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GENNAIO 2015

LAVORO ITALIANO

Direttore Responsabile
Antonio Foccillo

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Autorizzazione del Tribunale
di Roma n.° 402 del 16.11.1984

Il numero scorso

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DICEMBRE 2014

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SOMMARIO

Il Fatto
Il Lavoro non è una merce da comprare - di A. Foccillo
Il 2015 deve essere l’anno della contrattazione. Intervista a Carmelo Barbagallo Segretario generale UIL - di A. Passaro

Sindacale
Crescita, sviluppo, lavoro, dignità, rispetto, confronto - di T. Bocchi
Voglia di riscatto! - di S. Roseto
Per un nuovo modello di rappresentanza sindacale nell’artigianato - di P. Briano
La politica di austerità non ha colpito gli sprechi ed i troppi privilegi e continua
ad accanirsi su settori strategici come la istruzione - di M. Di Menna
Se l’Italia piange, la Puglia non ride - di A. Pugliese

Attualità
Legge di Stabilità 2015 - a cura dell’Ufficio Politiche del Pubblico Impiego

Economia
Nuovo regime di tassazione dei rendimenti dei fondi pensione. Primi profili applicativi -
di M. Abatecola
Il quantitative easing - di G. Paletta

La Uil nei suoi congressi
L’economia nelle relazioni congressuali dei Segretari generali - Viglianesi -
Roma 6/8 dicembre 1953 - di P. Saija

Agorà
E se accadesse di nuovo? - di E. Canettieri
Cala l’oro nero, ma non il costo del biglietto Aereo - di G. C. Serafini

Inserto
Il grano sarà rosso, darà un pane bagnato di sangue - di P. Nenci

Inserto 1
Lavoro Italiano: Indice 2014 – di P.N.

Separatore

EDITORIALE

Il Lavoro non è una merce da comprare

di Antonio Foccillo

Un fatto ha sconvolto l’opinione pubblica occidentale: l’attacco terroristico alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo, avvenuto il 7 gennaio 2015 a Parigi. Nell’attentato sono state uccise dodici persone e undici sono rimaste ferite.

L’unanime condanna di questo assassinio è stata subito veicolata da televisioni, giornali, e vari social. Si sono subito avviate riflessioni e dibattiti in cui tutti hanno condannato giustamente la violenza. A Parigi hanno partecipato quasi tutti i leader del mondo per esternare non solo una unanime condanna al terrorismo jihadista ma anche la loro solidarietà al popolo francese espressa anche in molti altri paesi con manifestazioni pubbliche. Le forze dell’ordine e dell’intelligence dei paesi europei sono in stato di massima all’erta per contrastate e prevenire gli attentati che questo settarismo religioso ha programmato persino in Australia.

Vorrei che tutti riflettessimo su un dato: questo estremismo religioso non si ferma con il “bonismo”, con la tolleranza o l’integrazione, infatti, proprio la Francia, che è un esempio di integrazione e tolleranza verso i vari popoli, è stata attaccata. Per riflettere e decidere il da farsi, vorrei ricordare un altro episodio. Il 12 gennaio a Mosul sono stati uccisi 13 bambini a colpi di mitraglietta dai terroristi Isis, dopo un sommario processo li hanno messi in circolo e li hanno fucilati. La loro colpa era di guardare una partita di calcio, cosa che fanno normalmente milioni di bambini in tutto il mondo, e questo avrebbe violato i principi della sharia.

Nessun fondamentalismo religioso così violento e così repressivo può essere accettato e non vi può essere nessuna tolleranza. Questi atti vanno considerati terroristici anche quando avvengono all’interno dei Paesi musulmani e colpiscono mussulmani siano essi sciiti o sunniti. Non è scontro fra civiltà come qualcuno sostiene. E’ solo terrorismo ideologico e fanatico che va combattuto come qualsiasi altro terrorismo. Venendo alle nostre cose quotidiane è in atto un intenso dibattito sulle tematiche del lavoro e sui relativi provvedimenti del governo. Voglio solo fare delle considerazioni che possono sembrare “conservatrici”, ma che, a parer mio, sono sempre attuali. L’articolo 36 Cost. statuisce che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” e quindi per essere tale non può essere sempre e soltanto subordinata alla logica economica, che consente alla maggioranza dei lavoratori solo un minimo per la sopravvivenza che umilia le persone.

Un’economia basata sulla considerazione che il lavoro non è una merce da comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere sociale molto impegnative. In periodi di difficoltà economica la parola d’ordine è sempre stata la riduzione del costo del lavoro, ignorando la scarsa capacità imprenditoriale, le diseconomie molto forti, la corruzione che significava costi più elevati in quanto genera anche un aggravio per il sistema delle imprese. Inoltre l’elevato costo del lavoro è anche il risultato del drenaggio di risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente piuttosto che un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, che sono stati – secondo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il profitto di pochi. In definitiva il lavoro è stato sacrificato in favore di altri tipi di interesse. Da questo punto di vista, non si tratta di immaginare il mutamento tramite una rottura violenta dell’ordine costituzionale, ma piuttosto avviando una trasformazione della sensibilità politica, in grado di estendere per esempio il terreno di applicazione dei diritti.

Utilizzare la politica per negare diritti che – oggi – vengono percepiti come vitali, giusti e indispensabili, può apparire forse ragionevole da un certo punto di vista, ma piuttosto debole dal punto di vista politico, perché una norma priva di un sostegno, in senso lato, ‘politico’, difficilmente può resistere senza trasformarsi nell’oggetto di un’insofferenza diffusa e senza essere percepita come una ‘ingiusta’ violazione di diritti fondati. In altri termini, per quanto si possa ritenere doveroso che i principi fondamentali delle costituzioni vengano preservati e rispettati, non si può affatto escludere che quei principi vengano addirittura modificati, senza che – in via ipotetica – non vi sia una transizione verso un regime non democratico. E, soprattutto, non si può ipotizzare che quei principi – per quanto effettivamente ‘al di sopra’ del conflitto politico – possano completamente sottrarsi a un radicale mutamento politico, a una modificazione netta delle relazioni di potere e del contesto sociale.

La naturale reazione a queste vicende rischia innanzitutto, per estrema semplificazione, di assimilare il malcostume politico all’essenza stessa della democrazia, e l’insofferenza verso le autonomie, causata dagli effetti derivanti dall’assenza di controlli sulla gestione di fondi pubblici e ad una indifferenza preoccupante verso i partiti accredita l’idea che solo la gestione centralistica possa assicurare la virtuosità. I partiti, seppure in crisi di legittimità, sono strumenti indispensabili per la partecipazione dei cittadini allo svolgimento della vita politica. L’articolo 49 della Costituzione Repubblicana dispone che: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Certo è che i Partiti nel corso dei decenni hanno cessato di essere strumenti nelle mani dei cittadini organizzati per divenire sempre più centri di interesse, ancorché legittimi, e luoghi di gestione del potere reale totalmente avulsi dalle dinamiche e dalle logiche democratiche. In tal modo i Partiti Politici non hanno più rappresentato i luoghi di partecipazione diretta e di esercizio della democrazia perché sono stati percepiti come forze di occupazione dei luoghi del decidere, infezioni degli spazi democratici.

Oggi purtroppo, nella maggioranza dei paesi della democrazia liberale, il sistema di rappresentanza sta attraversando una crisi di legittimità, che si esprime nell’astensione elettorale, nell’apatia e nella non partecipazione politico-sociale e nei bassi indici di adesione ai partiti.

Le cause variano tra i diversi paesi, ma in generale si può affermare che i principali risiedono:

- nella mancanza di controllo degli elettori e/o del partito sugli eletti;

- nei sistemi elettorali che distorcono la rappresentanza, frodando la volontà popolare, attraverso dei meccanismi e/o sbarramenti che ostacolano i partiti minori;

- nei cambi di schieramento senza perdita di mandato.

Ma la causa principale sta nella progressiva privatizzazione della politica messa in atto dai poteri finanziari internazionali.

Di fronte al tentativo in atto di privatizzare e comprimere i soggetti della democrazia, bisogna reagire per ricostruirne l’autorevolezza e la legittimazione. Ristabilire le connessioni della società alle istituzioni, in assenza delle quali la convivenza civile viene meno e una comunità politica si sfalda, precipitando nella decivilizzazione. Tutto ciò nonostante le azioni di una parte rilevante del ceto politico italiano giustifichi le ragioni dell’antipolitica e la qualità della rappresentanza sia profondamente degradata e questo processo degenerativo non abbia trovato nelle élites anticorpi adeguati, bensì spesso collusioni interessate. Tutti sintomi che sembrano preparare l’eclissi della democrazia stessa, che prelude non ad un vero e profondo cambiamento, ma a possibili fuoriuscite autoritarie dalla crisi, nuove deleghe in bianco alla tecnocrazia o al populismo.

L’alternativa proposta a questa crisi di legittimità, che prescinde dall’analizzarne le ragioni strutturali e le conseguenze pericolose, è ridurre il peso della rappresentanza sostituendo alla politica la tecnica, come se questa fosse neutra e di per sé legittima. Se tutto questo è vero allora il problema, che anche il sindacato deve porsi: è come ripristinare condizioni in cui si riaffermino partecipazione e democrazia, pluralismo e valori, dignità per chi lavora e riscatto dei lavoratori. Il sindacato deve partecipare alla discussione sulla politica e nei partiti. Non si può continuare a stare fuori ed essere agnostici.

Troppo tempo si è già perso e non se né può perdere altro. I cittadini, l’hanno dimostrato con l’astensione al voto nelle ultime elezioni, non si sentono più rappresentati né tutelati. Non possiamo lasciare che questo sentimento diventi generalizzato. Il sindacato, com’è sua tradizione, deve contribuire a cambiare questa realtà di inaccettabile regresso civile, sociale e politico, ma lo deve fare presto prima che la situazione peggiori ulteriormente.

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Il 2015 deve essere l’anno della contrattazione. Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil

di di Antonio Passaro

Apriamo questo primo numero del 2015 con una notizia che giunge mentre stiamo chiudendo queste pagine: verso le 14 del 31 gennaio, il Parlamento in seduta comune ha eletto Capo dello Stato, al quarto scrutinio, Sergio Mattarella. Qual è il tuo commento a caldo?

Intanto, al nuovo Capo dello Stato esprimo, a nome mio personale e della UIL tutta, calorose felicitazioni e sinceri auguri di buon lavoro. Ho avuto il privilegio di conoscere Sergio Mattarella negli anni della sua attività in Sicilia: è un uomo che ha il senso innato dello Stato e del servizio alla collettività. Sono certo che sarà un grande Presidente della Repubblica, garante della Costituzione e della democrazia.

Il primo pensiero di Mattarella, uomo di poche parole, è stato rivolto alle difficoltà e alle speranze degli italiani...

È un pensiero che dimostra la serietà di Sergio Mattarella. Io credo che sarà un ottimo Presidente della Repubblica e che saprà interpretare sino in fondo le aspettative dei nostri concittadini. Poco prima delle sue dimissioni, Napolitano aveva auspicato un ritorno alla normalità delle regole istituzionali. Penso che sotto la Presidenza Mattarella ciò sarà possibile e si potrà anche affrontare la crisi che stiamo vivendo per dare risposte ai lavoratori e ai pensionati del nostro Paese. Primo siciliano alla guida dello Stato, Sergio è una personalità importante: da lui possiamo aspettarci molto.

Proprio in questi ultimi giorni, prima il centro studi della Confindustria, poi la Banca d’Italia e, infine, l’Istat hanno diffuso dati incoraggianti per l’anno in corso. A viale dell’Astronomia, in particolare, stimano una crescita sensibile del Pil. Qual è la tua opinione?

Prendiamo atto che la Confindustria ha elaborato una stima molto positiva dei dati economici per il 2015. Questa ventilata ripresa, impensabile sino a qualche giorno fa, del Pil e dell’occupazione, però, non può che avere un corollario: un incremento dei profitti per le imprese. Dunque, ci saranno tutte le condizioni per ottenere altrettanto considerevoli miglioramenti delle condizioni economiche dei lavoratori oltreché dei loro diritti, ora ridimensionati dagli interventi governativi.

Tu hai parlato del 2015 come anno della contrattazione. Questi dati rafforzano il tuo convincimento?

Noi speriamo, per il nostro Paese, che queste previsioni siano confermate. In tal caso, a maggior ragione, gli imprenditori non possono più accampare alibi: il 2015 deve essere l’anno della contrattazione. Gli imprenditori, dunque, si preparino a rispondere positivamente alle nostre rivendicazioni sia sul fronte dei rinnovi contrattuali sia su quello delle vertenze per il ripristino delle tutele perdute. Se si considera che, in questi anni, c’è stato un aumento esponenziale della tassazione locale, è del tutto evidente che il potere di acquisto dei lavoratori si è notevolmente ridotto. Gli incrementi salariali, peraltro, sono necessari per riattivare i consumi a beneficio dell’economia nazionale, considerato che le aziende che hanno sofferto maggiormente la crisi sono proprio quelle che producono per il mercato interno.

Sono molte le categorie in grandi difficoltà sul fronte dei rinnovi contrattuali. Oltre all’enorme problema per il pubblico impiego, in questi giorni ha tenuto banco la vertenza dei bancari. Sono anche situazione simbolo di quella che potremmo definire una “crisi contrattuale”...

È vero, sono circa 9 milioni i lavoratori di varie categorie che attendono il rinnovo del loro contratto. Dopo il pubblico impiego, i banchieri: l’attacco ai diritti contrattuali è partito da queste due realtà. Venerdì 29 gennaio hanno scioperato i lavoratori del credito per rivendicare il diritto ad avere il rinnovo del loro contratto, ma questa è una battaglia che riguarda tutti i lavoratori, perché c’è un problema complessivo che riguarda tutti. Nel nostro Paese è in atto il tentativo di mettere in discussione il principio costituzionale della contrattazione ed è a questa deriva che bisogna porre un argine. Il rischio concreto è che il passaggio successivo sia quello dell’imposizione del salario minimo, e cioè di un ulteriore drastico livellamento verso il basso delle retribuzioni in tutti i settori.

A proposito della vertenza dei bancari, l’ABI ha dato disdetta unilaterale dei contratti. Lo sciopero e riuscito bene. E ora?

Noi vogliamo lottare insieme ai lavoratori delle banche affinché ottengano il loro contratto e perché poi lo ottengano anche tutti gli altri lavoratori. L’ABI deve sapere che i contratti si devono fare. E se non vorranno farli, gli promettiamo lotte crescenti. Quando parlo di stagione contrattuale dico anche che faremo le azioni di lotta in tutti i settori interessati alla contrattazione, dal pubblico impiego ai settori del privato.

Cambiamo argomento. In un’audizione alla Commissione lavoro della Camera dei Deputati hai confermato le tue forti perplessità sul Jobs Act. Qual è la tua preoccupazione?

Sono molto preoccupato per quello che accadrà con le false partite IVA e con i voucher, il cui utilizzo determinerà la peggiore precarietà possibile. Molte aziende, in realtà, stanno aspettando che i decreti vadano in vigore, per risparmiare. Nel frattempo, è vero che è diminuito il ricorso alla CIG, ma è altrettanto vero che sono aumentati i sussidi di disoccupazione. Dunque, molti sono stati licenziati. Non solo, dovremmo prevedere il reato di riciclaggio dei posti di lavoro, perché molti potrebbero licenziare chi ha un contratto più tutelato e potrebbero riassumere con quello a tutele crescenti, anzi a “tutele calanti”. La verità è che con questo sistema si sono modificati i rapporti di forza tra datori di lavoro e lavoratori a danno di questi ultimi. E noi cercheremo di riprenderci nelle aziende, con la contrattazione, quello che i lavoratori hanno perso a causa di tale provvedimento.

L’Europa ha deciso di intervenire con la Bce nell’acquisto del debito pubblico dei paesi membri e di attuare, dunque, il famoso Quantitative Easing. Come valuti questa scelta?

La decisione sul Quantitative Easing è importante, ma non è affatto scontato che abbia ricadute positive sull’economia reale e sull’occupazione in Europa e, in particolare, nel nostro Paese. Aumenterà la liquidità ma bisognerà poi vedere come sarà utilizzata dalle banche, che saranno comunque le principali beneficiarie dell’operazione. L’unico vero ricostituente per lo sviluppo dell’economia sarebbe rappresentato da investimenti pubblici e privati, ma di questi c’è solo una traccia molto vaga.

A questo proposito, il vice Presidente della Commissione europea, Katainen, ha incontrato le parti sociali per illustrare il piano Junker sugli investimenti. In quell’occasione hai espresso molte perplessità: perché?

La proposta dell’Europa é basata su una condizione virtuale: è fondata su un meccanismo moltiplicatore la cui effettività è tutta da dimostrare. Gli investimenti, dunque, sono virtuali, ma anche insufficienti. Katainen ha parlato di 315 miliardi di euro. Ebbene, gli Usa stanno investendo 1.000 miliardi di dollari l’anno e così possono arrivare a un incremento del Pil di oltre il 3%: noi, in Europa, nella più ottimistica delle previsioni, ci fermiamo a 100 miliardi di euro. Troppo poco per scommettere su un effetto positivo di questa politica sulle economie disastrate di molti Paesi dell’Unione, a partire dall’Italia.

Tuttavia, Katainen ha confermato l’intenzione di proseguire nel dialogo sociale...

Sì, questo è un fatto decisamente positivo di cui diamo atto al vice Presidente della Commissione europea e che risalta ancor di più a fronte della ritrosia al dialogo del nostro Presidente del Consiglio. Katainen, peraltro, ha confermato che l’Italia è uno dei Paesi dell’Unione che utilizza meno degli altri i fondi a esso destinati. È grave che i nostri soldi non si spendano, mentre ci sono paesi in Spagna e in Portogallo dove si sono fatte opere con quelle stesse risorse che erano a nostra disposizione e che non abbiamo utilizzato. Se non invertiamo questa tendenza, crescita e occupazione resteranno solo vuote parole e anche le poche speranze andranno deluse.

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