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FEBBRAIO 2008

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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Edizioni Lavoro Italiano
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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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GENNAIO 2008

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SOMMARIO

Editoriale
Sindacato ed elezioni politiche - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti “Meno tasse, più salari, più pensioni” - di A. Passaro

Sindacale
Il rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici porta 127 euro ai lavoratori ed introduce il tema delle flessibilità - di A. Regazzi
“Io c’ero”. La nostra storia: Ricordando la indimenticabile data del 5 marzo 1950 - di P. Nenci
Arturo Chiari - di P. Saija
San Valentino: La sofferta intesa che mise a dura prova il sindacato - di P. Nenci

Economia
Globalizzazione, Capitalismo e Lavoro. Per saperne di più - di P. Pirani e E. Canettieri
"L’Italia dovrà uscire dall’euro" - di G. Paletta
Il “Grand Tour” degli economisti del F.M.I.- di A. Ponti

Società
Esame di coscienza - di G. Salvarani

Attualità
Wi - max. Partita la gara per la connessione always on. - di M. A. Lerario

Internazionale
Cosa si può sperare dal Forum Sociale mondiale di Davos? - di A. Carpentieri

Agorà
In politica senza “se” e senza “ma” - di C. Benevento
Processi mediatici - di F. Morello
Le comunicazioni obbligatorie in materia di collocamento - di E. Piluso

Cultura
Flash Mob: la nuova arte dell’incontro - di S. Maggio
American Gangster - di S. Orazi
Leggere è rileggere: ANTONIO DELFINI - di G. Balella

Inserto
Politiche atte a promuovere la crescita nel lungo termine - di G. Paletta

Separatore

EDITORIALE

Sindacato ed Elezioni politiche

Di Antonio Foccillo

Tra meno di due mesi l’Italia avrà un nuovo Parlamento. Al momento tutti si chiedono se avrà veramente anche un nuovo governo, nel senso di un governo che possa governare realmente questo paese. Pochi si chiedono, invece, che governo sarà. Sembra infatti che nel nome della governabilità e del dibattito sulla mancata riforma della legge elettorale, stia passando in secondo piano la questione fondamentale in democrazia. La scelta del tipo di governo oggi in Italia è affidata sostanzialmente alla scelta tra i due principali contendenti. Non si riflette con la stessa attenzione sulle scelte politiche connesse ai due nominativi in questione. Forse perché, a dire il vero, trovare delle differenze profonde è difficile. Mi riferisco in particolare a scelte relative al modello di società che vogliamo disegnare per il futuro di questo paese. Da tempo è venuto meno questo dibattito, fondamentale, nella politica italiana ed in particolare nella sinistra riformista. Tutti si dicono riformisti, anche perché le riforme degli ultimi anni sono state a senso unico, riforme orientate al mercato nella concezione neoliberista che, nei fatti, non ha rivali ideologici. Queste riforme, con le evidenti e dovute differenze, sono comunque orientate alla riduzione dei diritti del lavoro in nome dell’efficienza e della produttività. A riforme effettivamente necessarie si è spesso aggiunta una addizionale intransigenza ideologica che ha comportato, in Italia meno che altrove, una comunque ridotta considerazione del lavoro nei confronti del capitale. La congiuntura economica ha poi aggravato, in termini di potere d’acquisto, la situazione complessiva del mondo del lavoro italiano. Un mondo del lavoro che si può definire “sotto attacco” senza esagerare. L’impennata drammatica del numero degli incidenti mortali sul lavoro dimostra, infatti, come sia complessiva e generalizzata la riduzione dei diritti del lavoro. Sia per motivi economici (risparmio sui costi della sicurezza) sia per motivi ideologici (disinteresse verso la “risorsa umana”) si è generato un sistema di lavoro non adeguato a garantire sicurezza. È un dato di fatto innegabile. Tanto quanto la caduta del potere d’acquisto di salari e pensioni.

Come si rapporta, allora, il mondo del lavoro con queste elezioni politiche? Credo che al di la delle valutazioni soggettive legittimamente esternate nel voto, il problema si pone complessivamente su quale rappresentanza effettivamente è espressione dell’intero mondo del lavoro. Ciò perché non riesce a emergere uno schieramento che si richiami concretamente ai valori del socialismo riformista. Una forza che sappia, in altre parole, disegnare uno scenario diverso per la nostra società. I lavoratori italiani sentono che stanno per consegnare ai loro figli un paese peggiore rispetto a quello in cui hanno vissuto la loro esperienza di vita. Un paese emerso dalla rovina della seconda guerra mondiale, che seppe crescere e svilupparsi secondo un preciso modello di società che, poi, sulla base di ovvi motivi storici è stato superato ma che non andava assolutamente rinnegato, bensì riformato. L’equivoco storico (e politico) del nostro paese è proprio questo. È un equivoco che condividiamo con molti partner europei, ma vale la pena ribadirlo. La riforma dello Stato sociale era ed è qualcosa di necessario, ma non doveva e non deve significare lo smantellamento di un sistema di protezione sociale che ha garantito, attraverso la scuola pubblica, la sanità pubblica, l’assistenza e la previdenza sociale pari opportunità e sviluppo democratico.

In realtà una ideologia neoliberista dominante ha imposto (e vuole imporre) riforme a senso unico e, in definitiva, non democratiche. C’è infatti un concreto rischio di involuzione democratica dietro questo processo che punta a dare al mercato il solo compito di regolare la società. Un mercato senza regole, dove vince quindi sempre il più forte e dove il mondo del lavoro è destinato a recitare una sola parte, quella dello sconfitto. Si tratta infatti di una riedizione della lotta di classe, ma portata avanti da una classe diversa da quella immaginata per un secolo! Il riformismo, invece, supera la lotta di classe nell’ottica di riforma volte a garantire l’acquisizione di diritti del lavoro senza ricorrere a episodi violenti. Ormai il riformismo è invece interpretato come un sinonimo di cambiamento, genericamente, anzi a dire il vero prevalentemente in senso opposto all’acquisizione dei diritti del lavoro. Il deficit democratico di questo processo risiede nel fatto che queste scelte sono per lo più imposte da tecnici che non rispondono agli elettori e che riconoscono esclusivamente agli interlocutori economici il diritto di dare la loro opinione. Al di là della demagogia, conta infatti alla stessa maniera l’opinione del sindacato e quella della confindustria? Basta seguire i telegiornali per darsi una risposta sincera… Ed è questo il modello di società che la politica italiana, nella stragrande maggioranza, ha fatto proprio. Un modello escludente, dove i diritti sono ridotti e la concorrenza è a senso unico. Il mondo del lavoro dovrebbe invece trovare un soggetto che lo rappresenti, che contrasti questa logica imperante. Il mondo del lavoro avverte la necessità di riacquisire diritti. I giovani non possono essere precari a vita. La flessibilità deve avere un costo preciso, corrispondente alle necessità per cui viene utilizzata. Il sistema pubblico deve essere in grado di poter competere con quello privato, al fine di garantire ancora una volta a tutti i cittadini pari opportunità. Il mercato deve essere regolato, non può essere selvaggio. Le regole devono essere moderne ma devono esistere. I cittadini hanno bisogno di sicurezza, sul lavoro e nelle città. La salute sul lavoro è insieme a quella salariale la vera emergenza nazionale. Esiste poi anche una questione sicurezza legata alla criminalità. Una questione diversa ma altrettanto importante. Una questione spesso legata, impropriamente, alla questione immigrazione. Il mondo del lavoro vorrebbe un soggetto politico che concretamente attuasse misure atte a risolvere questi problemi quotidiani. Oggi, invece, tutti parlano di aumentare i salari e tagliare le tasse, ma come non sospettare di trovarci di fronte alle solite promesse preelettorali? Se si tagliano le tasse (magari senza implementare la lotta all’evasione fiscale) quali servizi pubblici si pensa di sopprimere? Il tema sarebbe sempre lo stesso: quale modello di società vogliamo? Il problema è che nessuno si pone questo quesito. Ormai l’Italia vive nella consapevolezza del declino e nell’aspettativa di una recessione imminente in arrivo dagli USA. In questo contesto di impotenza mondiale i nostri politici brillano per mancanza di idee strategiche. Il fatto sconcertante è che una sinistra riformista, invece, in questi momenti dovrebbe ritrovare tutto lo slancio per prospettare alternative di sviluppo coerenti con la propria tradizione. Invece sembra prevalere l’allineamento su tesi già note e descritte, sintomo di stanchezza e di mancanza di idee. Si profila una campagna elettorale incentrata sul breve periodo, una campagna elettorale alla fine ripetitiva di slogan e pragmatismo. Proprio ciò che non serve all’Italia. Il mondo del lavoro, il sindacato confederale, ha rilanciato proprio per questo motivo la mobilitazione sui salari, sulle pensioni, sul sistema Italia. Uno stimolo per tutti e in particolare per chi aspira a rappresentare gli interessi del mondo del lavoro. L’iniziativa del 15 febbraio per la raccolta di un milione di firme significa proprio questo. A una classe politica distratta e disorientata i lavoratori italiani dicono che è giunto il momento di cambiare rotta. I lavoratori italiani vogliono una società più giusta per i loro figli e per realizzarla è necessario un cambiamento culturale che ponga termine alle logiche degli ultimi anni e restituisca valore alla democrazia, rilanciando innanzitutto la partecipazione e il coinvolgimento che sono spariti sacrificati sull’altare della politica spettacolo, da un lato, e dell’alibi europeo dall’altro. Il mondo del lavoro deve tornare ad essere protagonista della politica italiana, riappropriandosi di quegli spazi sottrattigli dai media e dai tecnici di Bruxelles.

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“Meno tasse, più salari, più pensioni” Intervista al Segretario Generale della Uil Luigi Angeletti

di Antonio Passaro

Meno tasse, più salari, più pensioni”. Angeletti, questo è lo slogan che sta connotando l’iniziativa di Cgil, Cisl, Uil a sostegno della piattaforma sindacale per far crescere il Paese. Qual è lo “spirito” economico - se così si può dire - di questa battaglia?

Noi siamo convinti che la crescita del Paese non possa essere ottenuta limitandosi a risanare i bilanci. La nostra economia non crescerà mai più se ci intestardiamo sull’idea di dover restare nei parametri di Maastricht e di dover ridurre il debito pubblico. Questa politica uccide il Paese! Come insegnano anche i semplici metodi dell’economia domestica, c’è un solo modo efficace per pagare i debiti: guadagnare di più, aumentare la ricchezza.

E qual è la ricetta per ottenere questo obiettivo?

Per far crescere l’economia non basta ridurre i costi e, in particolare, il costo del lavoro. E’ necessario che aumentino i consumi e che cresca la produttività. I consumi sono diminuiti e noi stiamo pagando e continueremo a pagare le conseguenze di questa situazione. Lo abbiamo detto tante volte ed è bene ribadirlo: in un Paese come il nostro la politica dei due tempi non funziona. Esiste solo un tempo ed è esattamente quello che, ora, dovremmo vivere: è il tempo di aumentare la produttività, ridistribuire la ricchezza e aumentare i consumi.

Meno tasse, recita l’incipit dello slogan sindacale. Meno tasse per i lavoratori dipendenti e i pensionati. E’ questo il punto?

Assolutamente sì. E’ del tutto evidente che qualcosa non funziona per il verso giusto se chi ha la metà della ricchezza, paga il 70% delle tasse. In questo modo cresce solo il potere reale di un 10% della popolazione e ne conseguono squilibri economici, in particolare, per i lavoratori dipendenti e i pensionati. Con buona pace per lo sviluppo del Paese.

E allora che fare?

Ci dobbiamo porre una domanda: ma chi sono i veri poveri in Italia? Quelli che dichiarano di guadagnare poco o piuttosto i lavoratori dipendenti e i pensionati che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese? Ecco perché bisogna smetterla di discutere di manovre sull’Irpef, di riduzione delle aliquote e di analoghi ragionamenti. Per un bel po’ di anni bisogna ridurre le tasse solo su salari, stipendi e pensioni. Se invece continuiamo a puntare su una generica riduzione dell’Irpef, avvantaggeremo, ancora una volta, anche coloro che hanno evaso il fisco.

E’ un messaggio al governo che verrà… Ma avrà orecchie per intendere? E il cosiddetto “tesoretto” su cui già ora tanto si discute, che fine farà?

Non vorrei essere profeta di sventure, ma io temo che, alla fine della campagna elettorale, qualunque sia la conclusione, ci spiegheranno che l’economia non cresce, che le entrate sono diminuite e che il tesoretto è svanito. Ci diranno, dunque, che le tasse non si possono ridurre più di tanto, che qualche risorsa può essere destinata solo ad incentivare la contrattazione di secondo livello e che si può, genericamente, ridurre l’IRPEF. Ed è proprio quel “genericamente” che non mi piace, per i motivi già esposti. Ecco perché tutto il Sindacato deve dire, con chiarezza e sin da ora, che vogliamo una riduzione delle tasse sugli aumenti contrattuali nazionali.

Se Cgil, Cisl, Uil lo avessero richiesto tutti e tre insieme, da tempo, ora probabilmente avremmo già ottenuto questo risultato…

Penso proprio di sì. Ed è per questo motivo che dobbiamo dirlo tutti e tre insieme e in modo convinto.

E’ singolare che la Cgil difenda con forza la contrattazione nazionale e poi non sia altrettanto solerte e compatta nella richiesta di una detassazione degli incrementi contrattuali…

La tua meraviglia è legittima…

Questo ragionamento si intreccia con la questione della riforma del sistema contrattuale. In estrema sintesi, la Uil vuole una contrattazione nazionale più efficace nella difesa del potere di acquisto e una contrattazione articolata più capillare e in grado di ridistribuire la produttività. E quello che vogliono tutti. E però?

Cgil, Cisl e Uil hanno trovato una sintesi di massima redigendo un documento che ora è al vaglio della discussione nelle singole Organizzazioni. La Uil ha già dato un giudizio sostanzialmente positivo ritenendo quel documento una buona base per avviare il confronto con la Confindustria e le altre parti datoriali. Noi crediamo che si debba avviare subito la trattativa. Ma questa è una partita che occorre giocare tutti insieme anche perché sono convinto che il confronto con la Confindustria non sarà affatto semplice. Non sarà una passeggiata. Dunque, o c’è un chiarimento tra Cgil, Cisl e Uil sulla posizione comune per aprire utilmente un confronto o si sta solo perdendo tempo. E questo non possiamo permettercelo: né per noi né per i lavoratori.

Un’ultima domanda. La crisi di governo non ha trovato sbocchi e il 13 aprile si andrà alle urne per eleggere il nuovo Parlamento. La questione del rapporto tra Sindacato e politica, di tanto in tanto, tocca dei picchi. Questo è uno di quei momenti, forse anche per l’approssimarsi della consultazione elettorale. Cosa deve fare il Sindacato?

Io ritengo che il Sindacato non debba mai essere in balia della politica; anzi, deve condizionarne le decisioni. Decisioni che devono tenere conto degli interessi che rappresentiamo. In questo Paese, la maggioranza dei cittadini è costituita dai lavoratori dipendenti e dai pensionati. Il Sindacato deve agire nella consapevolezza che gli interessi di questa maggioranza possono e devono conciliarsi con quelli dell’intera società. Se pensiamo che non ci sia una classe politica in grado di fare sul serio ciò che dice, il nostro compito allora è convincerla e “costringerla” a fare buone politiche.

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