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DICEMBRE 2008

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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NOVEMBRE 2008

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SOMMARIO

Il Fatto
E dopo lo sciopero della Cgil …? - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti Segretario Generale UIL “Occorre un patto con le imprese
per uscire dalla crisi” - di A. Passaro

Attualità
25 Novembre: giornata internazionale contro la violenza sulle donne - di N. Nisi
Lo Statuto del contribuente: Diritti e trasparenza per la democrazia
fiscale - di D. Proietti

Intervista
Che peccato questa crepa nel dialogo unitario. Intervista ad Adriano
Musi - di P. Nenci

Sindacale
Linee guida per la riforma del sistema di assetti contrattuali, delle relazioni sindacali
e della bilateralità nell’artigianato  - di P. Pirani
Le nuove relazioni industriali - di L. Marasco
Il Contratto Nazionale del Comparto Sicurezza - di G. Tiani
La nuova organizzazione del lavoro ed il ruolo attivo della Confederazione Europea
dei Sindacati - di A. Russo

Economia
Nuovi organi per Assofondipensione - di M. Abatecola
Acqua un bene pubblico in via di privatizzazione  - di G. Paletta
Salvate il soldato Ryan - di A. Ponti
Corporate Social Responsability - di M. F. Scinicariello

Europa
Conoscere l’Europa: il Comitato delle Regioni - di C. Cedrone

Agorà
Tutti pazzi per FacciaLibro? Fenomeno FACEBOOK -  di M. C. Mastroeni
Lina Merlin: una vita spesa per i dritti delle donne -  di P.N.
I padri fondatori della UIL. Gli uomini che hanno voluto,  costruito e dato vita
alla UIL - di G. Salvarani

Cultura
Leggere è rileggere. GIOVANNI COMISSO - di G. Balella
Arte e cultura in recessione: le fondazioni liriche a rischio di attività - di N. A. Rossi
Dopo il film Festival Internazionale di Roma - di L. Gemini
Changeling - di S. Orazi

Inserto
Il Rapporto Isfol 2008. Lavoro e formazione ai tempi della crisi - a cura di P. Nenci

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EDITORIALE

E dopo lo sciopero della Cgil …?

Di Antonio Foccillo

Lo sciopero è un’antica costumanza: vi è chi lo fa nascere con gli scioperi verificatesi nell’antica Roma e chi ci racconta di uno sciopero di mattonai che risale nientemeno che al tempo di Salomone. Ma non interessa in particolare, quando esso sia nato quello che interessa è a che cosa serve e come può diventare produttivo?

Rinaldo Rigola in un vecchio Manualetto di Tecnica Sindacale del 1947 cosi lo definisce: “Lo sciopero generale può essere volto ad uno scopo economico od avere carattere politico.” E così prosegue: “Ma c’è una forma di sciopero detto di solidarietà, che ebbe voga in Italia e che viene tuttodì, qua e là, sperimentato, sebbene con scarsi risultati. Questo sciopero generale mira anch’esso a scopi di carattere economico, ma per lo spirito che lo anima esso si trasforma in movimento a fondo politico e rivoluzionario. E’ qui che ha modo di manifestarsi il conflitto di metodo che ha sempre diviso il movimento sindacale in due grandi correnti: le due scuole che attualmente prendono il nome da Amsterdam e da Mosca, in epoca non lontana si denominavano scuola riformista e scuola sindacalista, oppure sindacalismo anglo tedesco e sindacalismo franco olandese.1 La scuola sindacalista rivoluzionaria, diremo così, si distingue da quella sindacalista riformista specialmente per il modo di condurre gli scioperi. La tattica rivoluzionaria consisteva nel preferire la solidarietà dello sciopero a tutte le altre forme di solidarietà. Si dava meno importanza al fine che al mezzo….

…Cambiano nel tempo i nomi dei partiti, le ideologie, i programmi; ma chi guarda da un punto di vista oggettivo e superiore non potrà far a meno di riconoscere che la classe operaia si è trovata, si trova e si troverà sempre nel caso di dover scegliere fra questi due metodi”.

Quanta attualità vi è in quelle parole.

Come si può disconoscere che dopo tanti anni in cui il movimento sindacale italiano sembrava aver risolto la disputa si ritorna a proporsi il quesito.

E’ fuor di dubbio che nel Mondo, in Europa e in Italia si stia vivendo una crisi di proporzioni straordinarie di cui ancora nessuno sa quale è la dimensione reale e quando potrà finire. Questa crisi certamente intaccherà ancora di più le certezze, lo status ed il tenore di vita di tanti lavoratori, di tante persone e di tante famiglie che non hanno nessuna colpa per questo disastro economico. Ma come si fa ad uscire da questa situazione. Noi, come Uil, crediamo, come abbiamo sempre sostenuto anche in passato, che dalle tragedie si esce solo se vi è un sentire comune ed un progetto condiviso che mette insieme le associazioni sociali, imprenditoriali e le forze politiche. Dopo di che è responsabilità del Governo mettere in atto le misure necessarie a rilanciare l’economia e a distribuire equamente ricchezze e sacrifici. Questo è stato il metodo che in passato ha pagato. Ogni qualvolta il nostro Paese si è trovato in un momento di difficoltà ha adottato il metodo della concertazione e della politica dei redditi che ha realizzato obiettivi importantissimi, non ultimo quello dell’entrata in Europa dopo la sottoscrizione del Patto del 1993. Ed è ovvio che per realizzare questo particolare stato di coesione vi è bisogno di un governo disponibile che abbandoni la logica del far da sé e si confronti con le rappresentanze sociali, imprenditoriali e di forze politiche ispirate non da eccessi massimalistici, ma da orientamenti riformisti. Se guardiamo al malessere generale, anche in tante parti di Europa, è emerso, più o meno intensamente, ogni volta che si è avuta l’impressione che la stessa Comunità Europea pensasse più alla logica economica che ai diritti e alle tutele per la gente comune. I rifiuti della Carta Costituzionale espressi con referendum negativi in Francia e in Olanda; le esplosioni della protesta della periferia Francese sono sintomatiche di questa voglia di cambiare le cose. Oggi la protesta coinvolge la Grecia, dove vi è un Governo di centro destra e la sinistra, in grave crisi, non riesce a dare prospettive di alternativa di programmi e di progetti. L’indignazione della gente, suscitata da un fatto grave, ha coinvolto tanta gente e si è trasformata in un vero e proprio conflitto. Questa è anche la dimostrazione che quando non ci sono condizioni adeguate a favorire un confronto con la parte riformista e questa stessa non dà alternative la protesta sconfina in una lotta esasperata e massimalista senza prospettive e con pochi risultati. Tornando in Italia, proprio noi, la parte più riformista, dobbiamo impegnarci a non chiudere le porte del confronto e ad elaborare proposte credibili e che abbiano un certo grado di fattibilità, per evitare che anche sul nostro versante nasca un’esplosione di malcontento senza fine.

Per questo abbiamo ritenuto sbagliato la proclamazione unilaterale di uno sciopero generale che alla fine ha dato la sensazione di un abbaiare alla luna.

Con tutto il rispetto per la Cgil non crediamo che il “suo” sciopero abbia spostato in positivo di una virgola le problematiche sul tappeto. E –ci chiediamo - dopo cosa si fa un altro sciopero?…

Come pure ci sembra inopportuno che il maggiore partito della sinistra si sia interrogato e continui a farlo sulla necessità di partecipare o meno alla manifestazione. Avrebbe fatto meglio a consultarsi con tutte le organizzazioni sindacali per avviare una discussione su come uscire dalla crisi, con quali proposte e con quali interventi.

Non è tempo di protesta, perché la gente è stufa delle parole vuote, ha troppi problemi con cui fare i conti tutti i giorni e vorrebbe rappresentanze che gli dessero qualche risposta immediata, ma concreta e soprattutto realistica.

La democrazia è vuota perché la gente non si sente coinvolta e non partecipa perché comprende che le decisioni sono prese altrove e il declino di questa partecipazione lo si sente nel Paese e in tanti luoghi di lavoro. A questa riduzione del senso collettivo corrisponde una crescente disaffezione nei confronti dei partiti politici e la crisi dello stato inteso come gestore della cosa comune. Chi non sente o non vede tutto ciò non si confronta più con la cittadinanza ed il mondo del lavoro.

Il pericolo è che tra i cittadini e i politici il solco divenga profondo tanto da rendere il potere incapace di percepire le necessità della comunità e dall’altro lato la risposta con l’estremismo accelera questo processo perchè produce solo esclusione e non inclusione. Certo la democrazia partecipata è molto più complessa di quella solo decisoria, ma proprio per questo bisogna sforzarsi di continuare inflessibili a testimoniare la validità dell’opera di mediazione fra le diverse impostazioni che è stata da sempre patrimonio della Uil e quindi svolgere la funzione propositiva che è molto più difficile di quella contestativa. L’idea della Uil è sempre stata quella di andare avanti scegliendo, nei momenti di difficoltà, solo la funzione partecipativa, sapendo leggere fra le misure che venivano dai diversi interlocutori solo il merito, senza chiedersi quale ideologia ci fosse dietro. Oggi, ancora di più, bisogna riacquistare la capacità di fare il mestiere più difficile, quello del sindacato protagonista e riformista, altrimenti i problemi marciranno e saranno sempre “i soliti noti” a pagarne le conseguenze.

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Note

(1) Il sindacalismo rivoluzionario aveva molti seguaci in Francia e in Olanda in modo da contrapporlo alla scuola di Berlino e per questo che fu chiamato oltre che con gli aggettivi “riformista” e “rivoluzionario” anche con quelli di “anglo-tedesca” e “franco –olandese”

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“Occorre un patto con le imprese per uscire dalla crisi”. Intervista al Segretario Generale della Uil Luigi Angeletti.

di Antonio Passaro

Angeletti, il 2008 finisce all’insegna della crisi. C’è chi ha fatto notare che si è trattato di un anno bisestile: superstizioni. Ma tant’è. Per noi contano i dati e questi sono inequivocabili: siamo in recessione. Ne abbiamo già parlato nelle scorse settimane, vogliamo tuttavia ritornare sull’analisi delle caratteristiche di questa crisi?

Sì. Abbiamo già avuto occasione di sottolineare che non sappiamo quanto questa crisi durerà né quanto peserà. E’ realistico sostenere che non colpirà tutti allo stesso modo, né i Paesi né le singole persone. Potremmo anche essere costretti a fare i conti con un fatto nuovo di cui già si vedono chiaramente le prime avvisaglie: non ci sarà solo la recessione ma anche una riduzione dei prezzi e, a differenza di quanto si possa superficialmente pensare, non sarà un fatto positivo. Il giorno in cui l’Istat dovesse registrare un segno negativo dell’inflazione dovremmo seriamente preoccuparci: a quel punto saremmo anche in deflazione e questo vorrebbe dire la perdita del posto di lavoro per milioni di persone.

E i problemi occupazionali sono già all’ordine del giorno. Ci puoi spiegare cosa esattamente sta succedendo?

Un’azienda può comprimere i suoi costi, ma non li può abbassare oltre un certo limite. Ci sono livelli di costo insopprimibili: bisogna pagare i propri dipendenti e allora l’unica flessibilità è data dai posti di lavoro. In passato c’era la svalutazione della lira che, di fatto, si traduceva in una riduzione dei salari rispetto a quelli degli altri Paesi. Oggi, per fortuna, non si può più fare ricorso a questo come ad altri stratagemmi ma l’unica cosa flessibile resta l’occupazione. Ecco perché la nostra paura è la deflazione che ha come conseguenza l’aumento della disoccupazione. E poiché finiranno per pagare, per tutti, coloro che perderanno il posto di lavoro, dobbiamo domandarci che cosa possiamo fare per costoro e anche che cosa possiamo fare affinché in questa condizione si venga a trovare il minor numero possibile di lavoratori.

E cosa si può fare?

Servono ammortizzatori sociali nuovi: dobbiamo estendere le tutele. Bisogna inventare un sistema nuovo di ammortizzatori sociali, un sistema di protezione soprattutto per coloro che non possono ancora fruirne e che lavorano nelle piccole imprese. Insomma, non basta solo un aumento dell’indennità di disoccupazione ma ci vuole un sistema che funzioni ovunque. Quando l’azienda va in crisi il lavoratore non deve essere licenziato ma sospeso: non è più dipendente di quella azienda, prende un sussidio ed è accompagnato dalla formazione professionale, ma così il “patrimonio lavoro” potrà essere preservato per il giorno in cui la crisi cesserà.

Mi sembra che, per certi aspetti, questa soluzione è la traduzione pratica del principio dell’esaltazione del lavoro su cui si è fondata la politica sindacale della Uil negli ultimi anni…

Io penso che quando usciremo da questa crisi ne usciremo grazie al capitale umano. Ci salverà il lavoro, la capacità di fare e fare bene. Proprio come è successo nel secondo dopoguerra: ci salverà il saper fare.

Vorrei tornare al nuovo modello di assistenza che prefiguravi. Forse presuppone anche una gestione nuova. Non è così?

Io penso che non serva avere più risorse se non si inventano strumenti e modalità per indirizzare queste risorse verso chi ne ha effettivamente bisogno. Così come credo che lo Stato non sia nelle condizioni di gestire un sistema simile, perché in Italia le imprese sono centinaia di migliaia. Occorrono relazioni industriali che consentano di gestire fenomeni come questi: lo Stato non può controllare se effettivamente un datore di lavoro mette in cassa integrazione tre persone su dieci o se le fa lavorare dichiarando il contrario. Ecco perché bisogna affidarsi ad un sistema di enti bilaterali che sono gli unici a poter evitare abusi o concorrenza sleale tra le imprese. Insomma: bisognerà estendere la cassa integrazione in deroga e studiare modalità nell’erogazione che passino per gli enti bilaterali così sarà possibile controllare l’andamento della situazione ed evitare che qualche impresa possa approfittarne. Potenziare gli enti bilaterali, estenderli e finanziarli: questo deve essere l’obiettivo comune.

Hai parlato di obiettivo comune. Facendo allora un ragionamento di carattere più generale si può dire che serve un patto con le imprese per salvare l’Italia?

Io sono convinto che occorra fare un patto con le imprese per uscire dalla crisi. Se abbiamo gli stessi obiettivi, è possibile fare un’alleanza di scopo con le imprese basata sulla crescita della produttività. Se non risolviamo tale questione, non cresciamo. Anzi: se non puntiamo sulla produttività, il nostro Paese è destinato al tracollo. Non abbiamo alleati né amici. Molti Paesi sono nostri competitori e, se l’Italia declina, nessuno si straccerà le vesti. L’unica via d’uscita è lavorare di più e meglio. Molte imprese sostengono che la competitività sia basata sugli investimenti e anche sulle risorse umane: perciò, questo è il momento di fare un patto. La stragrande maggioranza delle imprese è disponibile ad investire perché ha compreso che questa è la strada per vincere la sfida della competitività. Noi non dobbiamo perdere l’occasione e dobbiamo concentrare i nostri sforzi per far sì che sia incentivato l’aumento della produttività.

E queste alleanze servono anche per “imporre” al Governo l’attuazione di buone politiche…

E’ così. E dobbiamo dimostrare all’opinione pubblica che noi abbiamo un’idea migliore di quella del Governo spiegandone le ragioni e sottolineando le differenze tra le politiche buone e quelle sbagliate. Non possiamo essere contrari a tutto ciò che fa il Governo, per principio, altrimenti il Sindacato perde credibilità. Oggi il terreno di scontro è quello del consenso ed è l’unico terreno su cui si può contrattare con il potere pubblico. Noi dobbiamo mostrare al Governo che se vuole consenso deve avvicinarsi alle posizioni di chi rappresenta i lavoratori.

E a proposito di consenso e di buone politiche, la Uil ha di recente proposto un emendamento al decreto anticrisi in materia fiscale. Ce ne puoi parlare?

Abbiamo inviato una lettera ai presidenti dei Gruppi parlamentari invitandoli a far proprio un emendamento per l’istituzione di un fondo ad hoc, in cui far confluire tutte le risorse recuperate dalla lotta all’evasione fiscale, da utilizzare esclusivamente per la riduzione delle tasse sui redditi da lavoro dipendente e da pensione. La riduzione delle tasse ai lavoratori dipendenti e ai pensionati è un’operazione indispensabile non solo per motivi di equità ma anche e soprattutto per ragioni economiche. Noi pensiamo che sia giunto il momento di affrontare la questione in modo strutturale e non congiunturale. E se esiste un problema di risorse, il primo bacino che bisogna esplorare è quello dell’evasione.

Si torna a parlare di pensioni e di equiparazione tra uomini e donne rispetto all’età per la pensione di vecchiaia. Cosa ne pensi?

Non sono d’accordo sulla necessità di questo passo. Se poi l’innalzamento dell’età pensionabile per le donne è su base volontaria e magari incentivato, allora non c’è alcun problema. Ciò detto, vale la pena ricordare che il Capo del governo ha comunque detto che le pensioni non sono un problema: io la penso come lui!

Un’ultima domanda. A proposito di crisi, uno dei settori più tartassati è quello dell’industria automobilistica: la Fiat è in grande difficoltà e ha fatto ricorso ad una massiccia dose di cassa integrazione. Anche in questo caso “ricicciano” vecchie proposte come quella della rottamazione. Qual è la tua opinione?

Vorrei premettere che se un italiano su due comprasse un’auto Fiat, ci troveremmo nella condizione di dover assumere e non di far ricorso alla cassa integrazione. Ciò detto, quando si parla di rottamazione bisogna capire di cosa si parla. Oggi, a differenza del passato, due autovetture su tre vengono importate: su due milioni e duecentomila vetture acquistate dagli italiani, i due terzi sono prodotte in altri Paesi. La rottamazione, dunque, servirebbe a soccorrere aziende automobilistiche tedesche o francesi. Sarebbe più utile, invece, un intervento sul mercato a livello europeo. E sarebbe anche preferibile finanziare la ricerca e lo sviluppo per la produzione di autovetture sempre più ecologiche che riducano le emissioni e consumino di meno.

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