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APRILE 2012

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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MARZO 2012

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SOMMARIO

Il Fatto
Riprendiamoci il nostro futuro - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti Segretario Generale UIL. Per evitare la caduta della domanda interna l’unica leva è quella fiscale, riducendo le tasse sul lavoro e sulle pensioni -
di A. Passaro

Sindacale
Le nuove norme mettono in pericolo lo sviluppo delle rinnovabili - di P. Carcassi
Ridurre le tasse sul lavoro per sostenere la crescita - di D. Proietti
Un buon contratto per gli assicurativi - di R. Pellegrini
Non si possono rubare sogni e speranze ai giovani - di C. Vaccaro
La crisi economica e le risposte del sindacato - II parte - di P. Saija

Saggio
UIL: Una premessa utile e attuale - di G. Salvarani

Economia
Ideologia e realtà della crisi - G. Paletta

Attualità
Mobilitare tutte le energie possibili contro elusione ed evasione - di P. N.

Il Ricordo
Antonio Ghirelli - Un grande amico della UIL - di G. S.
Mezzogiorno e risorgimento. Una unità da completare - A. Ghirelli

Agorà
Col “riformismo” si può - di C. Benevento
Il sindacalismo confederale oggi - di A. Carpentieri

Il Corsivo
La mascella volitiva e i travestimenti - di P. Tusco
Chi di spada ferisce, di spada perisce - di P. Tusco

Cultura
A Simple Life, di Ann Hui - di S. Orazi
La notte della Repubblica. Diaz – Don’t clean up this blood, di Daniele Vicari -
di S. Orazi

Inserto
Gente di mare. I problemi dei marittimi in questo periodo di crisi - P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

Riprendiamoci il nostro futuro

Di Antonio Foccillo

Se si scorrono le pagine di qualsiasi quotidiano italiano, tre notizie sono in prima pagina periodicamente e cioè, l’Italia è il Paese che ha: i più bassi salari in occidente e con pensioni che, per la stragrande maggioranza, sono da fame; la più alta tassazione e con incrementi delle tasse locali costanti senza alcuna riduzione a livello nazionale; altissima evasione fiscale con imprenditori che hanno un reddito inferiore ai loro dipendenti. Continuando nelle pagine interne: l’Italia è il paese con altissimo debito pubblico; spread con i bund varia e sale; recessione; necessità di non abbandonare il rigore e continuare a fare sacrifici; in ultimo bisogna rilanciare la crescita. La domanda che nasce spontanea è: in queste condizioni come si fa? E la successiva: gli italiani perché dovrebbero accettare ancora sacrifici, visto che dal 92 una enorme mole di tagli hanno inciso con le varie finanziarie sulla vita delle persone, eppure poco è cambiato nella situazione economica generale e nella dinamica di crescita del Pil?

Infine, la domanda a cui è più difficile rispondere: la politica dell’austerità, imposta dall’Europa, fin qui seguita potra farci uscire veramente dal disastro?

Su questa ancora una volta gli economisti si dividono: fra coloro che vogliono abbattere il debito e ridurre la spesa pubblica, cosa che avviene senza grandi risultati e chi vorrebbe intervenire con investimenti pubblici per rilanciare l’economia proprio in una fase di recessione. Ma alla fine si ricorre a tosare i soliti noti con politiche di austerity. In effetti, queste problematiche non sono solo italiane, siamo in buona compagnia. L’Unione Europea, anche se in forme e con gradazioni diverse, vive la stessa situazione e gli stessi Americani, che hanno prodotto una crisi mondiale con i loro errori di enfatizzare la finanziarizzazione dell’economia, non sono da meno. Francesco Rampini su La Repubblica scrive: “Frena la crescita americana e fra le cause del suo rallentamento c’è la recessione europea. L’America si scopre a tifare per la vittoria di Francois Hollande e per la ‘la nuova linea Monti’ favorevole a politiche di crescita…. Perfino il Wall Street Journal, organo dello establishment e vicino alla destra repubblicana, osserva con interesse che ‘diversi paesi si stanno sganciando da questa coalizione guidata dalla Germania che finora ha promosso l’austerity’, il quotidiano newyorchese di Rupert Murdoch sottolinea che ‘la coalizione dell’austerity ha perso un forte sostenitore con la caduta del governo olandese’ e un altro alleato se n’è andato da quando in Slovacchia sono arrivati al potere i socialisti”.1 Cosa, allora, si può fare? Vediamo, intanto, come la Germania si è comportata quando si è trovata nelle stesse condizioni.

Quando il deficit di un Paese membro si avvicina al tetto del 3% del PIL, la Commissione europea propone, ed il Consiglio dei ministri europei in sede di Ecofin approva, un “avvertimento preventivo” (early warning), al quale segue una raccomandazione vera e propria in caso di superamento del tetto. Il primo early warning fu proposto dalla Commissione e approvato dall’Ecofin nel 2001 contro l’Irlanda. Poi nel novembre 2003 l’avvertimento fu proposto per Germania e Francia tuttavia i ministri finanziari della UE hanno sospeso la procedura per eccesso di deficit2 nei loro confronti. Il ministro delle Finanze tedesco Eichel, insieme al collega francese Mer, sottoscrisse una dichiarazione d’intenti non vincolante, che impegnava i due Paesi a ridurre i loro deficit nei due anni successivi secondo le loro forze, condizionando il rientro nel parametro ad una crescita sufficiente del pil (1,6% nel 2004, 1,8% nel 2005).

Schroeder sosteneva inoltre che se la Germania avesse accettato i risparmi imposti, ne sarebbe stata gravemente danneggiata l’economia e soprattutto la congiuntura interna. Da questa vicenda, alla luce di quanto è accaduto e sta accadendo in Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, è lecito dedurre che altri paesi avrebbero potuto chiedere un trattamento speciale come la Germania e la Francia, il cui comportamento anche se - a parere della Csu - nel breve periodo non avrà conseguenze rilevanti, tuttavia, nel medio provocherà un aumento del deficit e a lungo termine vi saranno pesanti ripercussioni sul livello degli interessi ed anche sulla stabilità della moneta.

Le attuali crisi dei debiti sovrani derivano anche da questo. Wolfgang Franz, uno dei 5 saggi del consiglio dei consulenti economici del Cancelliere Angela Merkel, metteva in guardia da una perdita di fiducia e da un forte aumento degli interessi a lungo termine come conseguenza della decisione presa.

Un fatto è certo: non esistono regole uguali per tutti e ciò che fu concesso alla Germania nel 2003, oggi non è concesso alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna e all’Italia. Il trionfo effimero di Schroeder e di Eichel, dicevano gli esperti, avrà come conseguenze visibili, in tempi non troppo lontani, più elevati deficit di bilancio non solo in Germania e in Francia, bensì anche nell’eurozona. Ciò significa che Italia, Spagna, Portogallo e Grecia ed in ultimo all’Olanda (e di questi giorni la crisi politica per effetto del deficit economico in questo Paese) stanno pagando una crisi indotta da Germania e Francia che, dopo la rottura del patto, stanno lucrando sulle disgrazie altrui e ostentano nei confronti degli altri Paesi in difficoltà, una rigidità risparmiata a se stessi. Anzi fu proprio la Germania con la massiccia vendita di BTP, che ha indirizzato una vera e propria valanga speculativa verso l’Italia, alla faccia del principio di solidarietà europea. Intanto l’attacco della speculazione diretto dalla finanza internazionale contro la Borsa italiana, ha provocato un ribasso iniziale del 3,47% pari a una perdita di 14,1 miliardi di capitalizzazione ed è poi proseguito mandando in fumo altre centinaia di miliardi. Ovviamente non si trattava di una semplice e normale operazione finanziaria. Questi “mercati finanziari”, che vengono definiti anonimi, hanno nomi e cognomi, sono uomini e gruppi che hanno precisi interessi e chiari obiettivi. Ogni operazione di destabilizzazione di uno Stato ha degli scopi ben precisi che ne rendono chiaramente individuabili i promotori. L’Italia è uno dei Paesi dell’Occidente che ha retto meglio la crisi finanziaria del 2007, proprio per non aver seguito pedissequamente i dettami della globalizzazione finanziaria. L’Italia era sotto attacco anche perché un suo default avrebbe dato il colpo definitivo all’euro e non vi sono dubbi che, senza un’Europa forte, verrebbe meno anche una visione sociale dei rapporti economici cosa che si augurano le forze montanti del capitalismo finanziario e del capitalismo di Stato, come quello cinese, che stanno avanzando velocemente sullo scenario mondiale. La possibilità di realizzare il disegno è stata offerta dalla debolezza dell’assetto politico della UE, i cui Stati sono sottoposti, ogni giorno, al vaglio non dei cittadini elettori ma dei mercati, che sono manipolati dalle più grandi multinazionali e dal sistema bancario privato. La loro influenza è riuscita a condizionare buona parte della classe politica nazionale ed europea con il risultato che alla presidenza del Consiglio d’Europa vi è un non eletto Herman Van Rompuy, in Grecia la crisi ha portato al governo un nuovo primo ministro non eletto Lucas Papademos, così in Spagna, Portogallo ed anche in Italia la tempesta speculativa dei mercati ha portato al Governo Mario Monti. Ma la nostra classe politica, oltre a dimenticare (nella migliore delle ipotesi) che sono stati proprio i mercati ad averci trascinato nella crisi, ha demandato ad altri le proprie decisioni politiche ed economiche.

Ma ciò poco importa la classe dirigente italiana, di destra, centro e sinistra, ha dimostrato di essere interessata solo alle piccole beghe interne, più che alla Politica con la P maiuscola, che minano alla radice qualsiasi capacità operativa e strategica. Al contrario il potere politico del capitalismo finanziario è capace di destabilizzare in modo diretto interi Stati e ciò è conseguenza della premessa, acriticamente accettata da economisti e politici, che proprio gli strumenti della finanza (credito, debito, moneta, assicurazioni, con tutti i loro molteplici derivati moderni) siano i migliori mezzi per garantire la maggiore efficienza nella raccolta e nell’allocazione dei capitali. I politici, democraticamente eletti, non si sono accorti che così la pretesa efficienza dei meccanismi auto-regolatori veniva allargata dal mercato dei beni a quello dei capitali, nonostante fosse, ormai quasi unanimemente, riconosciuta come uno dei presupposti del capitalismo, scientificamente e storicamente, errato.

Allora da questo stato di cose si esce solo con una politica economica di crescita, oggi invece vi è il governo della semplice gestione “emergenziale” dell’emergenza, mentre all’emergenza si dovrebbe rispondere in primo luogo con una Politica. Per questo da tempo insistiamo e chiediamo che l’intero movimento sindacale si batta in Europa per un governo eletto dai cittadini; per una banca che sia in grado di emettere moneta e per la modifica dei trattati per arrivare a non considerare gli investimenti per la crescita dentro la tagliola defici/pil.

Anche quest’anno il primo maggio, festa dei lavoratori, cade in un momento di estrema difficoltà per la gravissima crisi dell’occupazione nell’intera Europa.

Secondo le ultime stime OCSE, nei Paesi industrializzati, vi sono quasi cinquanta milioni di disoccupati, il livello più alto dal dopoguerra. Le Organizzazioni sindacali dovrebbero mandare a quel paese coloro che ancora parlano di eccessive “rigidità” del mercato del lavoro, essendo ormai certificato anche dagli ultimi rapporti OCSE che un ventennio di politiche di ‘flessibilità del lavoro ha generato, in tutti i Paesi industrializzati, solo una consistente riduzione della quota dei salari sul PIL e non ha accresciuto l’occupazione. Oggi si segue una linea di ‘austerità’, in base alla quale si ritiene che – ferma restando la “flessibilità” del lavoro – la disoccupazione sia imputabile al modesto tasso di crescita delle economie dei Paesi industrializzati, e che, per far fronte al problema, siano necessarie politiche di riduzione della spesa pubblica a cui si aggiunge in Italia una riforma del cosiddetto “mercato del lavoro”.

Si tratta di una tesi che è stata ripetutamente smentita, anche sul piano teorico, da numerosi economisti, fra cui il Premio Nobel Paul Krugman3 e dalla Lettera firmata da oltre duecento economisti contro le politiche di austerità in Europa.

La crescita economica, a sua volta, secondo i sostenitori dell’austerità, sarebbe trainata da politiche favorevoli alla “libertà d’impresa”, cioè politiche che annullano i vincoli relativi ai diritti dei lavoratori, alla tutela dell’ambiente, agli oneri burocratici, alla tassazione. Si tratta, in sostanza, della riproposizione, sotto altro nome, della supply-side economics dei primi anni ottanta, ripudiata da uno dei suoi principali assertori4, ma attuata secondo una logica in base alla quale i principali Paesi industrializzati stanno mettendo in atto manovre fiscali restrittive in regime di crisi.

Le politiche di austerity sono al tempo stesso, dannose e inevitabili. Sono dannose, in primo luogo, perché la contrazione della spesa pubblica, riducendo la domanda aggregata, riduce l’occupazione; e, a sua volta, la riduzione dell’occupazione, in quanto riduce il potere contrattuale dei lavoratori, riduce i salari e, dunque, i consumi. In secondo luogo, in assenza di iniezioni esterne di liquidità, politiche di bassi salari e alta disoccupazione su scala globale restringono i mercati di sbocco per la produzione, riducendo – per le imprese nel loro complesso - i margini di profitto e gli investimenti.

Quindi le politiche di “austerità” accentuano la crisi perché contribuiscono ad accelerare la caduta della domanda aggregata.

Se, come la visione dominante sostiene, la riduzione della spesa pubblica è funzionale alla riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, e dunque a scongiurare attacchi speculativi, va rilevato che, per contro, il calo dell’occupazione riduce la produzione e, dunque, il PIL; la riduzione dei redditi riduce la base imponibile  e può accrescere il debito pubblico. In altri termini, le politiche di austerità rischiano di generare gli effetti che si propongono di contrastare, aumentando l’indebitamento pubblico in rapporto al PIL, per effetto della contrazione del tasso di crescita.

Sempre Paul Krugman sostiene: “negli anni scorsi, gran parte dei politici europei, al pari di molti omologhi ed esperti americani, sono stati prigionieri di una dottrina economica distruttiva. Una teoria secondo la quale i governi avrebbero dovuto fronteggiare la depressione economica non già aumentando la spesa per compensare il calo della domanda privata, come indicano i trattati di riferimento, ma attraverso il rigore fiscale e l’abbattimento della spesa pubblica, in nome dell’equilibrio di bilancio.

I critici hanno detto fin dall’inizio che in una fase depressiva l’austerità non avrebbe fatto che aggravare la situazione; ma i rigoristi sostenevano il contrario, puntando sul fattore fiducia… Fortunatamente, oggi molte voci autorevoli hanno finito per ammettere che si è trattato di un mito. Ciò malgrado, però, non si vedono cambiamenti di rotta a breve termine in Europa e neppure negli Usa, che peraltro non hanno mai pienamente adottato la dottrina rigorista… oggi molti seri analisti sostengono che l’austerity in un’economia depressa ha probabilmente effetti autodistruttivi, in quanto comprime l’economia e penalizza i redditi a lungo termine, e quindi non solo non risolve i problemi legati al debito, ma al contrario li aggrava… Ora però la domanda è: cosa si può fare a questo punto? Temo di dover rispondere. Non molto.5”

Di fronte a questo pessimismo bisogna invece reagire. Promuovere, come sindacato una forte discussione per invertire la tendenza e rilanciare una nuova politica economica.

Qualcuno osserverà che non è facile, ma quando mai l’azione delle forze sociali è stata facile. Allora rimbocchiamoci le maniche e voliamo alto. Bisogna ridare fiducia e speranze ad un mondo che le ha perse. E’ ancora possibile e battersi per cambiare è l’unica forma di ridare credibilità alla nostra azione. Riprendiamoci il nostro futuro. Democrazia e partecipazione, proposte ed azione, mobilitazione e strategie diverse, sono ancora le forme di un nuovo modello in cui ci sia la possibilità di cambiare. Lo possiamo fare, lo dobbiamo fare per i nostri figli, per i nostri nipoti per una società più giusta e più equa.

_____________

Note:

1. Articolo: Frena il Pil americano, accuse all’Europa. ‘Basta con l’austerity made in Germania’ - La Repubblica 28 aprile 2012

2. votando contro la proposta del commissario - UE Solbes - appoggiata da Austria, Finlandia, Olanda e Spagna - di imporre ai due paesi maggiori risparmi (per il 2004 erano stati richiesti alla Germania 6 miliardi di euro aggiuntivi rispetto a quanto previsto, e 2 miliardi nel 2005).

3. Il dilagare dell’austerità. Un errore dimostrabile, “Il Sole 24 ore”, sabato 3 luglio 2010

4. Una impostazione teorica che è stata peraltro recentemente ripudiata da uno dei suoi più autorevoli esponenti vedere su The New RepubblicCome sono diventato un keynesiano - Ripensamenti nel mezzo di una crisi, di Richard A. Posner -. Si veda: http://www.tnr.com/article/how-i-became-keynesian?page=0

Si può rilevare che la riduzione del reddito disponibile, nella congiuntura attuale, interessa principalmente i lavoratori dipendenti. Si tratta di individui che, di norma, non possono ricorrere all’evasione fiscale, così che il calo della base imponibile deriva direttamente dalla riduzione dei salari, per date aliquote d’imposta.

5. La Repubblica 28 aprile 2012

Separatore

Per evitare la caduta della domanda interna l’unica leva è quella fiscale, riducendo le tasse sul lavoro e sulle pensioni. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario Generale UIL

di Antonio Passaro

Angeletti, nel prossimo mese di maggio uno degli appuntamenti più importanti per il sindacato è il confronto con il ministro Elsa Fornero sulla vicenda dei cosiddetti esodati. Sarà il punto di arrivo di una serie di proteste che ha visto la sua acme nella manifestazione, organizzata da Cgil, Cisl e Uil, svoltasi il 13 Aprile a Piazza Santi Apostoli a Roma. Come pensi che finirà?

Io penso che debba finire nell’unico modo giusto e possibile: bisogna trovare una soluzione secondo quanto è stato concordato con queste persone in riferimento alle leggi vigenti nel momento in cui sono stati firmati gli accordi. Una modifica di quelle leggi non può avere effetto retroattivo, sarebbe iniquo. Ci sono persone che hanno subito il trauma di una precoce fuoriuscita dal mondo del lavoro e che ora devono patire la beffa di restare privi di una forma dignitosa di reddito. Non c’è molto da discutere o da trattare: bisogna sanare questo vulnus.

I casi sono tantissimi ma si racchiudono in due sole fattispecie. Per entrambe le tipologie di lavoratori bisogna prevedere comunque una tutela....

Sì, i casi sono due. Vi sono persone che hanno fatto un accordo collettivo per la mobilità e per il pensionamento quasi sempre, peraltro, sottoscritto al ministero. E c’è poi una parte di persone che ha fatto accordi individuali con le imprese e che confida nelle leggi vigenti. Si tratta, in entrambi i casi, di cittadini che si sono licenziati o sono stati licenziati e ora non hanno più un posto di lavoro né la possibilità di percepire la pensione.

Su questa vicenda c’è stato anche quello che tu stesso hai definito “un gioco dei numeretti”. La sera precedente la manifestazione, il Ministero del lavoro ha parlato di circa 65.000 esodati. Il Sindacato, nel suo insieme, ha contestato questa cifra: alcune stime indicano, purtroppo, un valore ben più consistente, probabilmente superiore a 300.000 unità. Qual è la tua opinione?

Intanto va detto che Governo e Inps dovrebbero conoscere il numero esatto degli esodati. Noi abbiamo avuto l’impressione che, in realtà, quella cifra fornita dal Ministero fosse semplicemente coincidente con le risorse disponibili. Lo ribadisco: il Governo deve semplicemente dire che tutti gli accordi, in materia, fatti prima dell’entrata in vigore della nuova riforma sono validi e che tutte le persone che li hanno sottoscritti devono accedere alla pensione secondo le vecchie regole.

È stata anche avanzata una proposta singolare secondo cui una parte degli esodati potrebbe rientrare al lavoro. Ti sembra un’alternativa valida?

Premesso che l’unica alternativa che il Governo non può percorrere è quella di lasciare le cose come stanno, io non escludo nessuna soluzione purché sia previsto un reddito per queste persone. Per quel che riguarda, nello specifico, l’idea che una parte dei cosiddetti esodati possa rientrare al lavoro, bisogna vedere sei quei posti di lavoro ci sono ancora e se le aziende sono disposte a riassumerli. La verità è che nella stragrande maggioranza dei casi quei posti non ci sono più e, in molti casi, non ci sono più neanche le aziende. Purtroppo, non esistono soluzioni miracolistiche.

E allora, cosa chiederete nell’incontro che si svolgerà al Ministero del lavoro il prossimo 9 maggio?

Chiederemo di individuare soluzioni di buon senso, ovviamente partendo da quelle che ci sembrano più ragionevoli e realistiche, così come concordate dalle imprese e dai lavoratori. Peraltro, ci si dimentica che, molto spesso, quei lavoratori non sono usciti dal processo produttivo volontariamente, ma sono stati spinti fuori dalle stesse imprese. Insomma, gli accordi devono essere rispettati: se ci sono casi in cui queste persone possono tornare al lavoro, bene. Ma se ciò non può avvenire, l’unica soluzione è consentire loro di andare in pensione con le vecchie regole perché quelli erano gli accordi. Nessuno che abbia buon senso può pensare di lasciare tante persone senza alcuna forma di reddito.

Questo grave problema con cui ci troviamo a fare i conti non è anche la conseguenza di una scelta troppo affrettata in materia pensionistica?

Non c’è dubbio. Il Governo ha fatto una riforma previdenziale, come si suol dire, dalla sera alla mattina, e ha prodotto questo dramma come, peraltro, noi avevamo preannunciato. Con la riforma delle pensioni si è determinato il passaggio di circa 20 miliardi di euro dalle tasche di pensionandi e pensionati alle casse dello Stato senza che ne sia scaturito alcun beneficio sul fronte sociale. E infatti intendono utilizzare quelle risorse per coprire i buchi dello Stato.

Nelle scorse settimane tu hai lanciato l’ennesimo allarme occupazione. Questo 2012 sembra destinato a far segnare record negativi per il nostro Paese. È un rischio concreto?

Purtroppo, secondo stime della Uil, nel 2012 sono a rischio altri 200.000 posti di lavoro, con conseguenti tensioni sociali che potrebbero essere provocate dai licenziamenti di massa di persone adulte. E’ probabile che alla fine di questo anno il tasso di disoccupazione superi il 10% e che si collochi, così, al di sopra della media europea. Bisogna preoccuparsi di tutti coloro che hanno perso o che perderanno il loro posto di lavoro: questo è il punto. E poi bisogna preoccuparsi della crescita.

E su questo punto la ricetta della Uil è ben nota. Ma non bisogna mai stancarsi di ripeterla....quindi?

Per creare crescita si deve e si può intervenire sui consumi. Per evitare la caduta della domanda interna l’unica leva è quella fiscale, riducendo le tasse sul lavoro e sulle pensioni. Bisogna poi ridurre i costi della politica destinando il recupero di denaro proprio al taglio delle tasse. Infine, è necessario rilanciare gli investimenti. C’è un sistema di regole paralizzante: nei prossimi mesi si devono ridurre i livelli decisionali per rendere tutto più snello.

L’importanza di agire sulla leva fiscale è tale che la Uil ritiene di dover aprire una mobilitazione nel Paese proprio a partire dalla questione fiscale. Una mobilitazione proposta anche a Cisl e Cgil. Puoi ribadire le ragioni di questa scelta?

L’attuazione delle politiche recessive messe in atto dall’Esecutivo rischia di deprimere ulteriormente la nostra economia. E gli effetti sull’occupazione possono essere devastanti. L’aumento dei prezzi combinato con quello dell’aumento delle tasse sta riducendo la disponibilità del reddito in termini reali. L’incertezza del futuro, poi, genera effetti negativi anche sulla propensione al consumo. Così la produzione si ridimensiona, l’occupazione continua a calare, il Pil resta negativo e anche le entrate fiscali tendono, complessivamente, a ridursi. Bisogna invertire questa tendenza e già abbiamo detto come è necessario intervenire. In questo quadro si inserisce la rivendicazione di politiche fiscali che riducano il peso della tassazione sui lavoratori dipendenti e sui pensionati. Da qui nasce l’idea di una mobilitazione nel Paese nella prospettiva della crescita e dello sviluppo. Una mobilitazione che parta da una strategia per fronteggiare la recessione e che intendiamo elaborare insieme a Cgil e Cisl. L’attuale alto livello di tassazione non potrà che produrre nuovi disoccupati. Peraltro, non siamo noi gli unici utopisti o sovversivi quando spieghiamo che la vera riforma da realizzare per la crescita consiste nella riduzione delle tasse in busta paga. Di recente, anche un editoriale del ‘Financial Times’ ha sostenuto la stessa tesi. La strada da percorrere, dunque, è proprio questa.

Purtroppo, non è ancora una consapevolezza così diffusa...

Sì, è vero: non c’è ancora una sufficiente consapevolezza che l’eccessivo peso fiscale è non solo un problema di equità, ma è diventato il principale fattore della recessione. Quest’anno il carico fiscale complessivo finirà per mangiarsi la tredicesima. Così i consumi si ridurranno ulteriormente e le prospettive di crescita si allontanano. Noi vogliamo che si inverta questo trend. Perché, come ho già avuto occasione di ricordare, vogliamo salvare l’Italia ma anche gli italiani.

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