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FEBBRAIO 2007

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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DICEMBRE 2006/GENNAIO 2007 

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SOMMARIO

Editoriale
E’ un problema sociale, di Antonio Foccillo

Intervista
Intervista a Luigi Angeletti, di Antonio Passaro
Intervista a Franco Frattini, di Antonio Foccillo
Intervista a Franco Foschi, di Piero Nenci

Sindacale
Lavoro pubblico: Sindacati e Governo, di Paolo Pirani

Attualità
Class Action, maggiori diritti ai consumatori, di Lamberto Santini

Il ricordo
Ricordo di Italo Viglianesi Primo Segretario UIL

Approfondimento
Dal riciclaggio alle crisi finanziarie, di Antonio Foccillo e Giovanni Paletta

Europa
Iniziativa Sindacati europei, di Guido Moretti
Le vicende della direttiva Bolkestein, di Angelo Ponti

Convegno UIL ‑ 23 gennaio 2007
Pensioni: incentivi e libertà, di Domenico Proietti

Mercato del lavoro
Lavoro Sans phrase, di Tiziana Riggio

Economia
L’economia e l’etica, di Francesca Anselmo

Agorà
La ricercatrice Colonna, simbolo per i precari, di Carmine Vaccaro
L’amico di famiglia, di Sara Orazi

Cultura
Come determinare una economia della conoscenza ‑ 4a parte, di N. Antonio Rossi
Leggere è rileggere, di Gianni Balella

Inserto
Rapporto CENSIS 2006,
di Piero Nenci
I Bilanci UIL

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EDITORIALE

E' un problema sociale

di Antonio Foccillo

Le vicende che hanno riguardato la partita fra Catania e Palermo, con le relative violenze e l’uccisione di Raciti da parte di una teppaglia di giovani, hanno appassionato un notevole numero di commentatori ed hanno prodotto un intervento del Governo, che ha inasprito le pene per coloro i quali svolgono tali azioni.

Il dibattito politico, sportivo e mediatico attiene alle contaminazioni fra calcio e queste bande fomentatrici di un clima di tensione che soprattutto si rivolge all’aggressione alle forze dell’ordine e sta provocando negli stadi paura e abbandono delle persone c.d. "per bene".

La domanda che vorremo porre è questo solo un problema che riguarda il calcio o dietro la continua violenza non ci siano problemi più importanti che, toccano la società in quanto tale?

Quelle immagini di scontri sempre più violenti hanno portato alla mente, quelli degli anni 70‑80 a Milano, che ho vissuti da dirigente sindacale spettatore.

Vi era la stessa cattiveria e le stesse forme di ribellione contro i poliziotti, individuati come servitori di uno Stato padrone e repressivo. Ma soprattutto vi era la voglia di testimoniare, in modo sbagliato, la propria soggettività in una società che tendeva ad escludere il disagio giovanile.

Certo quei giovani, spinti da cattivi maestri e da false ideologie hanno poi alzato il tiro con violenze contro militanti politici della estrema destra o della estrema sinistra, costituendo i prodromi di un fenomeno più grave, quale il terrorismo.      

 Mi ricordo ancora una foto di un settimanale, che, in prima pagina, mostrava due giovani con il volto coperto da un passamontagna scappare, ma in mano avevano una pistola per sparare.

Nacque così la falsa ideologia della P38 e lo slogan di combattere lo stato con la barbarie e con lo scontro armato.

In tutto questo, se sbagliato, come è riconosciuto anche dagli stessi che parteciparono alle bande armate, vi era uno scontro essenzialmente, ideologico. Si contrapponevano due visioni della società, quella della destra estrema e quella della sinistra estrema e, nel delirio terrorista si voleva cambiare l’ordinamento costituzionale con la guerriglia e con le uccisioni di tanti servitori dello stato, di professori universitari, manager di aziende, sindacalisti, di uomini politici e si dava forza ad un disegno perverso di "falsa rivoluzione", che comunque trovava terreno fertile, nell’ambito del disagio giovanile e sociale, con tanti impegnati nella lotta armata clandestina e con una serie di fiancheggiatori.

 Erano altri tempi e pensavamo di aver debellato per sempre quel rischio e quelle passate errate passioni.

Oggi, invece, è nato un nuovo disagio che non è solo giovanile che, già da qualche anno, è frutto di cambiamenti sociali in atto che vanno analizzati per poter rispondere non solo con la repressione in un campo di calcio.

Oggi si va sempre più affermando l’uomo caratterizzato da una vocazione autoaffermativa illimitata, nella quale si affievolisce sempre più ogni tensione etica, ogni disponibilità al fatto e all’intesa. Perciò al sentimento della propria onnipotenza si unisce al sentimento della propria onnipotenza si unisce la percezione del proprio vuoto e della propria debolezza.

 "Esso ‑ dice Elena Pulcini1 in lo io globale: crisi del legame sociale e nuove forme di solidarietà si ritrae in una solitudine, che lo separa dall’altro ma senza isolarlo dal mondo, che anzi egli tende ad usare come pura arena di una narcisiaca autorealizzazione"

Questo individuo "appare in prima istanza estremo più che ostile all’altro" (Lipovetski).   

Troppi in questi anni hanno lavorato per distruggere la cultura del dialogo e del rispetto dell’altro ed hanno enfatizzato le difficoltà delle istituzioni tutte, mettendone in risalto soltanto gli errori e, così facendo, hanno delegittimato qualsiasi elemento di partecipazione democratica e i rappresentanti delle istituzione stesse.

Quanto odio si è sparso fra le diverse fazioni, criminalizzando l’altro e da tifoso giustificando il proprio operare.

Il mondo del lavoro è sempre più pervaso da contratti flessibili e instabili; nella società si inaridito qualsiasi elemento valoriale, le stesse "ideologie" o idealità sono state considerate frutto del passato e da superare; i partiti hanno eliminato i tratti distintivi della loro diversità ed hanno accentuato l’appartenenza, puntando sul leaderismo e cambiando finanche le denominazioni dei partiti inserendo nel simbolo il cognome del loro segretario; si è puntato sempre più sull’apparire che sull’essere, basti pensare ad un fiorire di trasmissioni televisive in cui tutti cercano di testimoniare il loro io, più in modo edonistico che per le reali capacità culturali e professionali; molti programmi televisivi, inoltre, per aumentare l’audience hanno puntato sulla scurrilità, sulla violenza verbale, e sull’utilizzo del corpo come forma di attrazione; tantissime ore del giorno si trascorrono davanti alla televisione la cui programmazione è la dimostrazione di una società violenta e poco educata.

Questi fenomeni hanno toccato tutti i campi e non poteva che creare sconcerto e incertezza nei giovani, soprattutto in quelli più deboli che si stanno formando, creando crisi di identità, falsi miti, in una mancanza di certezza verso il domani ed una sfiducia verso tutto e tutti.

La stessa loro endogena aggressività, insita proprio nei giovani, non è potuta sfociare in nessuna partecipazione sociale e politica e sono privi, nella stragrande maggioranza di esempi e autorità morali ed etici.

Ecco allora che nascono nuovi fenomeni, dalla bulimia, all’aumento delle droghe sempre più distruttive; dalla incapacità di dialogo, allo scontro puro e semplice, dal degrado sociale, all’incertezza nel lavoro e del lavoro, dalla violenza sessuale che tocca sempre più giovani, alle estremizzazioni dei conflitti.

Si rischia, di dar sfogo solo allo sbando, perchè ogni ragazzo o ragazza ha una speranza frustrata, un sogno che non si realizza ed un’ambizione non soddisfatta ed allora cerca un’identità in un gruppo o clan, dove per essere ammesso si è sottoposti a prove od umiliazioni di tutti i tipi per attestare l’accettazione delle regole e del capo.

L’entrare è legato al superamento della prova, ma una volta entrato devi dimostrare di esserne degno e allora ti si chiede sempre di più. Oltretutto vi è una rincorsa a fare cose eclatanti per dimostrare che puoi diventare un capo ed essere rispettato.

Per fortuna vi sono giovani e sono numerosissimi che dedicano la loro attività al volontariato, giovani che, pur nella giungla, si dedicano agli studi e all’impegno civile e democratico, ma nonostante ciò ci dobbiamo fare carico del disagio. Allora di fronte a questi fenomeni negativi bisogna interrogarsi e vedere come ricreare condizioni diverse a partire dalla famiglia, dalla scuola, dalla politica al sindacato, dalla chiesa all’associazionismo.

Non dobbiamo far vincere la violenza, fornendo loro in prima istanza esempi positivi e soprattutto facendo noi adulti un esame di coscienza per valutare dove dobbiamo correggere e dove dobbiamo intervenire, superando le nostre frustrazioni, che pure ci sono, e ritornando a creare un’immagine della società diversa e più coinvolgente.

I giovani debbono ritrovare esempi e valori, strumenti di partecipazione e di educazione civica e morale, partendo dal fornire loro educazione e rispetto, tolleranza e dialogo.

Dobbiamo farli sentire importanti anche nelle piccole cose. Dimostrando che il futuro spesso non è come ci è dipinto, ma come noi siamo in grado di costruirlo.

Questa società è diventata opulenta, libera, democratica e in grado di tutelare diritti e prerogative grazie a tanti umili personaggi che hanno sacrificato la loro vita, il loro tempo libero, il loro benessere momentaneo e, a volte, la propria famiglia, per costruire un domani migliore per i propri figli.    

Niente è conquistato per sempre, i sacrifici debbono continuare per difendere quello che abbiamo di positivo e i giovani, con le loro individualità, con il loro impegno e con la loro partecipazione debbono essere educati a proseguire queste battaglie di civiltà e la loro aggressività, la loro passione e il loro impegno si deve indirizzare a migliorare le condizioni di vita e di civiltà del nostro mondo.

Tante cose dipendono proprio da loro; non possiamo permettere di sprecare o la loro vita perchè noi tutti, abbiamo bisogno di loro.

Se così non fosse ogni possibile scenario sostenibile di socialità e di convivenza politica è cancellato da questo io edonista e narcisista la cui natura atomistica mette in crisi le fondamenta delle attuali società.

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1 Filosofia sociale Università di Firenze
* L’articolo è stato preparato prima del 12/2/2007

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Intervista a Luigi Angeletti, Segretario Generale UIL

di Antonio Passaro

Un incontro informale tra i Segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, svoltosi in una domenica sera di gennaio a Palazzo Chigi, ha tracciato le linee per l'avvio di un confronto tra le parti sociali ed il Governo. Al termine di quella riunione si è decisa l'attivazione di tre tavoli su crescita, welfare ed efficienza della pubblica amministrazione. Insomma, Angeletti, niente più pensioni come tema esclusivo del confronto?

Non poteva che essere così, semplicemente perchè non esiste nel nostro Paese una questione pensionistica. Non c'è alcun motivo per cui questo argomento debba essere messo al centro del dibattito economico e sociale.

Eppure sembra che nel dibattito politico sia proprio questa non solo la questione ma anche la preoccupazione principale...

Si, è vero. Ma gli allarmismi che, di tanto in tanto, giungono da più parti sono spesso il frutto di disinformazione o l'effetto di una sorta di "illusione ottica" generata dalla composita struttura della spesa previdenziale. In questa voce, infatti, il nostro sistema ingloba sia la spesa pensionistica, in senso stretto, sia quella assistenziale e così il dato del rapporto tra spesa previdenziale e Pil è assolutamente non comparabile con quello degli altri paesi europei e, soprattutto, non è utilizzabile per ragionare di interventi correttivi. Quando finalmente si procederà alla separazione della previdenza dall'assistenza apparirà in tutta chiarezza che il nostro sistema pensionistico è in assoluto equilibrio. Talvolta però, gli ingiustificati allarmismi sono anche frutto di tentativi, più o meno consapevoli, di spostare l'asse dell'attenzione dalle necessarie riforme e dai provvedimenti realmente indispensabili verso il tema delle pensioni. La vera questione da affrontare è invece quella della crescita economica e sociale del Paese.

Non vi è dubbio. E tuttavia le aspettative e l'attenzione restano concentrate anche sul tema pensionistico. Come andrete, su questo punto, al confronto con il Governo?

Nel documento predisposto da Cgil, Cisl e Uil lo abbiamo detto chiaramente: noi siamo perchè venga superato il cosiddetto scalone che, obbligatoriamente e dall'oggi al domani, innalza di tre anni l'età pensionabile e siamo per non modificare i coefficienti di trasformazione. Lo scalone finisce, infatti, per penalizzare i lavoratori più anziani mentre la modifica dei coefficienti determinerebbe un'ulteriore riduzione dei futuri assegni pensionistici a svantaggio delle attuali giovani generazioni e con vantaggi economici per il sistema che si concretizzerebbero solo tra molti anni. Si tratta, insomma, di provvedimenti ingiusti o inutili.

Hai parlato del documento di Cgil, Cisl e Uil varato lo scorso 5 febbraio per il confronto con il Governo. Un documento giudicato da molti come una svolta per la chiarezze e la modernità delle posizioni espresse e che sarà la base per l'avvio della trattativa. Nel testo si parla della necessità di adeguare il sistema pensionistico anche 'al mutato quadro demografico'. Dunque, l'innalzamento dell'età pensionabile non è negata?

Giusto. Noi dobbiamo dare una risposta razionale ed intelligente a tale questione, ma non si tratta di un'urgenza. Nè si può pensare di risolvere il problema introducendo rigide soglie obbligatorie per tutti, bisogna invece flessibilizzare le uscite dal lavoro sulla base di convenienze e scelte personali. L'innalzamento obbligatorio dell'età pensionabile per tutti i lavoratori non produce effetto. In Germania, esiste una legge che consente solo di andare in pensione di vecchiaia a 65 anni; eppure, nella terra degli inflessibili e rigidi teutonici, l'età media effettiva di pensionamento è di poco superiore ai 60 anni. Ciò vuol dire che in Germania ci sono milioni di lavoratori che valutano più conveniente andare in pensione prima di quella età e che si comportano conseguentemente. L'obbligo non ha funzionato e non può funzionare.

Così come, francamente difficile ci appare l'idea di stilare una lista dei cosiddetti lavori usuranti, prescrivendo l'età pensionabile a seconda della tipologia di lavoro. L'entità dell'usura, infatti, non è facilmente misurabile, col bilancino, in modo corretto ed equanime per tutti.

Insomma, la strada da percorrere resta quella riassunta dallo slogan 'incentivi e libertà'?

Sì, la strada da seguire è questa.

Torniamo allora al documento. Qual è il messaggio che Cgil, Cisl e Uil hanno inteso lanciare?

Noi attribuiamo molta importanza a questo documento perchè dà il segno che il Sindacato è in grado di prospettare una politica per la crescita economica e sociale del nostro Paese. Noi riteniamo che la concertazione sia una politica buona ma deve essere chiaro che oggi non è più il tempo dei sacrifici. Bisogna farla finita con la lunga serie di basse pensioni, bassi salari, bassi consumi, bassa produttività. Occorre invece approntare una politica per la crescita che passi anche attraverso una riduzione delle tasse per i lavoratori dipendenti e un aumento della produttività. I salari dei lavoratori italiani sono inferiori a tutti quelli degli altri Paesi paragonabili al nostro: ora è tempo che crescano i nostri salari.

Non siamo più al 92‑93 quando si realizzò una concertazione che, di fatto, ripartiva i sacrifici. Oggi è cambiato l'obiettivo: è così?

E' così. Abbiamo una spesa previdenziale e una spesa sociale tra le più basse in Europa; analogo ragionamento vale per salari e pensioni e perchè, allora, dovremmo accettare di fare altri sacrifici? Ho sempre dichiarato la mia contrarietà alla politica dei due tempi: la crescita è possibile se si fanno politiche espansive. L'unico vero terreno di sfida resta quello della crescita della produttività.

Pronti al confronto e con le idee chiare. Chi ben comincia è a metà dell'opera?

Noi siamo semplicemente disposti a fare un confronto sull'effettiva politica di sviluppo di cui ha bisogno questo Paese. Non abbiamo timori nè tanto meno rendite di posizione da difendere. Vorremmo mettere la parola fine ad un decennio di politiche sindacali difensive: se il Paese si è un po' arenato, in fondo, a ciò abbiamo contribuito anche noi con questo atteggiamento. C'è bisogno di più ottimismo e di una nuova politica della concertazione che rilanci davvero il nostro Paese. E per raggiungere questo obiettivo noi siamo pronti a fare la nostra parte.

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