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LAVORO ITALIANO

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SOMMARIO

Il Fatto
Il sindacato deve rivendicare il rispetto del suo ruolo, perché è parte essenziale della democrazia - di A. Foccillo
Anche questo Governo lo misureremo dai fatti, a cominciare dalla capacità di ridurre le tasse sul lavoro e di tagliare, davvero, gli sprechi e i costi della politica. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale UIL - di A. Passaro

Sindacale
Rappresentanza: mentre tutto cambia non possiamo stare fermi - di R. Palombella
Un 8 marzo senza confini - di M. P. Mannino
Il mosaico Italia che perde i pezzi (V) - di P. Nenci
Cosa ci insegnano le vicende Electrolux e FIAT? - di E. Canettieri

Società
Nichilisti d’Italia - di G. M. Fara

Economia
I sogni son desideri: Letta e il calo delle tasse, Saccomanni e la ripresa economica, Cottarelli e la Spending Review - di G. Paletta
Le banche prima di tutto - di E. C.

Attualità
Autostrade: meno viaggi meno sconti - di G. C. Serafini

Agorà
Una storia bella! - di A. Carpentieri
Scenari e progetti possibili - di S. Pasqualetto

Il Corsivo
Il renzismo - di P. Tusco
Superman - di P. T.

Il Ricordo
Aurelio e Gianni: due maestri di vita e di sindacato - di C. Fiordaliso

Cultura
Dallas Buyers Club, di Jean Marc Vallée - di S. Orazi

Inserto
Marzo 1944, primavera di lotte e di speranze - di P. Nenci

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EDITORIALE

Il sindacato deve rivendicare il rispetto del suo ruolo, perché è parte essenziale della democrazia

Di Antonio Foccillo

Si è avviata la fase congressuale e, oggi, più delle altre volte per la molteplicità e difficoltà delle situazioni politiche, economiche, produttive, occupazionali e sociali, deve essere un’occasione che sia un’opportunità di verifica, di incontro e di confronto. Stiamo elaborando le tesi con un meccanismo diverso rispetto al passato, cioè costruendole con la partecipazione dell’organizzazione, perché abbiamo ravvisato la necessità di riflettere insieme e non su un testo precostituito, e vogliamo approfondire comunemente il percorso da intraprendere. Siamo, infatti, convinti che in nostro ruolo ci imponga anche delle verifiche, degli spazi nei quali fermarci ad analizzare le nostre scelte, per poi arricchirle di nuove. Sono essenzialmente tre i motivi di verifica:

Se questo è dunque il percorso di verifica il mezzo non può essere che la discussione, il dibattito, l’aperta dialettica, interna, ma anche all’esterno con i soggetti istituzionali, politici e sociali. Partendo da quale è il ruolo che il sindacato vuole svolgere nella società, oggi. “Il sindacato deve trovare la sua dimensione di soggetto politico per il rafforzamento della democrazia e la modernizzazione economica del Paese visti, non tanto quanto valori in sé, quanto come la condizione preliminare perché i lavoratori possano proseguire il cammino verso la completa emancipazione.” Sembra la via da percorrere oggi, e, invece, tale assunto era la dottrina ufficiale della socialdemocrazia e ribadita da Turati nel gennaio 1894 ai primi vagiti del socialismo italiano.

La violenza rivoluzionaria era dichiarata incompatibile con l’essenza vera del socialismo. Ciò che contava era il moto lento, ma sicuro, del proletariato verso l’emancipazione economica e politica, attraverso la conquista democratica del consenso e lo sviluppo. Nel 1906 il dibattito socialista propose, per la prima volta, anche la trasformazione del sindacato di mestiere in sindacato d’industria, in quanto la ristrutturazione interessava molti settori. Questioni nuove si affacciavano, non solo interne sul piano dell’organizzazione del lavoro, ma anche esterne sul piano della concentrazione dell’impresa. Il controllo del mercato del lavoro e del collocamento diveniva essenziale proprio per rafforzare il ruolo del sindacato dentro e fuori della fabbrica. La formazione di una moderna legislazione del lavoro, la creazione di organismi giurisprudenziali, la definizione della medicina del lavoro, il perseguimento di una legislazione sociale e di tutela, la lotta contro la disoccupazione e per il controllo del mercato del lavoro, la politica di intervento sulle condizioni di vita delle masse popolari (carovita, alloggi popolari, ecc.) spingevano verso un sindacato nazionale.

Nei settori dell’istruzione, della salute, dell’igiene, della giustizia, dei trasporti e dei servizi essenziali, il riformismo socialista si faceva paladino non solo della difesa degli interessi di categoria in nome della valorizzazione della professionalità, ma anche della riforma dei servizi in relazioni alle nuove funzioni di uno stato moderno e democratico. Questi valori di allora prefiguravano già l’azione del partito socialista e del sindacalismo riformista, ma sono ancora attuali e possono essere tranquillamente riproposti alla discussione di oggi. Il Sindacato in questo frangente, ha ancora una volta, come in passato, l’opportunità di contribuire a dare prospettive positive alla società, finalizzando la sua partecipazione a sostegno di politiche economiche e sociali utili ad appianare gli squilibri e ridurre la povertà. Per questo l’impegno a tutti i livelli non può che essere rivolto a ricercare soluzioni di dialogo, fra le diverse componenti sociali e politiche, e di partecipazione in modo da costruire un progetto unico. Bisogna imporre una nuova visione della società riprendendo la battaglia per riprecisare i contenuti di una società più giusta e più equa dove siano salvaguardati la persona e i diritti di cittadinanza in tutti gli aspetti.

Queste tematiche però non possono prescindere dalle problematiche europee. Infatti, gli Stati europei si trovano oggi di fronte alla necessità di aumentare l’occupazione e gli investimenti mentre sono costretti allo stesso tempo a ridurre le spese per favorire il rientro dal debito e a “fare cassa” per mantenere i servizi essenziali al funzionamento dello Stato. Ma il sindacato deve opporsi efficacemente all’operazione in atto che prevede un riequilibrio delle finanze ed una diminuzione del debito semplicemente liberandosi dagli oneri derivanti dalla protezione degli strati sociali più deboli e dal mantenimento di una serie di servizi pubblici a suo tempo considerati essenziali per promuovere lo sviluppo economico-sociale e oggi ritenuti un fardello. La riduzione continua dello Stato sociale si basa sulla scusa di cercare di mantenersi competitivi in un mercato globale in cui sussistono gravi squilibri e dove si sta ampliando il confronto per l’entrata in scena di nuove potenze.

E’ anche da considerare che l’Europa con una moneta senza Stato, preoccupata di difendere esclusivamente la stabilità dell’Euro non ha una politica industriale europea da ciò dipende anche l’assenza di un confronto credibile tra rappresentanze sindacali di respiro europeo e un sistema di potere democratico europeo alternativo a quelli nazionali. Il sindacato deve costringere le classi politiche dirigenti, a livello nazionale ed europeo, a pensare il futuro. Anche nella cosiddetta economia del debito, una corretta concezione politica economica nazionale, seppure inserita in un contesto di economia globale, dovrebbe distinguere tra investimenti e spese superflue che non sono i consumi, poiché i primi servono per creare ricchezza futura ed i secondi servono a vivificare l’economia reale. Il movimento sindacale non può consentire che lo Stato del benessere, cioè lo Stato che con la sua presenza nell’economia ha favorito il mantenimento di una società più equilibrata, sia destinato ad entrare in crisi e, con esso, a incrinarsi pericolosamente il “contratto sociale”, il patto di solidarietà, su cui si fonda. E’ vero che la sopravvivenza di un simile patto è ormai messo apertamente in discussione negli Stati nazionali europei ed il problema oggi non è più se questo patto potrà essere recuperato a livello nazionale, ma se sarà possibile recuperarlo a livello europeo, dove le istituzioni dell’Unione europea non solo sono inadeguate per far fronte alle sfide di fronte alle quali si trova la società europea, ma appaiono ai più non riformabili, perché non esiste ancora un quadro statuale europeo collegato al sistema economico sociale europeo.

La salvaguardia di un modello di Stato sociale nell’era della globalizzazione dipende dalla possibilità di creare un’Unione Europea e politica con ad esempio una federazione di stati europei, a partire dall’Eurozona o da alcuni suoi paesi chiave. Se ciò non si realizzerà verranno meno le condizioni per mantenere la solidarietà fra le diverse regioni europee, privando i popoli, non solo quelli europei, di un modello di riferimento per promuovere uno sviluppo più giusto e sostenibile a livello internazionale. E’ necessario quindi proporre una iniziativa politica a livello europeo per ripristinare condizioni di equilibrio nella gestione delle risorse a favore dell’intera collettività e non solo dei paesi egemoni. Noi, come gli altri paesi europei, avevamo accettato di rinunciare a parte della sovranità per riconoscerla ad un’istanza sovraordinata, ma questa ipotesi non si è ancora realizzata, né tanto meno può essere soddisfatta dalla egemonia tedesca. Senza un potere centrale forte e democraticamente legittimato le regole comuni non resistono a negoziati tra governi nazionali formalmente pari fra loro e sostanzialmente in conflitto. Pertanto, il sindacato nel rivendicare un governo politico europeo deve proporre la modifica dei Trattati soprattutto perché la Banca Europea, non resti solo a guardia dell’inflazione, ma venga dotata della capacità di emettere moneta, favorendo così lo sviluppo, possibile, solo se gli investimenti e le spese non vengono considerati quali fattori di debito, ma fattori di sicura crescita e progresso.

Questo si può fare a condizione che si modifichi l’attuale sistema escludendo gli investimenti in sviluppo e occupazione dalla tagliola rapporto deficit/Pil. Il sindacato deve proporre nuovi modelli economici e sociali, per avviare uno sviluppo economico diverso, non più solo mercantile, considerando le modalità di un lavoro a valenza sociale complessiva. Bisogna uscire da una logica difensiva, riproporre come centrale il problema del sociale e ripartire all’attacco anche con obiettivi intermedi, ma ben definiti e caratterizzati. Un nuovo modello di crescita economica, un forte progetto di rinnovamento che riaccenda le speranze sopite con una seria e corretta politica sociale non più basata sull’assistenzialismo e le spese improduttive, ma un percorso verso un progetto di una reale democrazia economica del sociale e del lavoro può ancora realizzarsi. Il “settore” produttivo si sta riducendo, in Italia, a categoria virtuale perché non si è riusciti a limitare la differenza di produttività e competitività delle nostre aziende, conseguenza del loro diverso grado di innovazione ed internazionalizzazione. Tutto ciò, ha una valenza sul movimento sindacale perché indebolisce il ruolo della contrattazione nazionale ed apre nuovi spazi alla contrattazione aziendale. Infine non si può dimenticare che sull’avvenire dei Sindacato incombe, non solo la netta riduzione della consistenza e della forza della classe operaia che trovava nel settore manifatturiero il suo ambiente privilegiato, ma anche l’accentuazione della divisione all’interno del mercato del lavoro tra ceti proletari esposti al declino e l’esercito di riserva di origine straniera, tra “disoccupati cronici” e “giovani precari.

Di fronte a questa preoccupante bipolarizzazione il Sindacato deve ritrovare la sua azione di soggetto politico perché questi fenomeni rischiano di minare la rappresentatività e la tradizionale forza democratica del Sindacato italiano. In Italia e soprattutto in Europa manca finanche un dibattito sulla crisi e sono assenti iniziative adeguate per un progetto capace di ridare al progetto europeo consapevolezza dei suoi problemi e dei suoi possibili destini. Il Movimento sindacale deve assolutamente trovare la chiave giusta per affrontare questa realtà e trovare la forza sufficiente per contrastare i processi in corso. Anni di denunce e di lotte, di scioperi e trattative hanno messo in evidenza le ragioni e l’indignazione dei lavoratori ed hanno prodotto grandi manifestazioni di protesta, senza riuscire però ad aprire nuovi sentieri di sviluppo e di occupazione. Il fatto è che i governi nazionali avevano delegato la loro politica economica alle ottuse politiche iperliberiste dominanti in Europa quindi era qui che bisognava intervenire e non sul governo nazionale. Bisognerà quindi risolvere il paradosso che gli Stati, i Partiti e i Sindacati rimangono nazionali, mentre l’economia reale sta diventando sempre più globale e la globalizzazione non si serve delle istituzioni democratiche, ma le contrasta e le indebolisce.

Cogliere questa complessa natura della crisi ci permette di capire meglio le dinamiche in corso nel nostro paese come nell’Unione Europea e nel mercato mondiale. Non ci fornisce risposte su come far fronte ai processi in corso, ma ci dà nuova e più forte consapevolezza del bisogno urgente di un’Europa politica, degli Stati uniti d’Europa, perché se la competizione avviene e si svilupperà tra filiere globali, la piattaforma europea è, non solo per il nostro paese, l’unica possibilità di conservare un posto di rilievo nell’economia mondiale. Sul piano sindacale diventa urgente dare forma e concretezza a nuove relazioni industriali in sede europea, liberandosi dalla prigionia dell’emergenza e allargare il campo di analisi ed azione, per rispondere in maniera efficace alle trasformazioni in corso. Non è certo un processo semplice e non tutto dipende dal Sindacato, che comunque deve agire per spingere l’Unione europea a superare la via cieca dell’austerità senza crescita e senza giustizia sociale e spingere il governo nazionale a riappropriarsi delle politiche di lungo periodo.

Noi pensiamo sia necessario intervenire nelle dinamiche del cambiamento, dobbiamo rispondere all’offensiva liberista con una visione alternativa, ponendo in evidenza il tema della democrazia economica basata su un corretto rapporto tra capitale e lavoro ed elaborare una nostra ipotesi circa l’economia della conoscenza, connessa alla rivoluzione tecnologica, proprio perché il sapere e non più la quantità di lavoro sta diventando la principale fonte della ricchezza.

Noi riteniamo che il sindacato debba rivendicare il rispetto del suo ruolo, perché nonostante la sua complessità e l’attuale fase critica dell’associazionismo in generale esso è parte essenziale della democrazia. La contrapposizione sindacale a questo progetto, mossa dall’impegno istituzionale del sindacalismo confederale passa per la difesa della giustizia sociale, non può più limitarsi all’ambito del posto di lavoro né tantomeno dei soli lavoratori occupati, bensì deve espandersi in un’azione unitaria che si deve sostanziare sia nei confronti delle comunità locali, sia a livello nazionale per riorganizzare ed unificare lavoratori precari e non, giovani in attesa di lavoro e lavoratori atipici, cittadini e famiglie in difficoltà pressati dal fisco, tutti insieme uniti per rivendicazioni basate sulla giustizia sociale, recuperando, soprattutto, il ruolo di partecipazione nelle scelte di politica economica.

Separatore

Anche questo Governo lo misureremo dai fatti, a cominciare dalla capacità di ridurre le tasse sul lavoro e di tagliare, davvero, gli sprechi e i costi della politica Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale UIL

di Antonio Passaro

Angeletti, allora, abbiamo un altro Governo. Matteo Renzi, il nuovo Presidente del Consiglio, nel suo primo discorso al Senato, ha dato mostra di voler procedere verso rapide soluzioni. Hai detto che avresti votato la fiducia: ti è piaciuto il suo intervento di insediamento?

Renzi ha usato parole giuste: speriamo che seguano azioni coerenti. Noi non vogliamo più proclami, ma decisioni. Il nuovo Governo non declini la sua agenda al futuro, ma al presente: faccia, non prometta. E la prima cosa da fare è rilanciare l’economia, a partire da una consistente riduzione delle tasse sul lavoro. Se poi ci fosse qualche incertezza, siamo anche pronti a suggerire soluzioni che non incidano sul bilancio pubblico. Come è sempre stato con tutti i precedenti Governi, anche questo lo misureremo dai fatti, a cominciare dalla capacità di ridurre le tasse sul lavoro e di tagliare, davvero, gli sprechi e i costi della politica. A Renzi e ai nuovi ministri, comunque, esprimiamo i nostri sinceri auguri, anche perché gli italiani hanno diritto ad avere un Governo che risolva finalmente i loro problemi.

In questi anni abbiamo assistito ad una seria crisi del sistema politico che non ha avuto la capacità né la forza di fare scelte adeguate alle effettive necessità del Paese. Quanto sono importanti le riforme istituzionali anche per riattivare i processi economici?

La nostra attenzione ai processi che dovrebbero condurre alla costruzione di nuovi assetti istituzionali deve essere massima e fattiva. La definizione di nuove regole, infatti, è fondamentale anche per rinnovare l’incisività e l’efficacia della nostra azione a tutela di quelle categorie che rappresentiamo e che subiscono gli effetti del deterioramento del quadro istituzionale. C’è sicuramente una questione aperta che attiene alla modifica della legge elettorale, ma non è questo l’unico problema da risolvere.

Continua ad esserci, infatti, un problema di governabilità. Come va affrontato?

Negli ultimi anni, è stato dimostrato che non è sufficiente la definizione di una maggioranza per assicurare la governabilità. La riforma elettorale, dunque, deve essere propedeutica alla riforma della Costituzione materiale. In questo quadro, le modifiche delle norme del Titolo V, con una riduzione dei livelli decisionali istituzionali, e l’eliminazione del Senato, nella sua configurazione e nelle sue funzioni odierne, costituirebbero un passo importante verso un riequilibrio e una maggiore fluidità del sistema. Oggi, siamo in una condizione in cui, a causa dell’incapacità della politica di assumere decisioni, il potere burocratico e, a volte, anche quello giudiziario possono sterilizzare alcune scelte utili allo sviluppo del Paese. Questo meccanismo non funziona: i cittadini ne subiscono i danni e, poi, gli attriti si riverberano sui corpi intermedi.

Il nuovo Presidente del Consiglio sembra intenzionato a partire proprio dalle regole sul mercato del lavoro. Cosa ne pensi?

Siamo stanchi di annunci e siamo pronti al confronto sulle proposte. La questione è che le regole possono ostacolare o facilitare la decisione delle imprese di investire e quindi di assumere. Sarebbe, però, preferibile che fossero le stesse aziende a indicare le regole più idonee a favorire i loro investimenti e, quindi, le conseguenti assunzioni. Resta il fatto che, purtroppo, i posti di lavoro non si creano per legge. In questi anni la disoccupazione è cresciuta seguendo l’andamento dell’economia. La priorità resta quella di realizzare, sul serio, politiche che possano agevolare le opportunità di lavoro.

Queste politiche le ripetiamo da anni, ma sino ad ora nessuno le ha mai attuate...

Sì, è così: le politiche che noi vorremmo sono ben note. Tagliare le tasse sul lavoro, semplificare la burocrazia, non rendere difficile la vita alle imprese, fare investimenti, ridurre i costi dell’energia: sono questi gli interventi che possono favorire la creazione di posti di lavoro. È questo il cuore di una politica economica finalizzata a tale obiettivo e di cui il taglio delle tasse sul lavoro rappresenta lo strumento più veloce ed efficace per ricreare un circolo virtuoso.

E le risorse per fare questa operazione? Ribadiamo anche questo concetto?

È vero, anche questo lo abbiamo ripetuto centinaia di volte: bisogna destinare le risorse derivanti dalla spending review al taglio dei costi del lavoro. Siamo in condizione - come è ben noto - di spiegare a tutti che si possono ottenere molti miliardi di maggiori entrate e di minori spese facendo operazioni sui costi della politica. E non è che questi soldi siano nascosti, è facile individuare dove sono: bisogna solo fare delle scelte.

Analizzando le difficoltà della nostra economia, hai avuto parole piuttosto dure nei confronti degli imprenditori. Quali sono le loro responsabilità?

Io credo che se l’economia va male è anche perché non tutti i capitalisti sono poi così bravi a fare il loro lavoro. Alcuni sono troppo opportunisti e vogliono fare affari solo quando sono sicuri di aver un tornaconto. A questo proposito è stata addirittura coniata un’espressione: il capitalismo di relazione. Ciò vuol dire che alcuni pensano che, per fare gli imprenditori, non sia necessario avere buone idee e investire, ma bisogna avere buone relazioni. Così non può funzionare.

Hai sostenuto che la recente definizione del testo unico sulla rappresentanza, grazie al quale è stata modificata la Costituzione materiale delle relazioni sindacali, comporterà anche un rinnovamento del rapporto con il sistema delle imprese. In cosa si dovrebbero sostanziare queste diversità?

Da questa crisi economica le imprese non usciranno uguali a se stesse: anzi, stanno già cambiando. Ad oggi, noi non abbiamo strumenti legali che ci consentano di intervenire nelle loro vicende e di influire sulle decisioni che determinano cambiamenti degli assetti strategici. È giunto il momento di rimediare a questa lacuna. Le aziende non sono tutte uguali e non esiste una sola opzione per potere partecipare all’evoluzione dei loro processi decisionali. Qualunque siano le soluzioni specifiche e differenziate da adottare, questa è una scelta che occorrerà comunque fare.  

In conclusione, parliamo di INPS: ci sono state novità importanti con la nomina a commissario di Vittorio Conti. Resta il problema della riforma della governance. Come si risolve?

Governo e Parlamento hanno il diritto e il dovere di nominare chi amministra l’Ente. Gli azionisti, coloro che lo finanziano, hanno il diritto di controllare che l’amministrazione sia tenuta secondo i loro interessi. Noi non vogliamo mettere mano alla gestione, ma è chiaro che deve esserci un Civ, composto dalle parti sociali, che abbia il diritto di votare il bilancio e non un Cda fatto da partiti.

E a proposito, poi, di Inps e di pensioni, va affrontata anche la questione della separazione della previdenza dall’assistenza. Si riuscirà a sciogliere quest’altro irresoluto nodo?

Sono anni che la UIL, anche per questo motivo, esprime un parere negativo sul bilancio dell’INPS. Bisogna separare la previdenza dall’assistenza: la prima va pagata con i contributi versati nel corso di una vita di lavoro, la seconda va sostenuta con la fiscalità generale.

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