti che spaziano dalla fissazione di standard di comportamento delle imprese o di qualità dei prodotti e servizi all’obbligo per le imprese di fornire informazioni sui beni o servizi offerti; dal controllo sulle tariffe praticate specie nel settore dei servizi pubblici alla proibizione di pratiche anticoncorrenziali. Purtroppo il processo di privatizzazione, in mancanza dell’azione regolativa dello Stato, ha solo operato un trasferimento del monopolio dal pubblico al privato con la differenza che il privato è mosso dalle possibilità di lucro.

Comunque il ruolo assunto come proprio dai pubblici poteri in questa fase storica è cambiato e necessariamente cambiano anche gli strumenti organizzativi per l’esercizio del nuovo tipo di funzioni. Anche in questa fase il fervore antistatalista ha spinto a ritenere che le funzioni di indirizzo e programmazione delle attività economiche non potessero essere esercitate da apparati strettamente inseriti nel circuito democratico che ruota attorno all’asse Parlamento-Governo. Quindi sono nate le Agenzie (o Authority) di regolazione nel settore dei servizi pubblici caratterizzate – almeno in teoria - da un minor grado di politicità e da un maggior grado di specializzazione tecnica.

Il processo di privatizzazione, in atto da molto, affida alle Pubbliche Amministrazioni nuovi compiti che esse devono assumere tenendo conto della regola della sussidiarietà tra Stato e mercato.

Di conseguenza il ruolo dei poteri pubblici è reso ancor più complesso e articolato dal grado di sofisticazione dei mercati specie di quelli finanziari, dallo sviluppo tecnologico, dalla concorrenza sempre più accesa a livello europeo e mondiale, dall’emergere di nuovi interessi pubblici di rango primario (tutela dell’ambiente, tutela dei consumatori, ecc.) e si manifesta drammaticamente l’impossibilità delle PPAA a far fronte a questi nuovi bisogni rimanendo immutato il vincolo della legalità formale degli atti.

Gli atti del Governo Renzi, in coerenza con il criterio della sussidiarietà tra tipi di intervento regolativo, dovrebbero compiere un’opera di revisione dell’intera legislazione amministrativa per passare - dicono - da impianti normativi fondati sulla discrezionalità amministrativa a sistemi di regole certe che rendano facile agli operatori economici la programmazione della propria attività. In conclusione la “perfetta” impalcatura statuale è stata messa in crisi dall’emergere dei fenomeni della globalizzazione dei mercati e, per finire dall’emergenza ambientale.

In questo contesto abbastanza fluido della realtà politica e sociale il governo Renzi sta portando a termine la resa dei conti tra politica e dirigenza pubblica, un problema che vuole risolvere la sottrazione agli organi di governo dei poteri di gestione diretta, ovvero l’adozione di provvedimenti gestionali minuti e di risorse umane, finanziarie e di controllo. Comunque la dirigenza è vincolata dai programmi politici ad applicare tali competenze e a rispondere dei risultati ottenuti sul piano tecnico ad organismi di valutazione. Con questa riforma la politica si è sentita espropriata di una funzione ed esposta ai “freni” della dirigenza che nell’attuare i programmi politici non può che obbedire alle regole normative, finanziarie, manageriali che stanno alla base delle scelte; spesso, dunque, scantonando non tanto dai punti di arrivo immaginati dagli organi politici, quanto dai percorsi, dai tempi e, non poche volte, rispetto ai beneficiari.

I dirigenti, allo scopo di attuare in maniera tecnicamente corretta le direttive politiche, debbano poter agire con autonomia, non possono decidere gli obiettivi, né permettersi di non coglierli, ma il “come” e con quali mezzi è esattamente la loro funzione gestionale.

A questo scopo, occorre che la dirigenza non sia “fiduciaria” ovvero vincolata alle dinamiche politiche ed elettorali, potenzialmente incline a scelte “di parte” e non nell’interesse della Nazione, come prevede l’articolo 98 della Costituzione. Inoltre verrebbe a mancare quella necessaria continuità amministrativa, che assicuri l’attuazione delle politiche, spesso pluriennali, anche nella dinamica dell’alternanza delle forze politiche di volta in volta al governo.

L’idea è uno spoil system spinto fino all’inverosimile: per i dirigenti neo assunti, solo contratti a termine di tre anni; per la dirigenza di ruolo, la scelta fiduciaria nell’ambito di un albo, che a quanto si capisce, però, sarà aperto a chiunque, perché si vogliono eliminare i limiti percentuali all’assunzione di dirigenti esterni.

Scelte queste che non mirano a realizzare un’amministrazione efficiente, non di parte, utile ai cittadini ma del tutto coerenti con l’intento di creare un sistema autoreferenziale e chiuso, funzionale esclusivamente alla conservazione del potere conseguito da una certa parte politica.

Una commistione evidentissima tra politica e funzione amministrativa dirigenziale, acquisita per cooptazione, che certamente non dà esattamente l’idea dell’autonomia richiesta in capo ai dirigenti pubblici dalla legge e dalla Consulta.

Come si pone il Sindacato rispetto alle nuove funzioni delle Amministrazioni Pubbliche?

Accanto alle analisi, appare ora opportuno elaborare categorie nuove in grado di sostituire o per lo meno integrare istituti e concetti propri di una concezione dello Stato e del suo rapporto con i cittadini che questa classe politica ritiene debba essere rinnovata. In ciò procede però per limitate riforme senza mettere in mostra il disegno complessivo e quindi l’obiettivo finale.

In questo frangente il Sindacato deve fare un salto di qualità per porsi come interlocutore qualificato e credibile nella programmazione dei cambiamenti che saranno legiferati e che – in assenza di una strategia sindacale - sono lasciati solo alla libera iniziativa di coloro che finora hanno operato per il disfacimento dello Stato.

D’altra parte da più di un decennio il Sindacato è stato parte attiva nella riforma del Diritto amministrativo dove l’apertura alla società nelle diverse funzioni amministrative è ben sintetizzato dalla legge generale sul procedimento amministrativo del 1990, che si ispira ai principi di trasparenza ed è feconda d’istituti di partecipazione dei soggetti privati al procedimento amministrativo; ciò nel segno della fiducia e del rispetto dei cittadini e, nel contempo, della necessità dell’apporto valutativo di questi: si pensi alla conferenza di servizi, all’accordo di programma e all’istruttoria procedimentale, comportante l’obbligo per la P.A. di contemperare gli interessi pubblici con quelli privati emersi durante la sequenza procedimentale 5.

Infine i risultati della costante criminalizzazione dei pubblici dipendenti, oltre a ridurre ai minimi termini il perimetro dello Stato, hanno ormai portato ad una generica condanna della burocrazia che è ampiamente diffusa.

I cittadini dovrebbero essere portati a conoscenza del fatto che i lavoratori pubblici rappresentano l’ultimo ostacolo che si frappone al processo di smantellamento definitivo dei servizi pubblici, l’obiettivo politico è ridurli al minimo parallelamente alla riduzione dei servizi, colpevolizzarli per evitare una loro ribellione e ridurli all’obbedienza.

Note

1) Ugo Spirito – Dall’attualismo al problematicismo - Sansoni

2) Di cui alla legge n. 209 del 1998

3) Ciò ha avuto notevoli ripercussioni sulla natura del cd. danno erariale, perché questo non è più identificabile come “danno individuale alla persona giuridica pubblica”, ma va ricostruito come “danno alla comunità”, ossia alla collettività dei consociati

4) Cassese, L’aquila e le mosche - Principio di sussidiarietà e diritti amministrativi nell’area europea, Relazione al convegno internazionale in occasione dei 40 anni di attività della Scuola di specializzazione in diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione su Sussidiarietà e ruolo delle pubbliche amministrazioni, Bologna, 25 settembre 1995, che ricava questa definizione dalla Quadragesimo Anno emanata da Pio XI nel 1931.

5) G. PALMA, La pubblica amministrazione nella nuova prospettiva politica di valori costituzionali inesauribili, quali il decentramento funzionale ed il concorso partecipativo dei cittadini, in Foro amm., 1995, 1789 e ss.

S. CASSESE, Le trasformazioni del diritto amministrativo dal XIX al XXI secolo, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 1/2002,

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Mi sto battendo per costruire la nuova Federazione unitaria. Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil

di Antonio Passaro

Il Governo ha annunciato provvedimenti drastici contro i cosiddetti fannulloni: ora, potranno essere licenziati più facilmente?

Le norme per la sospensione e l’eventuale successivo licenziamento dei cosiddetti fannulloni, in realtà, già esistono da tempo. Spesso, però, non vengono applicate poiché i dirigenti che devono avviare il procedimento potrebbero essere chiamati personalmente ed economicamente a risponderne nel caso in cui l’accusa si rivelasse infondata. Questa non può essere una giustificazione. Tuttavia, basterebbe apportare qualche modifica al punto in questione per ottenere una maggiore efficacia e operatività dei provvedimenti vigenti.

Qual è la posizione della Uil su questa vicenda?

I dipendenti pubblici infedeli non solo assumono comportamenti indisciplinati o illegittimi, ma sono anche ladri della dignità dei milioni di dipendenti pubblici che, ogni giorno, si mettono al servizio del nostro Paese e che, spesso, devono sobbarcarsi anche il lavoro di chi si assenta. È giusto, dunque, sospendere i fannulloni e, se colpevoli, licenziarli, chiedendo conto anche ai dirigenti e ai politici che non hanno vigilato. Cacciare dalla PA questi soggetti - che, secondo alcuni studi, rappresentano il 2% dell’intera platea - è un atto dovuto verso tutti gli altri dipendenti pubblici e verso tutti i cittadini. Ecco perché la Uil si costituirà parte civile contro i fannulloni. Non vorremo, però, che questa vicenda si trasformasse in una sorta di alibi per il Governo.

In che senso?

Al Governo chiediamo altrettanta solerzia nel rinnovare i contratti. Oltre tre milioni di lavoratori attendono ormai da più di 6 anni di ottenere questo diritto: per il mancato rinnovo hanno già perso, mediamente, 3mila euro e, per i tagli subiti, hanno visto ridurre i loro stipendi di circa il 10%. Una condizione, questa, ingiusta e ormai insostenibile.

Alcuni giorni fa, Cgil, Cisl, Uil hanno approvato all’unanimità un documento sul sistema delle relazioni industriali e sul nuovo modello contrattuale. È anche un bel segnale nella direzione dell’unità sindacale.

Giusto. Un anno fa sarebbe stata impensabile che gli Esecutivi di Cgil Cisl Uil potessero approvare all’unanimità un documento su tali argomenti. Io continuo a insistere su questo punto: mi sto battendo per costruire la nuova Federazione unitaria e mi auguro che si riesca a raggiungere l’obiettivo. Intanto, abbiamo approvato unitariamente il nuovo modello sulle relazioni industriali. Per quanto ci riguarda, siamo partiti col piede giusto. Abbiamo inviato il documento alle parti datoriali. Noi partiamo sempre dalle proposte e dal dialogo. La finiscano, però, di dire che siamo in ritardo: loro sono in ritardo, si seggano al tavolo e discutano con noi.

Ci sono le condizioni per giungere a un’intesa con la parte datoriale?

Nella nostra proposta ci sono tutte le opportunità per far crescere la produttività, i salari, l’occupazione e il Paese. Se si vogliono cogliere questi aspetti, noi siamo pronti. Se invece si vuole fare da sponda a disegni liberisti per mettere i lavoratori sotto tutela degli imprenditori, non sempre e non tutti illuminati, non siamo d’accordo.

Il Governo ha parlato della necessità di introdurre il salario minimo per legge. Che ne pensi?

Non c’è bisogno di un intervento sul salario minimo. Confidiamo nel fatto che il Governo non si intrometta in questioni che riguardano le parti sociali.

Cambiamo argomento. Di recente, il nostro Governo ha incassato l’apprezzamento della Merkel a proposito del Jobs Act. Che ne pensi?

Alla Merkel piace il nostro Jobs Act? Ai lavoratori e ai giovani, no. Sto andando in giro per assemblee e questo giudizio negativo mi viene confermato ovunque. Non si discute l’intenzione, apprezzabile e condivisibile, di puntare con questo provvedimento a una crescita dell’occupazione e, soprattutto, a una riduzione della precarietà, ma gli effetti sono stati decisamente limitati se rapportati allo sforzo economico messo in campo e, quindi, alle risorse destinate all’operazione. Lo ribadisco in ogni occasione: abbiamo assistito a una sorta di “riciclaggio” dei posti di lavoro già esistenti piuttosto che alla determinazione di vera e propria occupazione aggiuntiva, stabile e definitiva. Dunque, i primi segni positivi ripetutamente magnificati dai fautori del Jobs Act sono poco significativi, non così rilevanti e, nel medio periodo, probabilmente non ripetibili.

Cosa bisognerebbe fare, allora, per creare occupazione?

Anche questo lo stiamo sottolineando ripetutamente. La verità è che per creare occupazione servono, innanzitutto, investimenti produttivi pubblici e privati e su questo fronte, sia in Italia sia in Europa, siamo fortemente in ritardo. Anche una politica contrattuale e salariale espansiva, improntata alla crescita, può rivelarsi utile a generare nuova occupazione. Un lavoratore con un potere d’acquisto più elevato, infatti, può contribuire alla crescita dei consumi consentendo, così, alle nostre aziende che operano per il mercato interno di mantenere stabile o, addirittura, accrescere la propria forza lavoro. Questi sono gli aspetti economici e di sistema su cui sarebbe bene intervenire, perché è così che si genera occupazione e ricchezza. Purtroppo, per creare lavoro non basta una legge.

Ci sono difficoltà anche nel settore industriale, a cominciare da quello della chimica con Eni che vuole cedere Versalis a un fondo americano. C’è il rischio di uno smantellamento del settore?

In effetti, temiamo un’operazione di dismissione della chimica italiana. È sbagliato svendere i gioielli di famiglia. La Uil ritiene che chimica, acciaio e alluminio siano strategiche per il nostro Paese. Il Governo deve rendersi conto che, per rispondere a esigenze di cassa, rischiamo di pagare cara l’uscita dai settori strategici e dall’industria di base. Peraltro ci sono già tensioni sociali su queste vicende: cerchiamo, dunque, di evitare decisioni sbagliate. Non vanifichiamo ciò che è stato realizzato nel corso degli anni, dobbiamo fare di tutto per restare il secondo Paese europeo nel manifatturiero. Speriamo che il Governo ci ascolti.

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