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DICEMBRE 2014

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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SOMMARIO

Il Fatto
Un nuovo protagonismo - di A. Foccillo

Sindacale
Siamo al centro del dibattito politico del Paese - Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil - di A. Passaro
Come il Jobs act e la Legge di stabilità danno un aiuto indiscriminato alle aziende penalizzando il lavoro dipendente - di G. Loy
L’Italia è un paese in bilico che richiede convincimento e consenso - Intervista a Giorgio Benvenuto - a cura della redazione
Il sindacato, i corpi intermedi, le associazioni non sono strumenti corporativi ma sono articolazioni della società civile - di R. Vanni
Credito, Abi disdetta il Contratto Nazionale: al via la mobilitazione - di M. Masi
In lotta per il futuro - di V. Panzarella
Con lo sciopero del 12 dicembre abbiamo fermato la Regione - di G. Zignani

Comunicato
Barbagallo: orrore e sgomento per l’attentato a Charlie Hebdo. Attacco alla libertà

Saggio
Giustizia sociale e giustizia tributaria - di V. Russo

Economia
Più tasse e debito pubblico da record - di G. Paletta
Il grande imbroglio - di E. Canettieri 

Il Ricordo
La soddisfazione di aver seminato - di P. Nenci

Il Corsivo
Il sindacato degli onesti. E gi altri sindacati di chi sono? - di Prometeo Tusco

La Recensione
Come uscire dalla crisi europea - di Vincenzo Russo

Inserto
Cosa ci lascia il 2014? - di P. Nenci

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EDITORIALE

Un nuovo protagonismo

di Antonio Foccillo

Lo sciopero del 12 gennaio, indetto da Uil e Cgil, e le relative manifestazioni nelle 54 piazze d’Italia hanno avuto una risposta positiva da parte dei lavoratori sia in ordine alla adesione allo sciopero e sia di presenza che è stata massiccia e colorata da migliaia di bandiere, tanto da poter considerare questa giornata, in un momento di crisi di partecipazione come si è verificato nelle elezioni politiche, un grande successo.

I lavoratori, i pensionati ed i giovani presenti in piazza hanno voluto affermare la loro partecipazione emotiva, passionale e militante che da tempo non si vedeva. Sono stati attenti e rispondenti alle sollecitazioni del sindacato e hanno dimostrato di non partecipare ad una liturgia di uno stanco rituale, come avveniva in passato, in qualche occasione, ma di essere consapevoli e convinti di quello che era in gioco. Da tanto non si vedeva una simbiosi così forte fra il gruppo dirigente del sindacato e i milioni di partecipanti. Tutto questo significa che aspettavano questo momento in cui il sindacato si riappropriava finalmente del suo ruolo e delle piazze e lo hanno dimostrato con una forte convinzione. Si respirava un clima nuovo, migliaia e migliaia di cuori battevano all’unisono e si manifestava una convinta adesione e soprattutto la voglia di un nuovo protagonismo per ridare un futuro diverso al Paese e contemporaneamente si riaffermava la volontà di riconquistare dignità e lavoro. E’ stato un monito anche ai detrattori del sindacato che affermano ogni giorno che in crisi di rappresentatività. Ma dalle piazze è venuto anche un segnale di negazioni delle politiche di austerity che penalizzano soprattutto i più deboli della società, i lavoratori, pensionati e giovani di questo paese. Da tutto ciò se ne può derivare una sintesi: basta! Bisogna cambiare registro.

Purtroppo, ancora una volta, il movimento sindacale, è arrivato diviso a questo appuntamento. Ma è colpa di chi si è tirato indietro ed ha perso un’occasione per riunificare il movimento sindacale. Comunque il gruppo dirigente del sindacato, da oggi, ha l’obbligo di rappresentare tutto il sindacato e ritrovare il gusto dello stare insieme.

Questa convinta adesione alle parole d’ordine del sindacato gli consegna anche una enorme responsabilità: quella di evitare di disperdere questa nuova tensione e battersi con continuità per cambiare le cose. Come si fa per cambiare realmente le cose?

La prima iniziativa forte che il sindacato deve svolgere è in Europa. Va cambiata la politica economica dell’Europa in quanto ha prodotto solo distruzione di ricchezza, impoverimento, attacco al mondo del lavoro, tensioni sociali, crisi del debito, rischio di implosione dello spazio europeo, e sull’altare dell’emergenza si sta rischiando di immolare la stessa democrazia europea, dove la chiusura dello spazio per una vera democrazia compiuta con la costituzionalizzazione dell’austerità, blocca qualunque proposizione di modelli economici, sociali e politici alternativi. Così tutti noi siamo diventati spettatori inermi di una rivoluzione dall’alto che, facendo svanire concretamente la sovranità del popolo, ha innestato la crisi della democrazia che stiamo vivendo. Una rivoluzione che è stata prodotta dall’irruzione sulla scena sociale e politica dei mercati, che ha portato con sé la dottrina finanziaria, in cui la moralità della condotta sociale viene dettata dal responso della Borsa e dagli interessati segnali delle agenzie di rating e dei grandi investitori. Questa dottrina ha messo da parte il fine dell’agire politico cioè la giustizia sociale, sostituita da una sorta di armistizio con la speculazione della finanza alla quale viene trasferita, attraverso i mercati, la ricchezza sociale dei popoli e quella personale dei cittadini.

Siamo giunti alla costituzionalizzazione di una dottrina economica di parte i cui fondamenti sono il pareggio di bilancio, l’esclusione dello Stato dall’economia, l’idea mistica delle privatizzazioni e l’assoluto divieto di ricorrere al debito come strumento di sviluppo.

Tutto ciò sfacciatamente ignorando che la democrazia è basata sulla normalizzazione del conflitto fra le parti e sull’apertura alla cittadinanza del dibattito circa il percorso da intraprendere.

La messa in moto di tali processi e strumenti di coercizione decisionale indebolisce anche i sindacati, rimasti a lottare su scala nazionale contro sempre più stringenti e inappellabili “raccomandazioni” europee che vedono nell’abbassamento dei salari e nella precarizzazione dell’occupazione l’unico metodo per recuperare competitività; che rendono fatue le lotte dei movimenti per i beni comuni, costringendo gli Stati a svendere infrastrutture e servizi pur di abbattere il debito e garantire la libera concorrenza secondo le logiche vigenti del mercato unico. Le rivendicazioni di quanti chiedono un maggiore investimento nell’istruzione, nelle politiche sociali, nella conversione industriale e nella salvaguardia del territorio sono vanificate dalla stringente logica dell’austerity. Infine lega le mani ai partiti e alle loro politiche, ma soprattutto priva la cittadinanza della possibilità di definire il proprio futuro collettivo giudicando autonomamente fra diverse rappresentazioni della realtà e diverse risposte politiche alla crisi.

Per questo la battaglia da farsi è quella di un’Europa politica perché solo nella costruzione di un vero processo costituente europeo guidato dal basso e capace di accettare cessioni della sovranità nazionale e di utilizzare questo processo per restituire ai cittadini la possibilità di decidere il proprio futuro. In un’Europa che si vorrebbe democratica le difficoltà e l’emarginazione operate nei confronti delle giovani generazioni, impossibilitate peraltro a far sentire la loro voce dissenziente, genera fenomeni di devianza e a volte di violenza. E’ la reazione scomposta ed inefficace alla violenza di taluni governi, è una reazione alla mancanza di libertà cui peraltro questa democrazia li costringe perché non ha il coraggio di ammettere l’espressione di tutte le tendenze politico sociali se non attraverso le gabbie delle sua sperimentata burocrazia politica.

Imprese, lavoratori, pensionati e i giovani, costretti ad una precarietà sempre più forte, sono chiamati a rimpinguare la greppia a cui attingono a piene mani i colossi organizzativi e propagandistici, grandi e piccoli speculatori, banche, assicurazioni e tutti coloro che sono stati ammessi nell’area del potere. Così crescono di pari passo corruzione e clientele e l’economia accentua la sua crisi cominciando a lambire anche le economie cosiddette “virtuose”.

Questa non è, non può essere, la via dell’Europa.

La seconda iniziativa deve essere rivolta a cambiare le cose in Italia. In un Paese in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili” e dunque vige la legge del più forte o, a seconda, del più preminente, del più affluente, del più ammanicato, vi è ancora la possibilità di garantire a tutti gli stessi diritti? In questi anni abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte in materia di diritti, una distanza grandissima tra ceto politico e società. Negli Anni Settanta ci fu una grande affermazione dei diritti civili, oggi siamo in un’altra dimensione. Allora la legislazione italiana su alcuni punti era la più avanzata d’Europa. Ora siamo non solo fanalino di coda, ma lontani culturalmente.

La fine delle ideologie ha portato solo alla prevalenza assoluta del mercato e di fronte a questo mondo ‘a una sola dimensione’ il contrappeso è unicamente quello che viene dalla forza dei diritti che non possono essere sacrificati senza avere ricadute sul terreno economico. Non si possono scindere diritti e governo dell’economia. Così alcuni diritti non ci sono riconosciuti nella loro pienezza perché appartenenti a ognuno, ma sono accessibili soltanto a chi ha le risorse per poterli far diventare effettivi. Si romperebbe lo schema indicato dal principio di uguaglianza. I miei diritti saranno misurati non dal riconoscimento della mia dignità, del mio essere persona uguale a tutte le altre, ma in base alle mie risorse. Se torniamo a misurare i diritti non sulla libertà e sull’uguaglianza, ma con il censo e in base al denaro, noi torniamo alla democrazia censitaria e, così facendo, andremmo anche contro una tendenza globale. I diritti, anche in presenza di crisi economiche, non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni sociali molto pericolose.

La Costituzione è stata modificata anche sotto altri aspetti come quello della sicurezza e dignità della persona sul lavoro e quello della realtà dei partiti che da strumento nelle mani dei cittadini sono diventati strumento di potere delle oligarchie interpretando a piacimento l’articolo 49 Cost. dove era scritta un’idea di partito che, in questi anni, è stata completamente stravolta. Parlando di lavoro, l’articolo 36, dice che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” e quindi per essere tale non può essere sempre e soltanto subordinata alla logica economica, che afferma solo un minimo per la sopravvivenza che umilia le persone.

Inoltre, oggi, purtroppo, nella maggioranza dei paesi della democrazia liberale, il sistema di rappresentanza sta attraversando una crisi di legittimità, che si esprime nell’astensione elettorale, nell’apatia e nella non partecipazione politico-sociale e nei bassi indici di adesione ai partiti. Di fronte al tentativo in atto di privatizzare e comprimere i soggetti della democrazia, bisogna reagire per ricostruirne l’autorevolezza e la legittimazione. Ristabilire le connessioni della società alle istituzioni, in assenza delle quali la convivenza civile viene meno e una comunità politica si sfalda, precipitando nella de-civilizzazione. Tutto ciò nonostante le azioni di una parte rilevante del ceto politico italiano giustifichi le ragioni dell’antipolitica e la qualità della rappresentanza sia profondamente degradata e questo processo degenerativo non abbia trovato nelle élites anticorpi adeguati, bensì spesso collusioni interessate. Tutti sintomi che sembrano preparare l’eclissi della democrazia stessa, che prelude non un ad un vero e profondo cambiamento, ma a possibili fuoriuscite autoritarie dalla crisi, nuove deleghe in bianco alla tecnocrazia o al populismo.

Dobbiamo riaffermare, di fronte a ciò, il ruolo della partecipazione democratica per una società più giusta e più equa e ridare il vero valore al lavoro. Un’economia basata sulla considerazione che il lavoro non è una merce da comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere generale molto impegnative. In periodi di difficoltà economica la parola d’ordine è sempre stata la riduzione del costo del lavoro, ignorando la scarsa capacità imprenditoriale, le diseconomie molto forti, la corruzione che significava costi più elevati in quanto costituiva un aggravio per il sistema delle imprese. Inoltre l’elevato costo del lavoro è anche il risultato del drenaggio di risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente piuttosto che un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, che sono stati una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il profitto di pochi. In definitiva il lavoro è stato sacrificato a favore di altri tipi di interesse.

Il sindacato si deve battere, questo è il senso anche delle manifestazioni di piazza del 12 dicembre, per riconquistare in politica etica e valori e riscattare il lavoro. Ma soprattutto il sindacato deve affermare il diritto al dialogo, fermo restando le prerogative delle varie parti che si confrontano. Noi vogliamo discutere per chiarire e quindi proporre soluzioni che laicamente riteniamo sempre perfettibili ed opinabili. Questo è il senso dello sciopero del 12 e se non si vuole accettare questa impostazione del confronto le proteste continueranno. Se ne faccia una ragione il Premier Renzi.

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Siamo al centro del dibattito politico del Paese Intervista a Carmelo Barbagallo, Segretario generale Uil

di di Antonio Passaro

È l’ultima intervista per Lavoro Italiano del 2014, ma è anche la prima di un nuovo ciclo. Dopo oltre 14 anni, l’abituale “colloquio” di apertura della storica rivista della UIL ha un altro “interlocutore” perché, come è noto a tutti, lo scorso 21 novembre, Carmelo Barbagallo ha sostituito Luigi Angeletti alla guida dell’Organizzazione. Nel precedente numero abbiamo inserito la relazione conclusiva al XVI Congresso nazionale del nuovo Segretario generale.

Ora, anche con intento documentale, prima dell’intervista vogliamo riproporre le note biografiche di Barbagallo, perché la sua vita e la sua attività sono la testimonianza di un impegno sindacale esemplare soprattutto per i più giovani che volessero intraprendere questo percorso. Nato a Termini Imerese, Barbagallo ha iniziato a lavorare all’età di 8 anni come garzone presso un barbiere. Dopo 5 anni di lavoro minorile, 1 anno di lavoro nero e 3 mesi di apprendistato viene assunto con contratto regolare in una concessionaria d’auto. Cambiando più volte mestiere, acquisisce una grande esperienza del mondo del lavoro e dei difficili e conflittuali rapporti tra padrone e operaio. Passando da un pastificio a una cooperativa ittica e, poi, a un magazzino di smistamento postale, Barbagallo approda, infine, alla Fiat di Termini Imerese. Quello stabilimento diventa per lui, operaio specializzato, la fucina in cui si forgia all’attività sindacale. Lì inizia il suo percorso che, da delegato, lo porterà sino alla carica di Segretario generale della Uil Sicilia. Esercita questo ruolo con grande senso di responsabilità e le sue battaglie civili, in difesa della legalità, lo rendono un bersaglio della mafia. In particolare, dopo parole di verità pronunciate in occasione dei funerali del suo amico sindacalista della Uil, Domenico Geraci, assassinato a Caccamo nel 1998, viene fatto segno di gravissimi atti intimidatori: già in precedenza, peraltro, un colpo di fucile era esploso contro la sua abitazione lasciandolo miracolosamente incolume. Il suo carisma e le sue indubbie capacità fanno coagulare intorno a lui il diffuso consenso di tutta la Uil. E così, nel giugno del 2000, con Angeletti Segretario generale, Barbagallo viene eletto in segreteria confederale nazionale con delega all’organizzazione. In questa veste, a partire dalla Conferenza nazionale di Bellaria del 2012, ha ideato, progettato e avviato la riforma organizzativa della Uil, la cui completa attuazione è destinata a generare la nascita di un più snello ed efficiente “Sindacato a rete”. A gennaio del 2014, il Consiglio confederale lo elegge Segretario generale aggiunto. Il 21 novembre, l’ultimo passo verso il vertice dell’Organizzazione glielo fa compiere proprio il Congresso della Uil.

Carmelo, la tua vita sembra un romanzo. Invece, è la storia vera di un ragazzo del Sud che, proprio in difesa di quel popolo e di quei lavoratori con cui ha vissuto, si emancipa e diventa simbolo di una voglia di riscatto del Paese. E non uso questa metafora a caso perché lo slogan del Congresso che ti ha visto diventare Segretario generale è proprio: “Lavoro, voglia di riscatto”. Come è andato questo Congresso?

È andato molto bene, al di là di ogni più rosea aspettativa. È stato un momento emozionante per tutti. Siamo stati al centro del dibattito politico del Paese: non era facile che ciò accadesse. I delegati sono stati partecipi e sono stati coinvolti sulle scelte da attuare per rendere ancora più forte un’Organizzazione che non è seconda a nessuno.

Per la UIL è stato un momento storico: non era mai successo - almeno a mia memoria - che si celebrasse un Congresso e che, contemporaneamente, si eleggesse il nuovo leader e si proclamasse uno sciopero generale. Un atto, quest’ultimo, di enorme rilevanza. Come e perché si è giunti a questa decisione così importante?

È stata una decisione meditata e sofferta, ma che ha avuto l’avallo convinto dei nostri organismi e dello stesso Congresso. Noi abbiamo avanzato rivendicazioni concrete per dare soluzioni ai problemi dei giovani, dei disoccupati, dei pensionati e dei lavoratori. Abbiamo cercato e voluto, con determinazione, il confronto, ma il Governo non ha dato alcuna risposta chiara ai problemi veri delle persone, né in occasione degli incontri che ha avuto con i Sindacati né nella sua attività di definizione e proposta dei provvedimenti necessari ad affrontare tutte le questioni ancora aperte. Il Governo ha perso un’occasione nei confronti del Paese.

Qualche detrattore ha parlato di sciopero politico. Cosa rispondi?

Noi non facciano scioperi per motivi politici, ideologici o per dare la spallata a Renzi: non è nostro compito, non ci interessa e non ne abbiamo neanche il diritto. In democrazia sono i cittadini elettori che decidono il destino dei Governi. Il vero sciopero politico lo hanno fatto in Emilia Romagna e in Calabria dove, in occasione delle recenti elezioni regionali, l’affluenza alle urne è stata bassissima. Noi, invece, agiamo per rivendicare tutele, per chiedere ciò che è dovuto ai lavoratori e ai pensionati e per ottenere risultati concreti. E lo facciamo non solo per i nostri rappresentati, ma anche per il bene del Paese. Peraltro, l’altissima partecipazione dei lavoratori alle elezioni delle Rsu testimonia che il consenso manifestato nei confronti dei Sindacati è decisamente superiore a quello riscosso dai partiti.

Eppure il tuo rapporto con Renzi è stato, sin da subito, molto “conflittuale”. Perché?

Renzi deve capire che una cosa è comandare, altra cosa è governare. Non si può governare un Paese a dispetto di coloro che devono essere governati. Non si possono assumere provvedimenti che hanno conseguenze sociali senza interloquire con chi conosce quel tessuto sociale. Altrimenti, si generano altri mostri normativi o economici, come quello che, a suo tempo, diede origine agli esodati o come quello che sta per essere partorito dal Jobs Act o dal reiterato blocco dei contratti del pubblico impiego o dalla mancata corresponsione degli 80 euro ai pensionati o dall’assenza di politiche di investimenti pubblici e privati e così via.

Intanto però il Jobs Act è stato sostanzialmente varato. Resta, sì, da compiere il percorso attuativo nelle Commissioni parlamentari, ma i margini di manovra sembrano esigui. Qual è il tuo giudizio?

Questo Jobs Act non risolverà i problemi del mondo del lavoro; anzi, farà emergere contraddizioni che non sarà facile gestire. Nemmeno il Governo Berlusconi era riuscito ad abolire l’articolo 18 e a monetizzare i licenziamenti, compreso quelli collettivi: un fatto, questo, che non aiuterà il mondo del lavoro. La promesse di maggiori tutele per i giovani si è conclusa, così, a favore solo dei giovani imprenditori, coerentemente con quanto Renzi stesso, qualche mese fa, aveva sostenuto circa l’opportunità che gli imprenditori possano licenziare come e quando essi vogliono.

Possiamo dire che, nel nostro sistema giuridico, ha visto la luce l’ennesima legge sul mercato del lavoro. Ha un senso tutto ciò?

In Italia, si continua a commettere l’errore di ritenere che l’occupazione si possa creare per legge: in questi anni, sono stati varati tanti provvedimenti di regolamentazione del mercato del lavoro ma effetti positivi non se ne sono visti. La buona occupazione, infatti, è conseguenza di politiche economiche che puntano su investimenti e sviluppo. Questo è ciò che manca nel nostro Paese ed è quello che, invece, servirebbe. Le leggi possono aiutare a far incontrare meglio la domanda e l’offerta di lavoro e possono agevolare gli imprenditori che hanno già intenzione di avviare o potenziare un’attività produttiva, rendendo più facili le assunzioni, ma non possono generare occupazione a dispetto della condizione economica del Paese.

Potremmo dire, con uno slogan, che un vero Jobs Act dovrebbe determinare la soluzione delle crisi aziendali ancora aperte e prevedere investimenti pubblici e privati.

Da questo punto di vista, bisogna dare atto a Renzi di aver affrontato e risolto, insieme al Sindacato, la famosa questione delle tre “T”, Terni, Termini Imerese e Taranto. Che ne pensi?

È vero, dobbiamo dare atto al Governo dell’impegno, assunto comunemente con il Sindacato, per la soluzione del problema delle famose tre “T”: è la prova che si può dialogare con le forze sociali e che, quando si dialoga bene, i risultati possono essere molto positivi. A Terni, i lavoratori hanno anche approvato l’intesa, sottoscritta al Ministero dello sviluppo economico, che pone le basi per rilanciare l’azienda e per garantire l’occupazione in uno stabilimento così duramente provato dalle difficoltà economiche. L’accordo su Termini Imerese ha scongiurato un rischio grave per quei lavoratori e ha riacceso la speranza per una realtà del nostro Paese in cui stava prendendo piede una desertificazione industriale, con ricadute occupazionali davvero preoccupanti. Per quanto riguarda, infine, l’Ilva di Taranto, il Governo ha accolto la nostra reiterata richiesta di un intervento pubblico: un fatto decisamente positivo che può salvare un patrimonio fondamentale per la nostra economia, oltre a risanare l’ambiente in quel territorio. Tutto questo, però, deve essere considerato solo l’inizio: non ci si può cullare sugli allori. L’alfabeto è lungo, di lettere ce ne sono tante e di crisi da affrontare e risolvere, purtroppo, se ne contano ancora a migliaia.

Un’ultima domanda. Nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, il Premier ha affrontato un’innumerevole quantità di temi, prospettando variegate analisi e soluzioni. Come commenti quest’ultimo atto pubblico del Governo in vista del 2015?

Il Presidente del Consiglio ha messo molta carne al fuoco: così si corre il rischio del proverbiale “tutto fumo e niente arrosto”. Le buone intenzioni del Premier sono tante e alcune anche condivisibili, ma l’Italia resta ancora ferma al palo. Se nel 2015 vedremo concreti investimenti, soluzioni anche per le innumerevoli crisi aziendali mediaticamente meno note, risultati occupazionali significativi, rinnovo dei contratti del pubblico impiego, rivalutazione delle pensioni, allora sì che potremo parlare di un buon anno. Per il momento, purtroppo, si tratta soltanto di un augurio. Perché questo auspicio si trasformi in realtà, continueremo la nostra battaglia e solleciteremo Governo e Parlamento ad assumere decisioni conseguenti. A questo proposito, chiederemo a Cgil e a Cisl di predisporre, insieme, un percorso comune e iniziative unitarie per ottenere questi risultati.

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