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APRILE 2011

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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MARZO 2011

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SOMMARIO

Editoriale
La crisi del modello socialdemocratico e le nuove esigenze della cittadinanza:
il sindacato come strumento di rinascita dei valori - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti Segr. Generale UIL La ricchezza italiana è fondata sul lavoro!
- di A. Passaro

Attualità
La qualità in Sanità - a cura di Servizio Cittadinanza e Salute

Sindacale
Una Piattaforma per un nuovo modello di banca - di M. Masi
I rappresentanti dei sindacati pensionati europei a Venezia per il 6° Congresso FERPA
- di G. Salvarani

Economia
Per non perdere una generazione di giovani - di A. Croce
Il ruolo delle agenzie di rating nella crisi dei debiti sovrani. Eccessi e paradossi -
di A. Ponti

Agorà
Più sindacato e più Europa - di C. Benevento
Innovazione digitale in tribunale - di G. Mele
Un dibattito al convegno organizzato dall’Associazione culturale The Polis - di P. Nenci
Immigrazione, integrazione e povertà - di G. Paletta
“Santo Subito” - di A. Scandura

Il Corsivo
Altri Tempi - di P. Tusco
Il tesoriere sulfureo - di P. Tusco

Internazionale
L’Islam si rinnova - di P. N.

Il Ricordo
Antonio Landolfi - di P. Sajia

Inserto
Le difficoltà del nuovo Stato e un’economia tutta da costruire - di P. Nenci

Separatore

EDITORIALE

La crisi del modello socialdemocratico e le nuove esigenze della cittadinanza: il sindacato come strumento di rinascita dei valori.

Di Antonio Foccillo

L’attuale situazione valoriale e sociale, a causa del pensiero unico, è rivoltà, soprattutto, alla competizione estrema, che ha favorito l’individualismo esasperato e di conseguenza stravolto l’universo comune di valori del mondo antico e modificato il concetto di un’etica pubblica. La necessità di un riequilibrio fra diritti soggettivi e diritti sociali, la ridefinizione dei diritti di cittadinanza di fronte alla permeabilità degli spazi di vita locali, nazionali e internazionali avevano spinto, qualche decennio fa, il mondo politico e le rappresentanze sociali ad approfondire queste tematiche. Il relativo dibattito sviluppatosi in ambienti accademici, politici e sindacali, era poi giunto ad indicare nella solidarietà – riconosciuto valore etico e sociale – un dovere giuridicamente fondato e nella promozione umana una prospettiva di respiro internazionale dei diritti. Su queste basi si prospettava una riforma dello Stato Sociale, la cui trasformazione doveva contemporaneamente promuovere i diritti economici, sociali e culturali dei lavoratori. Questi propositi non hanno avuto seguito, poiché è venuto meno quell’humus sociale, caratterizzato dal welfare state, che aveva contribuito a sviluppare e rendere concreta la democrazia attraverso un’inclusione effettiva dei diritti di tutti i cittadini. Cosicché la diffusione di etiche utilitaristiche e il ritorno al primato economico hanno avviato il disfacimento del Welfare, generando, nell’età della globalizzazione e nella new economy, la crisi della democrazia e delle sue storiche radici etiche sociali. L’assenza di una moralità sociale, prodotta da un processo graduale, che ha considerato le idee universali solo teoria, influenza in modo negativo anche la morale privata, che, in passato, era pur sempre rivolta verso l’etica sociale e quindi tendente al bene comune. Col predominio poi dell’individualismo nasce la frammentazione dell’etica, cosicché si parla di etica morale, di etica professionale, etica dell’impresa, etica di mercato, di bioetica, tutto riconducibile all’etica deontologica, per la quale, essendo ignoto l’oggetto del desiderio umano, ogni azione non ha per fine il bene, ma si basa sulle convenienze del soggetto, oppure è condotta kantianamente per il dovere. Oggi, la quarta rivoluzione tecnologica1, ha ulteriormente modificato non solo le abitudini di vita e di lavoro degli individui, ma anche i sistemi della democrazia politica ed economico-finanziaria. Inoltre, bisogna fare i conti anche con quella realtà che Jean-Jacques Wunenburger2 ha descritto nel saggio “L’uomo nell’era della televisione”, dove evidenzia i pericoli della seduzione retorica, di cui sono spesso portatori i mondi artificiali mediati dalle tecnologie, che, oggi, sembrano aver trovato, con la diffusione del medium televisivo, il più straordinario e insuperabile strumento di destabilizzazione della realtà sociale. E’ pur vero che il forte impatto mediatico di alcune importanti problematiche sociali ha fatto sì che si torni a parlare di etica. Il problema è che il dibattito si colloca in un contesto che conosce come “valori” il profitto, il potere e la fama e quindi su basi inadeguate per una corretta ridefinizione di validi comportamenti sociali, collettivi e privati. Il problema oggi, alla luce di tutto quello che sta avvenendo, in particolare nel Nord Africa, è come integrare, sempre che sia possibile, modi di organizzazione sociale differenti e soprattutto valori discordanti. La cultura occidentale mette spesso in relazione solidarietà con coesione e integrazione. La solidarietà, in una società fortemente stratificata, fa riferimento alla distribuzione della ricchezza fra le diverse classi sociali, ma si può riferire anche alla politica sociale quale strumento di aiuto e redistribuzione sociale, in cui è compresa sia l’idea di patto intergenerazionale, ma soprattutto l’idea di bene collettivo nell’intervento dello Stato, attraverso gli strumenti che garantiscano la persona in tutta la gamma dei suoi bisogni. A noi invece appare evidente che, sul piano economico, sociale, politico e culturale, di fronte al fallimento di un’economia virtuale, bisognerebbe ritornare a progettare e sperimentare modelli alternativi, ispirati dalla ricerca del bene comune, che si differenzia, sostanzialmente ed eticamente, dal bene di pochi, che ci stanno imponendo che non può avere un valore etico, poiché produce alla fine il risultato di togliere anche il minimo a chi ha diritto, almeno, del giusto. Per realizzare una solida coesione sociale, sono necessari alcuni requisiti. In primo luogo occorre la soddisfazione di necessità materiali quali: occupazione, casa reddito, salute, educazione. Il secondo requisito fondamentale è rappresentato dall’ordine e dalla sicurezza sociale. Il terzo elemento della coesione è la presenza di relazioni sociali attive con la creazione di informazioni, supporto, solidarietà e credito. Il quarto requisito è il coinvolgimento di tutti nella gestione delle istituzioni, che consolida il senso di identità e di appartenenza ad una collettività. Tali requisiti basilari, indicatori di progresso civile sono fondamentali per la creazione di relazioni favorevoli tra individui di una stessa comunità. Aristotile lega la solidarietà alla libertà: “La libertà non si costruisce attraverso una specie di autonomia o di isolamento individuale, ma attraverso lo sviluppo di legami, di tangibili atti di solidarietà, di generosi aneliti verso sofferenze altrui: sono questi che ci rendono liberi e responsabili”. Infatti, una comunità si regge se al suo interno si condivide una gerarchia di interessi che ne stabilisca la gradualità di soddisfazione. Quelli più importanti sono di carattere generale e quindi realizzano solidarietà e coesione, rispetto a quelli individuali. Le costituzioni hanno individuato in questi i valori fondanti dei principi fondamentali di libertà, uguaglianza e autodeterminazione; demandando alle strutture politiche, istituzionali e sociali il compito di realizzarli concretamente. Essi sono entrati nella concezione del pensiero moderno con la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1793, che resta il risultato, più significativo, della rivoluzione francese. Si incominciò a parlare di solidarietà e coesione, nel contesto della “questione sociale”, nata dalla diffusione delle nuove tecnologie e della concezione delle attività produttive, dal sorgere della grande industria e dall’espandersi dei fenomeni dell’inurbamento. In Italia, l’impulso al sistema di solidarietà e coesione, avvenne in concreto con l’approvazione della Costituzione italiana del 1948 che riconobbe fra i diritti essenziali della persona, quelli della salute, del diritto alla formazione e della scolarità, della previdenza e dell’assistenza sociale. La nostra Costituzione afferma che è fondata sul lavoro e, nel tentativo di superare la separazione tra Stato e società civile, al lavoro collega alcuni principi: il primo è quello della solidarietà (art. 2 della Costituzione), che deve essere politica, economica e sociale. Vi è poi il principio dell’eguaglianza, che è il corollario delle aspirazioni e obiettivi imposti dal fondamento-lavoro (art.1). Tant’è che per il raggiungimento dell’eguaglianza sostanziale è esplicitato testualmente il compito della Repubblica di (art.3) ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando, di fatto, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese’. Non vanno tralasciati i diritti sociali non immediatamente riferibili alla posizione di lavoratore, e cioè, il diritto alla salute, all’istruzione e di raggiungere, per i capaci e i meritevoli, i gradi più alti degli studi, così come quello al mantenimento ed all’assistenza sociale, e degli inabili e minorati all’educazione ed all’avviamento al lavoro. Tutti diritti umani indefettibili che ottengono riconoscimento proprio in concomitanza con quelli dei lavoratori, a dimostrare quanto estesa sia stata la civilizzazione della convivenza umana raggiunta costituzionalmente anche per opera del movimento operaio nella seconda metà del secolo scorso. Tuttavia, in questi ultimi vent’anni, la realtà socio-politica è diventata estremamente fluida, con enormi costi sociali, in primis la riduzione dei diritti del lavoro e politici3. Ne deriva un indebolimento del vincolo sociale; la diminuzione della fiducia; la diffusione dell’alienazione e dell’insicurezza sociale con la conseguenza che il cittadino non si identifica più in questo tipo di società riscontrando la rottura di un patto sociale, fondamento delle precedenti socialdemocrazie europee. La logica del profitto sta destabilizzando le realtà nazionali con gli sviluppi delle delocalizzazioni, cui si lega la perdita di posti di lavoro destinata ad incrementarsi ulteriormente in quanto le differenze nei costi della realizzazione di un bene tra le varie zone del pianeta non sembra essere affatto compensata dagli aumenti della produzione nei paesi industrializzati. E la perdita di posti di lavoro è divenuta ormai un elemento non più patologico, ma fisiologico di questa realtà economica sociale, al punto che si arriva a licenziare 2600 operai via e-mail. E’ accaduto nei sei stabilimenti italiani di Alstom Transport, multinazionale francese del trasporto ferroviario, che negli ultimi quattro anni non è riuscita a chiudere alcun accordo sindacale, ma i cui stabilimenti francesi costruiranno buona parte dei treni della NTV, che si appresta a competere con Trenitalia, però solo sulle linee ad alta redditività. E, nonostante si parli di scarsa produttività del lavoro, la realtà è che ormai proprio i Paesi ad economia avanzata non riescono più ad assorbire l’iperproduzione. Di qui la spinta ad invadere i mercati dei paesi emergenti, rimasti finora ai margini del libero scambio. Ma l’eventualità che Paesi a reddito basso si trasformino in potenziali “consumatori di beni” presuppone un robusto sviluppo economico. Questa eventualità è stata pianificata e si sta attuando con il trasferimento di parte della produzione industriale ai paesi in via di sviluppo. Contemporaneamente la richiesta di partecipazione e di accesso ai beni sta subendo un’accelerazione con le rivolte popolari, che si estendono dal Nord Africa al Medio Oriente, che mirano a disfarsi dei governi inefficienti e dispotici, per instaurare governi democratici che renderanno possibile l’accesso al consumismo proprio dell’Occidente. A me sembra evidente il rovesciamento del compromesso socialdemocratico della convergenza tra crescita e riduzione delle disuguaglianze tra paesi, tra gruppi sociali, tra cittadini e cittadini, poiché le disuguaglianze non solo permangono, ma tendono ad ingigantirsi. Quindi il problema resta quello di individuare chi saprà definire un progetto sociale diverso da quello che deriva dalla logica strumentale dell’economia e dello sviluppo tecnico? Lasciamo aperta la discussione. Bisogna quindi ridefinire la relazione tra individuo e collettività, in particolare il consenso, premessa di qualsiasi formazione sociale e la solidarietà, propria delle società complesse dove ciascun individuo assolve ad una sua funzione ritenuta indispensabile. Ed in Italia un senso di ingiustizia diffusa ed un perdurante scontro tra poteri evidenzia che la politica è diventata esclusivamente conquista del potere, con ulteriori traumatiche spaccature sociali. La minaccia di isolamento grava ancora di più sulla vita sociale degli uomini, insieme alla sensazione che non vi sia alcun legame tra ciò che si fa e il destino che ci attende, avendo perso il senso di condividere un mondo. Alcuni studi hanno evidenziato da un lato la crescente insicurezza degli strati sociali meno istruiti, dall’altro una ripresa di valori individualisti fra i giovani. Le trasformazioni successive al 1989, dalla caduta del muro di Berlino all’ingresso nell’Euro, hanno generato in Italia profondi mutamenti politici, anche per la collocazione geopolitica del nostro paese, che si sono intrecciati con un profondo disorientamento economico e sociale e, anche istituzioni che godevano di un alto livello di fiducia, sono state coinvolte in un processo di generale disincanto verso la politica e i partiti. Personalmente ritengo che la logica economica sia incompatibile con gli istituti giuridici che riguardano direttamente la personalità umana per cui serve una nuova progettualità, che muova da un confronto sulle possibili soluzioni per instaurare un più corretto rapporto tra economia, etica, politica e mondo del lavoro.

Ridimensionato lo Stato sociale, sul nostro futuro pesano troppe incertezze e troppe incognite, tuttavia le tutele sul lavoro, i diritti dei lavoratori, i diritti di cittadinanza devono avere una risposta necessaria di fronte ai rischi di un mercato globalizzato e alle economie prive di principi sociali. Come si governa questo complesso processo è il rebus che dobbiamo provare a risolvere. La deregulation, proposta come la nuova ventata libertaria, in realtà ha prodotto insicurezza, prevaricazioni e spesso anche confusione. E’ necessario quindi partire insieme alla ricerca dei fondamenti oggettivi e razionali che permettono di distinguere i comportamenti umani in buoni, giusti, o moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente inappropriati. Questa etica sociale, contrasta con quella sofisticata propaganda che sostiene il nuovo corso mondiale e che se non adeguatamente contrastata, porta al concreto rischio di involuzione democratica, poiché diffonde e giustifica la tesi secondo la quale le regole sono un ostacolo per la crescita e i diritti, un modo per rimanere fuori dal contesto competitivo mondiale. Bisogna ridare alle istituzioni la loro autorevolezza in modo che, ancor prima che con le norme, possano divulgare la cultura della legalità, della partecipazione, della emancipazione civile, democratica e sociale. Il tema della cittadinanza, lungi da essere un tema superato da utopie universalistiche, si fa ogni giorno più scottante, poiché, all’interno degli stati industrializzati, la crisi economica sta mettendo in forse la distribuzione di servizi sociali, partendo dalla Scuola ed Università e sta spingendo a ripensare ad un’eventuale più oculata e misurata ridistribuzione degli stessi o addirittura a ridisegnare i compiti assistenziali dello Stato. Bisogna tornare a volare alto. Una classe dirigente che si rispetti deve mettere anima in quello che fa. Ricreare una cultura di idee – e in questo fondamentale è il ruolo del sindacato - che sia sostenuta dalla partecipazione dei cittadini e dei lavoratori attraverso strutture politiche e sociali caratterizzate dal proprio retroterra valoriale, fatto di tradizione (il proprio dna) e modernità (fatto di pragmatismo) a cui potersi ancorare e far battaglie politiche e sociali con il fine però di costruire un modello di società giusta coesa e solidale. Insomma occorre ritrovare, concretamente, le ragioni profonde della responsabilità individuale e collettiva, impegnarsi sul piano della cultura politica così da contribuire a realizzare una democrazia economica, centrata sulla persona e soprattutto sulle capacità imprenditoriali, finalizzate all’utilità sociale (come stabilisce la Costituzione). Certamente nelle attuali società, come in passato, non vi è separabilità dell’economico dall’umano, ma questo deve indurre la politica a riacquistare la sua centralità e le forze sociali e culturali, insieme alla politica e alla classe imprenditoriale devono sentire l’esigenza di configurare nuovi rapporti tra economia ed etica, tra economia e diritto, tra economia e politica. Si deve cominciare dalla cultura e da tutte le organizzazioni che producono cultura. Il rilancio anche etico, oltre che morale, del nostro paese passa per il sapere a quali valori affidarsi. La cultura, il sapere è in grado di unire - oltre che formare le persone su valori condivisi. Il sistema formativo, dalla scuola all’Università, deve unire, perché deve istituzionalmente essere in grado di spiegare e motivare idee, modelli, valori di una società democratica e così facendo motiva, educa anche ad una vita corretta civilmente. Proprio per questo deve mantenere il suo carattere di universalità, dando così pari opportunità a tutti. La cultura, infatti, testimonia ciò che siamo oggi e ciò che saremo domani, così come richiama alla mente la memoria di ciò che siamo stati in passato, nel bene e nel male. Essa rende possibile un progetto storico attraverso il quale tutti possiamo sentirci parte dell’insieme senza localismi e divisioni, ma con la ricchezza della diversità che ci definisce e con la vivace dinamicità di molteplici punti di vista. E per questo motivo il sindacato ha ancora un compito essenziale, non solo di difesa e di tutela dei lavoratori, ma soprattutto come strumento di partecipazione pluralista e di emancipazione e nello stesso tempo come portatore di valori solidali e di coesione ed, infine, come propositore di una società più giusta.

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Note:

1. L. Dupré - Le tecnologie della conoscenza
2. Jean-Jacques Wunenburger - docente di Filosofia all’Università della Bourgogna a Digione in Francia. È direttore del Centro G. Bachelard di ricerche sull’immaginario e la razionalità. Si è occupato di questioni etiche antropologiche ha approfondito in particolare lavori sull’immagine e sul simbolo nel campo della filosofia e della spiritualità religiosa.
3. la trasformazione del cittadino, nella scena politica, da soggetto attivo a spettatore

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La ricchezza italiana è fondata sul lavoro! Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale UIL.

di Antonio Passaro

Angeletti, quest’anno la Festa dei lavoratori ha avuto un importante prologo istituzionale. Il 30 aprile, i Sindacati confederali sono stati ricevuti dal Capo dello Stato. L’occasione è stata offerta dalla concomitanza del Primo Maggio con i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia….noi andiamo in stampa, proprio mentre esci dal Quirinale….”a caldo”, qual è la tua considerazione?

Questa cerimonia è stata l’occasione per rimarcare il valore del lavoro e per ricordare a noi tutti quanto esso sia fondamentale per il nostro Paese. Noi non abbiamo altre risorse e la nostra ricchezza è fondata sul lavoro. Peraltro, i Padri costituenti vollero sancire questa verità compendiandola proprio nel primo comma del primo articolo della Carta che – è bene ribadirlo – recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Nel suo discorso, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha fatto anche un forte richiamo all’unità sindacale. Cosa pensi delle riflessioni in merito all’opportunità di una maggiore coesione sociale e politica?

Il richiamo del Presidente non è solo doveroso ma anche fondato. Noi cerchiamo di svolgere la nostra funzione pensando ovviamente all’interesse dei lavoratori e del Paese. Siamo consapevoli che bisognerebbe avere maggiore unità e maggiore capacità di individuare obiettivi comuni. Ci sono alcuni punti su cui è più facile trovare convergenze anche se restano distanze su come realizzarle. Certamente non ho mai pensato che esistesse una prospettiva di separazione permanente delle organizzazioni sindacali: sarebbe anche contro il buon senso. Ma è altrettanto evidente che serve uno sforzo: gratis non si ottiene nulla.

Insomma, la strada resta oggettivamente impervia…

Noi stiamo facendo del nostro meglio per cercare di ridurre il conflitto tra le organizzazioni sindacali. Può succedere, come è normale che sia, che si abbiano posizioni differenti ma il primo passo da compiere sarebbe quello di smettere di delegittimarci a vicenda. Detto questo, poi, io sono convinto che con lo scontro non si risolvono i nostri problemi né quelli che abbiamo con le nostre naturali controparti. Così come penso che l’unità sindacale non sia quella dei sindacalisti ma sia l’unità delle persone che lavorano. E questo è ciò per cui lavoriamo.

Il lavoro è una ricchezza per il nostro Paese. Ma, purtroppo, a molti è ancora “impedito” di dare il proprio contributo in questa direzione: la disoccupazione – quella giovanile, soprattutto, e nel Sud, in particolare – non diminuisce in modo significativo. Quale può essere una possibile soluzione?

Abbiamo più volte ribadito, anche da queste pagine, che la buona occupazione è una conseguenza dei processi economici. Se non si realizzano investimenti produttivi, se non si punta su ricerca e innovazione, su infrastrutture e formazione, non si determina quel ciclo positivo per la ripresa e lo sviluppo da cui, poi, deriva la crescita occupazionale. Tuttavia, alcuni provvedimenti possono certamente aiutare a invertire in modo significativo l’attuale trend. Iniziamo col detassare chi assume i giovani, soprattutto in certe aree del Paese. Questa può essere una strada: non produrrebbe miracoli ma sarebbe un segnale. Noi dobbiamo fare tutto ciò che è possibile perché in Italia si producano posti di lavoro.

Anche in questo mese di Aprile, l’attenzione è concentrata su alcune importanti vicende aziendali. Ancora una volta, svetta – per così dire - una questione legata al mondo Fiat. Si tratta della ex Bertone. Per riattivare lo stabilimento di Grugliasco – i cui dipendenti sono da anni in cassa integrazione - e produrre lì la Maserati si è giunti ad un’intesa che la Fiom non intende sottoscrivere. Cosa succede in quella realtà?

Sono le Rsu che devono dare una risposta conclusiva: l’azienda sta ancora aspettando, ma i tempi sono ristrettissimi. Noi abbiamo avuto un incontro con l’Amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, al quale abbiamo chiesto che, in presenza di una risposta negativa, la produzione della Maserati resti comunque nel nostro Paese. Si tratterebbe, in questo caso, di scegliere un altro sito: noi siamo disponibili a discutere sul dove, come e quando. Marchionne ci ha detto che è nelle condizioni di produrla in molti posti: attende una risposta e poi sceglierà. La situazione, comunque, è in rapida evoluzione e i nodi si potrebbero sciogliere già nei primi giorni di maggio. Vedremo.

Sì, vedremo: approfondiremo la questione nel prossimo numero. L’altra vicenda aziendale del mese è quella dell’opa su Parmalat. In breve, qual è il tuo giudizio?

Avrei preferito che Parmalat restasse di proprietà nazionale. Non credo che questa prospettiva sia più proponibile. Sul breve periodo, la vicenda non desta alcuna preoccupazione; ma, sul lungo, nutro qualche perplessità.

Lo stop, seppure momentaneo, del governo al nucleare ha suscitato molte polemiche. Quanto ha pesato su questa decisione, la recente tragedia giapponese?

Il governo si comporta come la maggioranza degli italiani: vive e sceglie sulla base di emozioni. Venti anni fa, quando abbiamo abbandonato il nucleare, lo abbiamo fatto sull’onda di un’emozione: la paura generata dall’incidente di Chernobyl. Oggi è accaduto qualcosa di simile. Lo tsunami in Giappone ha determinato i guasti al reattore di una delle centrali nipponiche e su tutti noi è tornata ad aleggiare la preoccupazione. Io credo che la decisione del governo sia coerente con questo clima.

Anche sull’esplosione del problema immigrazione, conseguenza delle rivolte che hanno infiammato il Nord Africa, c’è grande discussione e molta emotività…

Sì è vero. Il dibattito di questi giorni sugli immigrati mi sembra centrato male perché anche quella parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche che parla genericamente di accoglienza non si rende conto che propone una soluzione assolutamente astratta. Considerata la difficoltà del momento, le scelte fatte mi sono apparse razionali. La questione, comunque, è molto complessa e andrebbe affrontata in una dimensione europea.

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