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APRILE 2008

LAVORO ITALIANO

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Antonio Foccillo

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di Roma n.° 402 del 16.11.1984

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Il numero di marzo
MARZO 2008

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SOMMARIO

Editoriale
Finanziarizzazione dell’economia e ricadute sul sociale - di A. Foccillo
Intervista a Luigi Angeletti Anche al nuovo Governo chiederemo di tagliare le tasse sul lavoro dipendente e incrementare le pensioni – di A. Passaro

Società
Premio Etica e Impresa: Una chiave per lo sviluppo del Modello Partecipativo - di L. Santini
Voltiamo pagina! - di A. Rea

Sindacale
Lubiana 2008, il sindacato rivendica l’aumento dei salari - di N. Nisi
Serve un “new deal” per l’agroalimentare - di S. Mantegazza
Il Sindacato deve sfidare detrattori ed avversari sul terreno della rappresentatività, allargando la propria base di riferimento - di A. Regazzi
Alle critiche rispondere con le proposte - di A. F.
Commenti, valutazioni e critiche all’accordo sul welfare del luglio 2007 - di P. Nenci

Economia
Di speculazione si muore - di R. Tanfani
Unica crisi e soluzioni diverse - di A. Ponti

Internazionale
La Uil a Lima - di A. Carpentieri
Il paese delle nevi e la concorrenza imperfetta - di A.P.

Agorà
Campagna “Basta un attimo”. Intervista a GIANLUCA MELILLO - di M. Abatecola
Dieci milioni di bambini non superano i cinque anni - di P. Nenci
Modificando usi e costumi, cambiando modello di sviluppo è possibile vivere tutto meglio - di G. Salvarani
Quanta scienza c’è dietro la medicina moderna? - di G. Paletta

Cultura
Leggere è rileggere: JORGE LUIS BORGES - di G. Balella
Un artista del Comitato Centrale della UIL UNSA si fa onore - di N. A. Rossi
Protocollo d’intesa per produrre un Videocatalogo delle location possibili nel Lazio - di N.A.R.
Onora il padre e la madre - di S. Orazi

Inserto
Giovani e sindacato - di P. Nenci
Con un intervento - di A. Landolfi

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EDITORIALE

Finanziarizzazione dell’economia e ricadute sul sociale

Di Antonio Foccillo

Il 19 marzo, la Uil, ha avviato una riflessione per cercare di fare chiarezza sulla situazione economica globale per evitare come per “gli abitanti” della caverna di Platone che si possa valutare la realtà dalle ombre e considerare pazzo colui che è uscito e la descrive per quello che è veramente. La situazione con la quale dobbiamo fare i conti, ormai è acclarata e non è, solo, una supposizione di pochi “grilli parlanti”. L’economia globale è in netto peggioramento e ciò avviene in un contesto d’incertezza sulle prospettive macroeconomiche delle principali economie. Inoltre, a causa delle turbolenze nei mercati finanziari, originate dalla crisi americana dei mutui sub-prime, anche la crescita europea e, in particolare quella italiana, ne risentiranno. Il numero degli economisti e degli analisti che reputa molto probabile il verificarsi di una recessione negli Stati Uniti, con forti conseguenze su scala mondiale, è in continuo aumento. Altri rimangono convinti che, tecnicamente non possa ancora parlarsi di recessione, ma si tratti di una forte e pericolosa frenata dell’intero sistema economico. Che l’economia a “stelle e strisce” non attraversi un bel momento si può capire dalla lettura dell’ultimo rapporto del dipartimento del Commercio statunitense che ha certificato, nel quarto trimestre del 2007, una crescita del Pil solo dello 0,6%. Su base annua, il Pil statunitense è cresciuto del 2,2%, dato invariato rispetto a gennaio. In particolare, le spese per consumi continuano a non aumentare e gli investimenti residenziali sono crollati del 25,2%. Negli ultimi mesi l’occupazione è scesa in ogni settore, cancellando solo in febbraio 63 mila posti di lavoro. Tale flessione dell’occupazione porterà ad una diminuzione dei redditi salariali e quindi dei soldi spesi per consumi, con ripercussioni sul sistema economico complessivo. La ricchezza dispersa, soltanto nell’ultimo anno, è calcolata, da economisti come il Nobel Stiglitz, in 7000 miliardi di dollari che rappresentavano gli aumenti nominali di valore delle case contro i quali i proprietari prendevano mutui o prestiti al consumo e che oggi non possono ripagare, perché la casa vale meno di quanto essi devono alle banche. Il pessimismo degli economisti e finanzieri resta fortissimo. La paura di un contagio globale inizia a diffondersi nonostante che i vertici della Bce si affannino da settimane a mantenere solide le fondamenta dell’economia in Europa. Per capire quanto un’eventuale recessione americana potrà influenzare l’Europa bisogna tenere presente l’andamento dell’inflazione, della disoccupazione e il comportamento dei consumatori nei confronti del calo di valore delle loro posizioni finanziarie complessive. È certo che queste ultime saranno influenzate dai costi delle materie energetiche ed in particolare dal prezzo del gas e del petrolio nel quale un buon 20% è frutto della speculazione. La speculazione sulle materie prime fa sì che nei mercati finanziari i capitali si trasferiscono dal comparto azionario al comparto delle materie prime, in particolare verso il petrolio che è un bene fondamentale per la produzione mondiale. Le banche centrali per assicurare la stabilità dei prezzi a medio termine combattono l’inflazione alzando i tassi d’interesse e sono più attente ai prezzi al consumo (escluse energia e alimentazione) che all’inflazione globale. Nel nostro paese l’aumento dei prezzi energetici fa lievitare l’insieme dei prezzi e diminuire il potere d’acquisto. Per questo i sindacati avvertono la necessità di una nuova politica contrattuale e di una diminuzione della pressione fiscale, che secondo l’Istat, nel 2007, si è attestata al 43,3%, il livello più alto degli ultimi dieci anni. In tempi di elezioni politiche ed in assenza di un Governo e di programmi elettorali che illustrino delle politiche economiche di ampio respiro, condivisibili o meno, sembra di essere in una situazione di “caos calmo”. Ma vediamo adesso quello che è successo e come si è arrivati a questo. Il corso degli eventi di questi ultimi anni ha fatto sì che la forza dell’economia prevalesse sul potere politico. Ne derivano effetti negativi in ambito sociale, come un’iniqua redistribuzione di ricchezza all’interno dei singoli Stati e tra nord e sud del mondo, dove oltretutto le multinazionali praticano lo sfruttamento “in loco” dei lavoratori, in assenza di adeguate tutele e con condizioni di lavoro inaccettabili. La globalizzazione ha, di fatto, marginalizzato se non del tutto esautorato il potere politico “democratico” e la sua funzione “moderatrice” al fine di rendere sempre meno significativi i vincoli imposti al mercato e, di conseguenza, aumentare significativamente i profitti delle imprese multinazionali. Le caratteristiche della globalizzazione dell’economia, sul piano generale-descrittivo, ma anche sulla base di dati disponibili, di fonte “ufficiale”, sono le seguenti:

a) L’indebolimento dello stato-nazione, che inizia, dai primi anni ‘70, con l’affievolimento del legame tra stato nazionale e capitale. Questo fenomeno complica per i governi il controllo dell’economia nazionale e della gestione fiscale, con una conseguente crisi di legittimità e di sovranità degli stati nazionali.

b) Lo sviluppo delle imprese transnazionali. Le imprese transnazionali, attraverso gli investimenti diretti all’estero e l’apertura di filiali variamente collegate con le società-madri, accrescono progressivamente il proprio controllo sull’economia mondiale e sullo sviluppo tecnologico.

Appare quanto meno inspiegabile che il neoliberismo sia diventato la nuova religione politica nonostante non abbia portato alcun benessere diffuso, anzi abbia ampliato le disuguaglianze sociali all’interno dello stesso Paese e le sperequazioni tra i paesi ricchi ed il “sud” del mondo. Il processo di finanziarizzazione dell’economia, iniziato all’incirca verso la fine degli Anni Settanta consistente nella riproduzione di denaro per mezzo di denaro, ha aggiunto al potere gerarchizzante della moneta, anche la funzione, propriamente globale, di gestione e controllo dell’allocazione del risparmio finanziario. Quindi quella prevalenza dell’economia sulla politica avviene anche perchè il bene privato e individuale prevale sul bene comune. Ciò porta, oltre alla riduzione del ruolo dello Stato, al prevalere di egoismi regionali e alla formazione di insiemi regionali autoprotetti. Inoltre la deregolamentazione dell’economia e della finanza mondiale porta al superamento dello stesso concetto liberista di economia per arrivare ad un capitalismo selvaggio. In sostanza la sovrapproduzione di merci e di capitali provoca un rallentamento nella crescita complessiva e una più agguerrita competizione. Inoltre favorisce sia una centralizzazione del capitale finanziario (attraverso fusioni e acquisizioni), sia una crescita del capitale fittizio (basata sulla moltiplicazione di operazioni di tipo speculativo). Ma il danaro è anche la merce più inquinata e meno trasparente a causa dell’immissione nel mercato finanziario del danaro sporco, proveniente sia dalle corruzioni politico-economiche che dalle criminalità organizzate del mondo. Ma un capitalismo, cioè senza regole che favorisca la competitività, quindi la legge del più “forte”, la legge del “primo”, non può che condurre ad una pericolosissima leadership dei finanzieri, delle multinazionali, delle famiglie più ricche del pianeta e della criminalità. La crisi dei mercati finanziari degli ultimi anni deriva solo in parte dal negativo andamento dell’economia reale. Dipende anche da criticità connesse alle regole che governano i mercati, dal comportamento degli operatori e dai meccanismi di sollecitazione e tutela del pubblico risparmio. Poi è scoppiato anche il caso Parmalat, con un buco di circa 14 mld di Euro. Ma il caso Parmalat ha un’ulteriore aggravante: arriva subito dopo quello Cirio, che aveva già profondamente minato la fiducia nei confronti del nostro sistema finanziario e creditizio. I “subprime” americani sono un altro frutto dell’ingegneria finanziaria, derivano dalla concessione di mutui anche a chi non poteva permettersi il pagamento di un prestito a interessi variabili e quindi crescenti. Quei mutui sono stati assemblati in prodotti finanziari simili alle obbligazioni e venduti in tutto il mondo, soprattutto ad investitori istituzionali statunitensi ed europei. Poiché una percentuale di sottoscrittori dei mutui ‘subprime’ ha smesso di pagare le rate dovute, è entrato in crisi tutto il sistema legato a questo settore. Il rischio più preoccupante è quello del credit crunch: restringimento dei prestiti, se non a tassi molto elevati, e questo potrà provocare una sensibile contrazione nell’erogazione dei mutui, capace, in linea teorica, di bloccare gli investimenti. Questa crisi, partita dal settore finanziario, è dilagata quindi sui mercati azionari mondiali, per riflettersi su tutti quei comparti che per la loro attività fanno ricorso al credito. Infine il settore costruzioni ed immobiliare che fa massiccio ricorso all’indebitamento è stato più pesantemente colpito. Noi, da tutto ciò, ricaviamo la convinzione che occorra un’economia reale, un efficace controllo delle attività speculative, in particolare quelle caratterizzate da profitti puramente finanziari, rapidi e saccheggiatori, devastatori dell’economia stessa. Comunque la crisi finanziaria non è ancora finita e, dopo il panico da “liquidità” e da “stretta del credito”, il conto da pagare ricade sempre sulle spalle di risparmiatori e imprese. Anche a voler essere favorevoli alla finanziarizzazione dell’economia dobbiamo tener presente che i casi Argentina, Cirio e Parmalat - pur essendo profondamente diversi tra loro – hanno posto un problema di credibilità dei mercati, portando sul banco degli imputati uno dei principali strumenti di indebitamento delle imprese: le obbligazioni societarie. Tanto per dare un ordine di grandezza, solo per questi tre casi stiamo parlando di oltre 500.000 risparmiatori italiani coinvolti e circa 15 miliardi di Euro di prestiti obbligazionari a rischio. Questi due fenomeni evocano allo stesso tempo paure e speranze. Per alcuni divideranno ancor di più il mondo tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud; per altri faciliteranno dovunque la diffusione dello sviluppo. Gli eventi di questi ultimi mesi ci hanno senz’altro costretto a guardare in faccia la vera natura dell’alta finanza, inducendo a dubitare della sicurezza e della trasparenza del mercato finanziario e a chiedere anche una veloce riforma delle regole della borsa valori.

Ma le possibilità di controllo ed il potere del sindacato si assottigliano sempre più. Nasce la filosofia della flessibilità e dell’incertezza. In questo contesto sempre fondamentale resta il ruolo commerciale, ma più centrale ancora diventa quello finanziario, poiché è a questo livello che si decide come e dove investire, produrre, vendere; è la mente cui fanno capo le diverse fasi del ciclo produttivo. In conclusione, concentrazione produttiva, concentrazione finanziaria e assenza di vincoli sui mercati finanziari mondiali, costituiscono una “miscela esplosiva” che porta sempre più al divorzio tra economia reale e finanziaria. Per quanto riguarda il sindacato, in questi anni ha dovuto giocare sempre in difesa. Troppo impari erano le forze in campo, è mancata la volontà di individuare un modello alternativo, perché vi è stata un’adesione acritica al modello della “competition i competition”. Oggi vi è bisogno di una “nuova” capacità propositiva. Certo non è facile, ma bisogna farlo. Dopo un periodo lungo di privatizzazioni, esternalizzazioni, deregolation, flessibilità e delocalizzazioni è ora di fare una riflessione critica su cosa è cambiato in positivo o in negativo e come ha influito sulle persone e sui loro diritti. La Confederazione Europea dei sindacati ha avviato un primo confronto in un recente esecutivo ed ha sostenuto: “L’effetto combinato di restrizione monetaria e la crisi dei mutui “subprime” rischia di far deragliare il processo di crescita in Europa”. Per questo ha proposto: “Dopo anni di salari reali stagnanti e di alti profitti in alcuni paesi ed in alcuni settori le organizzazioni sindacali europee stanno chiedendo una maggior crescita salariale. Per i consumi familiari aumentare del 2% significa necessariamente aumento dei salari. Ciò è illustrato anche nelle previsioni Autunno 2007 della Commissione Europea dove si può notare che una ripresa dei consumi c’è dove c’è un maggiore salario reale e che entrambi questi fattori aumentano di pari passo, sono correlati”.

In Italia i sindacati da tempo lo richiedono e questo in particolare la Uil che chiede la riduzione delle tasse sui salari e sulle pensioni per aumentare il potere d’acquisto l’unico elemento in grado di rilanciare i consumi.

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Anche al nuovo Governo chiederemo di tagliare le tasse sul lavoro dipendente e incrementare le pensioni. Intervista al Segretario Generale della Uil Luigi Angeletti

di Antonio Passaro

Silvio Berlusconi sarà il nuovo Presidente del Consiglio. La maggioranza parlamentare è nettamente appannaggio del centrodestra, con un risultato che va al di là delle aspettative. Inizia una nuova stagione politica. Come valuti questo risultato?

Mi sembra una vittoria inequivocabile del Popolo delle libertà e dell’alleanza che gravita attorno ad esso; un risultato chiaro che non ha smentito i sondaggi pre-elettorali e che assicura stabilità. La maggioranza è ampia tanto alla Camera quanto al Senato e, dunque, è nelle condizioni di governare. Sta di fatto che dalle urne è emersa una rivoluzione politica: è come se la riforma elettorale l’avessero fatta gli elettori.

Cosa succede ora per il Sindacato? Che tipo di rapporto possiamo immaginare tra le parti sociali in generale, e la Uil in particolare, e questo nuovo governo?

Per noi, il centrodestra non è un terreno sconosciuto, né un interlocutore ignoto. Ciò detto, come si sa, noi non giudichiamo i governi dai loro colori o dai loro simboli. Valutiamo, invece, le azioni e le politiche concrete degli Esecutivi: quando ci convincono le sosteniamo, quando non ci convincono, cerchiamo di modificarle.

Qual è il provvedimento di politica economica che la Uil chiederà al nuovo governo?

Esattamente lo stesso che abbiamo chiesto al governo precedente: tagliare le tasse sul lavoro dipendente e incrementare le pensioni. La nostra economia cresce poco, e questo dipende in misura maggiore, dal fatto che i consumi interni sono crollati. Sono in particolar modo le famiglie con reddito fisso, da lavoro dipendente o da pensione, che non riescono a sostenere il costo della vita. Così limitano i loro consumi e le prospettive di crescita della nostra economia si ridimensionano. Non occorre solo una politica sociale, ma una vera spinta alla crescita economica.

Per lo sviluppo del Paese, però, continuano ad essere necessari anche gli investimenti. Non è così?

Certo, è necessario che l’Esecutivo attui politiche di investimento in ricerca e in infrastrutture immateriali e materiali. Servono investimenti in impianti per la produzione dell’energia, a partire dallo sviluppo di quelle alternative, ma anche per la realizzazione di rigassificatori e termovalorizzatori nel ciclo integrato dei rifiuti. Così come servono investimenti per la costruzione di autostrade, di ferrovie e per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. Scelte indispensabili, queste, se si intende rendere strutturale il processo di sviluppo del Paese.

Resta da sciogliere anche il nodo della politica contrattuale, altrimenti è difficile immaginare una crescita dei salari. Cosa fare?

Non vi è alcun dubbio che, per puntare sulla crescita dei salari, occorra far leva anche su una politica contrattuale coerente con il nuovo obiettivo dello sviluppo che ci faccia uscire dalla trappola della bassa produttività e dei bassi salari. In questa partita, il ruolo dell’Esecutivo dovrà semplicemente limitarsi a quello di datore di lavoro pubblico. È invece decisiva la funzione istituzionale del Governo nella definizione di una politica che riduca il peso fiscale sul salario basato sulla produttività.

Recentemente, in occasione di una conferenza stampa hai auspicato che, su questo punto, si possa giungere ad una soluzione in tempi brevissimi…

Speriamo non resti solo un auspicio…

Qualcosa sembra muoversi però anche sul fronte della rappresentanza. Proprio la Uil ha lanciato una proposta. Puoi sintetizzarla?

Si deve proseguire in un’operazione di chiarezza, in corso già da molti anni a questa parte e fortemente sollecitata dalla Uil: occorre che i lavoratori votino sempre e comunque.

E’ indispensabile che si diffondano in tutti i luoghi di lavoro le occasioni per la verifica della rappresentanza sindacale su base elettorale. Ed è altrettanto necessario che siano sottoposte al voto dei lavoratori le decisioni, fondamentali per la vita nei luoghi di lavoro, relative agli accordi da sottoscrivere o agli scioperi da proclamare.

Questo elemento di trasparenza della rappresentatività affidato direttamente al coinvolgimento dei lavoratori, già oggi, è presente in innumerevoli realtà ed è attivato in molte situazioni. La Uil ritiene che debba trovare diffusione e sistematizzazione secondo lo schema prospettato e sulla base di un confronto innanzitutto con Cgil e Cisl, ma anche, lì dove necessario, con le controparti datoriali.  

Cambiamo argomento. Uno tra i temi più caldi dell’ultimo mese che, in piena campagna elettorale, ha tenuto alta l’attenzione di migliaia di lavoratori e cittadini, è stato di sicuro quello della vicenda Alitalia. La Uil è stata protagonista lasciando anzitempo il tavolo della trattativa. Cos’è accaduto in quei giorni?

Ci siamo resi conto che, in quelle condizioni, la trattativa era sostanzialmente finta. Abbiamo proposto, dunque, un rinvio proprio per evitare di essere posti davanti ad un bivio: bere o rompere.

Non ci hanno seguito, ed è avvenuto purtroppo quello che temevamo. Siamo stati facili profeti.

Ed ora cosa accade? L’opzione Air France resta sempre in piedi ma con l’avvento di Berlusconi, per Alitalia si parla anche di cordata italiana oppure di un coinvolgimento della russa Aeroflot. Qual è il tuo parere?

Al di là delle singole soluzioni, è sempre bene che, in queste circostanze, non vi sia un solo interlocutore: è preferibile che per la nostra compagnia di bandiera vi siano più pretendenti. Ciò detto, la Uil ritiene che la migliore tra le scelte possibili sia quella capace di garantire, per la nostra compagnia di bandiera, il maggior numero di aerei in volo e conseguentemente il maggior numero di collegamenti internazionali e intercontinentali da e per l’Italia.

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