1890: il primo Primo Maggio
MAGGIO 2019
Inserto
1890: il primo Primo Maggio
di   P. Nenci

 

 

La prima volta la Festa del lavoro fu celebrata in Italia e negli altri Paesi d’Europa giovedì primo maggio 1890. “Il Primo Maggio è come parola magica – scrisse il settimanale di Forlì La Rivendicazione – che corre di bocca in bocca, che rallegra gli animi di tutti i lavoratori del mondo, è parola d’ordine che si scambia fra quanti si interessano al proprio miglioramento”. Oggi tante cose sono cambiate ma non possiamo dimenticare quella data che dette inizio alla lunga lotta per la promozione del lavoro da uno stato di semi schiavitù ad uno stato di diritti. Rileggiamo cosa scrissero i giornali di quel lontano giorno: le paure del governo che improvvisamente scoppiasse la rivoluzione, i timori dei borghesi, le speranze e le esaltazioni dei lavoratori. In particolare la situazione di Roma, chiamata da appena due decenni a recitare il ruolo di Capitale del quale faticava ad appropriarsi.

 

La Festa del lavoro, come è ben noto, fu istituita in Europa dal primo congresso della Seconda Internazionale (l’organizzazione creata dai partiti socialisti e laburisti) tenutosi a Parigi nel luglio 1889. Scopo di quello sciopero- festa era di premere su tutti i governi perché per legge stabilissero che l’orario di lavoro non potesse più eccedere le otto ore giornaliere. Infatti, troppo spesso gli operai erano costretti a lavorare anche fino a 16 ore al giorno. La richiesta della riduzione dell’orario doveva essere sostenuta da tutti i lavoratori a cominciare dal primo maggio dell’anno seguente. Anche la scelta della data ha una sua storia: la battaglia per ridurre il peso massacrante della giornata di lavoro aveva già avuto esito positivo nell’Illinois fin dal 1867. I Cavalieri del Lavoro (associazione di lavoratori americani fondata alla fine del 1870) si appropriarono di quella vertenza vinta, puntando a riproporla e generalizzarla. Nei primi giorni di maggio del 1886 i lavoratori della Haymarket di Chicago, produttrice di macchine agricole, che erano in sciopero furono affrontati dalla polizia intenzionata a sciogliere i loro assembramenti fuori dalla fabbrica e contro gli scioperanti che non intendevano andarsene furono sparati alcuni colpi di fucile: due i morti e diversi i feriti. Per protestare contro questo inconsulto atto di violenza gli operai rinnovarono il loro sciopero e durante una nuova manifestazione da mano ignota fu lanciata una bomba che uccise sei poliziotti e ne ferì una decina. La polizia reagì in maniera pesante e le vittime si moltiplicarono ma non se ne seppe mai il numero preciso. Ci furono arresti e un processo con sette condanne a morte, un ergastolo e altre pene minori. E fu imposto che nessuno potesse manifestare contro queste sentenze. In memoria di questi martiri del lavoro fu scelta la giornata del primo maggio come appuntamento “di festa e di lotta” per il raggiungimento delle otto ore giornaliere. In Italia, come in altri Paesi d’Europa, il primo Primo Maggio fu quindi celebrato nel 1890. E vediamo cosa successe proprio quel giorno particolare.

 

Le dimostrazioni del I Maggio 1890

Le leggiamo sulla prima pagina del Corriere della Sera (stampato in data 2-3 maggio 1990) col titolo che abbiamo riportato. Giovedì. Roma: mattinata tranquilla ma con qualche apprensione, pioveva, c’era meno gente in giro e i gioiellieri di via del Corso “erano socchiusi” perché si temevano disordini e interventi delle forze dell’ordine. Banche, istituti e ambasciate erano vigilati, pattuglie di polizia e di militari presenti in vari quartieri. Particolare attenzione per Castel Sant’Angelo, Vaticano e Borgo. “Gli operai in alcune fabbriche non lavorarono ma non vi furono né violenze né minacce”. Nel primo pomeriggio un gruppo di operai si radunò a Monte Testaccio: “era la loro festa”. La polizia li invita a disperdersi ma loro rifiutano. All’improvviso sbucano due compagnie di bersaglieri e i manifestanti gridano: “Ecco i nostri fratelli, vengono contro i fratelli” e cominciarono tutti a fischiare. Fu chiamata la cavalleria che si inerpicò sull’altura disperdendo i dimostranti senza incidenti. La notizia arrivò dentro la città dove si vociferò di una carica con feriti e morti. Intanto i manifestanti del Testaccio – incitati da Gnocchetti – si divisero dandosi appuntamento a Piazza del Popolo; Gnocchetti che eccitava e incitava a non mancare al nuovo appuntamento venne arrestato. Verso le cinque a Piazza del Popolo s’erano radunati in circa duecento. Intanto su via del Corso arrivò in carrozza il re per una gita a Villa Borghese; la polizia lo invitò a deviare per un’altra strada ma Umberto non accettò: attraversò Piazza del Popolo e salì verso il Pincio. In questura fu riferito che alcuni operai intendevano recarsi al gazometro per tagliare le condotte del gas, allora fu chiamato un plotone di allievi carabinieri per disperdere l’assembramento. Gli operai risposero di non essere dei mascalzoni e di non volersene andare: furono operati alcuni arresti, tra i quali Corradetti e i fratelli Nobili, “noti anarchici”. Furono chiamate due compagnie di militari: il loro passaggio allarmò i pochi negozi ancora aperti che si affettarono a chiudere. Alle sei arrivò sulla piazza la carrozza della regina che, passando da Porta del Popolo, rientrava in città: i pochi dimostranti rimasti la salutarono e l’applaudirono. Poco dopo passò anche il re di ritorno della sua passeggiata, percorse sempre Via del Corso e arrivato davanti al Caffè Aragno “gli venne fatta una dimostrazione”. In piazza Sciarra un tale si avvicinò alla carrozza del re gridando “Abbasso l’Austria, viva la repubblica!”, “fu subito arrestato”. Capannelli di operai anche in Piazza Colonna, c’erano alcuni noti anarchici e la polizia ne arrestò un certo numero. Furono arrestati Cortonesi e Massarani e poi l’operaio Baldini perché eccitavano la folla. Fuori Porta del Popolo si presentò una colonna di circa 400 operai muniti di bastoni ma furono dispersi. Verso le otto e mezzo a Porta Angelica ci fu un nuovo assembramento che procedeva gridando “Viva la rivoluzione!” ma venne sciolto prima che entrasse in città: “furono operati tre arresti, gli operai si sparsero in varie osterie”. Alla stessa ora la cavalleria disperse l’ennesima dimostrazione, di 400 operai che percorrevano via dello Statuto gridando “Viva l’anarchia, viva la rivoluzione!”. Livorno: alle 8 e mezzo di sera fu fatta esplodere una bomba davanti al palazzo della prefettura; il corrispondente del Corriere raccontava i danni alle porte e alle finestre, le donne che fuggivano, i negozi che chiudevano i battenti: “un nuvolo di poliziotti conduce alla questura moltissimi individui ammanettati; una gran quantità di arresti viene operata nel caffè vicino alla Prefettura”. Più avanti si legge che gli arrestati sono forse 80 e che la polizia è sicura d’aver messo le mani sul colpevole dell’esplosione. Il corrispondente che ha telegrafato queste notizie aggiunge che in mattinata la città era stata percorsa da molti operai, che i negozi aperti erano pochi e anche questi avevano chiuso nel pomeriggio. Chiuse anche le tabaccherie e il gioco del lotto. “Poche fabbriche e stabilimenti aperti, nessun operaio andò al lavoro. Scioperarono pure le donne”. In via delle Commedie fu tenuta una conferenza alla quale assisteva un numero strabocchevole di operai che quando uscirono gridarono: “Viva la rivoluzione sociale”. Accorsero le forze dell’ordine e dispersero l’assembramento. Bersaglieri e polizia hanno percorso in ogni senso la città per prevenire disordini; si dice di due feriti, un carabiniere e un civile, il feritore sarebbe stato arrestato. Torino: mattinata tranquilla sotto la pioggia che cessa a metà giornata; allora un centinaio di dimostranti si diresse al cotonificio Valdocco e alle officine di Savigliano schiamazzando e lanciando sassi che frantumarono i vetri e costrinsero gli operai a sospendere il lavoro. Accorsero polizia, carabinieri e cavalleria, effettuarono una dozzina di arresti; un altro gruppo di dimostranti veniva sciolto a ponte Mosca. Nel primo pomeriggio un terzo gruppo di dimostranti, soprattutto disoccupati, occupava la vecchia Piazza d’Armi; anche loro allontanati e “arrestati quattro noti socialisti che provocavano disordini vennero subito portati in questura in vetture da nolo scortate dai cavalleggeri”. La popolazione fu presa dal panico: quasi tutti i negozi e i portoni vennero chiusi ma c’era molta gente in giro, sembrava un giorno di festa; le pattuglie percorrevano le strade, “nei sobborghi vennero operati nuovi arresti”. Mentre una compagnia di fanteria stava per uscire dalla caserma un fucile cadde dalle mani di un milite e restò ferito gravemente un altro militare. I socialisti si dettero appuntamento a piazza dello Statuto di sera e le forze di interdizione non riuscivano a disperderli perché tornavano a riunirsi subito dopo. La cronaca riferì anche che un gruppo di “giovinastri” cominciò a scagliare sassi contro un plotone di fanteria ferendo alcuni militari; i militari risposero sparando ma i dimostranti si accorsero che sparavano a salve e allora invece di disperdersi si avviarono verso piazza Castello e il centro della città. Fu chiamata la cavalleria che “accorse a gran trotto per la lunga, dritta via Garibaldi rischiarata dalla luce elettrica. Lo spettacolo era pittoresco”. Alle 11 era tornata la calma: molti gli arresti, alcuni feriti e alcuni contusi. “Il servizio di pubblica sicurezza fu abbastanza buono; le guardie civiche sparse per ogni parte della città avvertivano, per mezzo del telefono, le autorità di quanto avveniva. Alcune piccole botteghe furono devastate”. Genova: l’ordine non venne turbato: la pioggia dirotta valse a sopire alcuni bollenti spiriti. Agli operai di Sampierdarena venne distribuito il numero unico di un giornale, Primo Maggio, edito a cura della Lega del lavoro tra gli operai metallurgico-navali fondata pochi giorni prima. Esso contiene articoli socialisti abbastanza moderati, ché altrimenti sarebbe stato sequestrato. La Società Universale operaia di Sampierdarena aveva deciso d’astenersi da qualsiasi manifestazione. A Sestri alcuni operai avevano tentato di affiggere dei manifesti sovversivi ma non vi riuscirono. Spezia: la città è tranquilla. Tutti gli operai accorsero puntuali al lavoro. Napoli: l’agitazione cominciata la sera prima si è “smisuratamente allargata”, le misure di prevenzione hanno esasperato le classi più tranquille degli operai, i disordini si credono ormai inevitabili. “Dappertutto si distribuiscono manifesti che le guardie si affrettano a lacerare”. Il centro indicato per riunirsi è piazza del Mercato, “si raccomanda di indossare abiti da lavoro e una striscia rossa al cappello con le parole 1° Maggio”. Gli studenti e i circoli repubblicani dichiarano di partecipare alla dimostrazione. Le forze di polizia sono state rafforzate, è attesa una compagnia di cavalleria da Caserta. Si vocifera che presso l’università sono pronti quattro cannoni e presso qualche ospedale sono stati ordinati servizi straordinari. Tutte le botteghe chiuse. Gli operai dell’arsenale, nonostante la minaccia di licenziamento, assicurano di partecipare allo sciopero, così anche i cocchieri e gli strilloni dei giornali. Non uscirà alcun giornale. In vari punti della città si terranno conferenze operaie. Poi durante giovedì primo maggio squadre di questurini furono sparpagliate per tutta la città per arrestare studenti e operai noti come agitatori: “gli arresti sono fatti senza veruna precisione di ordini mandati”; nei depositi della questura, assicurasi, siano detenute circa cento persone. È impossibile avere qualche notizia, si dice che una sessantina di arrestati, incatenati, scortati da questurini e carabinieri vengono condotti al carcere di San Francesco: è una situazione che ”prova il grande smarrimento in cui trovansi le stesse autorità”. Grande affollamento e schiamazzo presso i forni temendosi la mancanza di pane per più giorni. Palermo: verso mezzogiorno a piazza Vigliena uno sconosciuto, attorniato da pochissime persone, agitando un fazzoletto rosso, si mise a gridare: “Operai siciliani: pane e lavoro! Movetevi!” i funzionari di polizia gli strapparono il fazzoletto arrestandolo. La folla che stazionava sulla piazza fecero ressa e lo aiutarono a fuggire. Sarebbe tornata la calma se “il grande apparato di forza e gli innumerevoli funzionari non avessero eccitato la curiosità del pubblico che cominciò a gremire la piazza. I bottegai chiusero, non vi fu alcun grido sedizioso, nessuna ribellione. Poco dopo due compagnie di bersaglieri occuparono la piazza, la folla dei curiosi si ritirava per ritornare subito dopo a vedere perché tale dispiegamento di forze; furono arrestati alcuni che non fecero in tempo a ritirarsi. Dopo un paio d’ore anche la forza se ne andò, tutto tornò tranquillo e le botteghe riaprirono. Gli operai lavoravano e non pensavano ad alcuna dimostrazione. Fece meraviglia tanto dispiegamento di forza in un paese calmissimo come il nostro. Como: ore 9, tutto è tranquillo, gli elementi sovversivi sono stati allontanati. Le botteghe, dapprima chiuse, hanno poi preso coraggio. La maggioranza degli operai, specialmente degli opifici, si è astenuta dal lavoro. Allo scalo merci della stazione Mediterranea si sono presentati solo tre facchini. La Lariana ne imprestò altri quattro. Gli operai passeggiano tranquilli, circolano numerose pattuglie di guardie e carabinieri; postazioni fisse solo alle carceri dove sono detenuti gli anarchici arrestati. Gli arresti di ieri o stanotte sono comuni vagabondi. I furgoni delle poste vengono tutti scortati. Il tempo è piovoso. Qualche negozio di vino è stato tenuto chiuso per precauzione. Verso le due del pomeriggio circa 300 operai sono usciti dalle singole Società ove s’erano radunati e volevano entrare in città da Porta Torre per fare un corteo. Un battaglione di fanteria li disperse, poi furono chiuse tutte le porte della città e impedita l’entrata a chiunque. Si sparse dovunque un gran panico, si chiusero case e negozi, la gente scappò in casa. Gli operai fecero il giro della circonvallazione ma furono dispersi. In Prefettura e in Municipio si siede in permanenza. Pavia: le autorità hanno preso disposizione severissime. Squadroni di cavalleria pronti. Quattrocento operai dell’arsenale stamane si sono recati al lavoro. Ordine perfetto. Piove. Nel pomeriggio 400 operai si recarono in prefettura con grida sovversive. Il comandante della forza pubblica invitò alla calma e l’assembramento fu sciolto. I lavoratori si riunirono di nuovo in corso Garibaldi, intervenne la truppa e la calma fu ristabilita. Mantova: Calma assoluta. In città solo i muratori e pochi altri operai, in causa della pioggia, lasciarono il lavoro. La truppa fu sempre consegnata. Venezia: calma perfetta, in tutte le fabbriche, compreso l’arsenale, gli operai hanno lavorato. Pioggia dirotta in tutto il giorno. Forlì: nessuna agitazione. I negozi vennero chiusi soltanto nel pomeriggio. Piove. I manifesti pubblicati dai socialisti raccomandano calma.

 

Le astensioni dal lavoro in Francia

Sempre in prima pagina del Corriere (del 2 maggio 1880) una colonna è dedicata alle Dimostrazioni di Parigi. Fin dalla sera precedente il primo maggio furono arrestati socialisti ed anarchici. Durante una perquisizione in casa di un giornalista dell’Assaut vennero sequestrati duemila randelli con punta di ferro; quattrocento di questi bastoni erano già stati distribuiti, si dice siano stati pagati dal marchese di Morès, già arrestato. Il corrispondente da Parigi fa il nome di altri arrestati e riferisce che molti manifesti sequestrati sono in lingua italiana. Il primo maggio sfoggia un sole splendido ma poca gente in giro, deserti banche e grandi magazzini, vuoti gli omnibus, inoperosi i fiacres: si stima “una perdita altissima” per il commercio. Per non ostacolare le eventuali cariche della polizia a cavallo le strade non erano state innaffiate per cui il vento sollevava una gran polvere. Era attesa una deputazione di dimostranti che doveva essere ricevuta dal presidente della Camera, ad attenderla squadroni di cavalleria. Nel primo pomeriggio la deputazione si presentò; il corrispondente del Corriere elenca i loro nomi e aggiunge che c’erano i rappresentanti sindacali dei sarti, dei bettolieri, dei cocchieri, dei calzolai e un rappresentante del partito socialista; ad essi si unirono dei giornalisti; il gruppo fu fermato più volte dalle forze di polizia e, arrivato davanti alla Camera, ai giornalisti fu impedito di assistere all’incontro; fermati “chiudendoci i cancelli sul naso”. Il presidente della Camera ricevette la delegazione, l’ascoltò e rispose di “essere penetrato dell’importanza della questione” (la richiesta base era la giornata lavorativa di otto ore) e che “la maggioranza repubblicana avrebbe discusso le rivendicazioni formulate”. Il corrispondente da Parigi aggiunge che “intanto fuori gli agenti di polizia e la cavalleria continuavano gli esercizi strategici, quasi inutili, mancando affatto i manifestanti”. Alle tre le strade si rianimarono: “Passata la paura, i pacifici borghesi uscirono a passeggiare accompagnati da graziose donnine e da belle ragazze in fresche acconciature primaverili. I tavolini dei caffè e delle birrerie si guarnirono rapidamente di una folla allegra. Si versarono fiumi di birra nei petti, già oppressi dal timore. La sera calava placida coprendo il fiasco della manifestazione”. Più tardi il giornalista comunicava telegraficamente alte notizie delle quali non era stato spettatore personale: un paio di manifestazioni bloccate dalla polizia, una carica con la sciabola da parte della guardia repubblicana con alcuni feriti (uno forse grave), qualche arresto. “Amilcare Cipriani perorava davanti alla Madeleine dicendo: oggi la manifestazione è mancata; ma un’altra volta riusciremo. Fu arrestato e più tardi rilasciato ma verrà espulso”. Gli operai di Cail, Ivry, Pantin, Saint Denis hanno lavorato. In serata ancora forte schieramento di polizia alla Madeleine. “Moltissimi parigini esprimono ad alta voce indignazione contro gli anarchici italiani che vengono a turbare l’ordine in casa altrui”. Le ultime righe della pagina riferiscono alcuni telegrammi dell’agenzia Stefani: “Astensione abbastanza generale dal lavoro oggi ma disordini in nessuna città. A Lione piove”. Due parole sul “pittoresco e pasticcione” (definizione di Montanelli) Cipriani: romagnolo di temperamento, compagno di Garibaldi in tutte le occasioni, spesso presente nelle vicende francesi e c’era anche in quel Primo Maggio 1890. Eletto tre volte al Parlamento italiano che due volte lo rifiutò perché anarchico dichiarato e una terza volta perché rifiutò il giuramento di rito, spesso protagonista nelle difficoltà del sindacato e nell’unità del partito socialista.

 

Perché tanta paura

Perché tanta paura, tanta attenzione e tanta mobilitazione di forze dell’ordine e dell’esercito se la classe lavoratrice decideva di prendersi un giorno su 365? Perché la giornata del primo Maggio era da subito diventata sinonimo di “festa ribelle”: “Per la prima volta nella storia il proletariato si appropriava di una giornata, si proponeva come protagonista sulla scena della rappresentazione sociale e imponeva un copione che prevedeva l’occupazione, con cortei e comizi, di spazi solitamente destinati ad altri personaggi”, ha annotato Maurizio Antonioli. E questa “festa ribelle” sembrava concretizzare fasi e momenti di una società futura di cui non si potevano intravvedere gli sviluppi ma della cui realizzazione nessun convinto socialista pareva dubitare. Scendere in piazza per fare festa, senza coltellacci e senza doppiette, ma comunque per esserci, contarsi, per convincersi e proclamare: ci siamo anche noi, siamo qui, siamo tanti e quando lo decideremo… “Proprio per questo, festa, manifestazione o sciopero che fosse, il primo Maggio alimentava speranze di rivoluzione” e metteva paura; paura che qualcuno volesse sedersi al tuo stesso tavolo o forse volesse toglierti la seggiola. Magari erano pochi quel maggio 1890, ma le loro convinzioni potevano radicarsi e ciò allarmava le classi dirigenti e gli apparati dei loro governi. Infatti, dopo la rivendicazione delle otto ore, si passò a rivendicare il diritto di voto e poi tutti i diritti che spettano ad ogni e a tutti i cittadini. Col tempo la giornata di lotta e protesta si allargò a giornata di festa: trovarsi e parlarsi, convincersi che si è in tanti e dopo il programma politico esposto dagli oratori, il divertimento; il bracciante, il contadino, l’operaio e le donne che lavoravano come loro, occupavano una fetta di tempo di non lavoro e di spazi di non fatica, come prima di loro avevano fatto i borghesi che in quel giorno si sentivano messi da parte. Tutto questo metteva paura: cose mai viste! ma cosa vogliono? Ma che pretese! e ora che faranno? Dove andremo a finire? Questa è una rivoluzione, è la fine del mondo! La stampa del Primo Maggio Non è possibile avere cifre precise su quanti contadini, operai ed artigiani fossero in grado di leggere e capire un testo scritto in quel lontano 1890; però qualcuno che lo sapesse fare e lo facesse ad alta voce per quanti lo volessero ascoltare lo si trovava sempre. Per cui da sempre la festa/protesta del Primo Maggio fu accompagnata da manifesti scritti e illustrati, da libelli, documenti e giornali. La Regione Lombardia ha curato per conto della Fondazione Brodolini di Milano una ricerca sui numeri unici pubblicati in Italia in occasione del Primo Maggio tra il 1890 e il 1924. È interessante sfogliare qualche pagina. Del 1890 sono state ritrovate tre pubblicazioni: Primo Maggio, numero unico edito a cura della lega di lavoro fra gli operai metallurgico- navali (Genova). Contiene nove articoli tra i quali La Festa mondiale: a nessuno sfuggirà certamente il significato della manifestazione mondiale odierna che i lavoratori progettarono nell’ultimo congresso tenutosi lo scorso anno in Parigi… Viene raccontata anche una breve storia del Movimento operaio in Italia. La festa del lavoro (Mantova): vi troviamo otto articoli. Citiamo: Compagni al lavoro! I lavoratori di tutti i paesi civili reclamano una legislazione protettrice del lavoro, la riduzione della giornata a 8 ore, la garanzia di un minimum di salario…I danni del lavoro eccessivo: il lavoro è un dovere, ma il troppo lavoro è un delitto perché uccide… Corriere del Primo maggio (Napoli) con 11 articoli. Si racconta degli opifici dove i lavoratori hanno sospeso la produzione, dell’intervento della polizia, degli arresti, delle proteste contro questi arresti, si ironizza sull’energia e l’attività del questore, l’egregio comm. Alfazio… Già l’anno dopo la pubblicazione dei numeri unici in occasione della festa del lavoro si moltiplicarono: 4 a Milano, due a Napoli e a Mantova; una pubblicazione di questa città ha come titolo 888 ribadendo la battaglia per l’orario di lavoro delle otto ore; altre otto per il risposo ed altre otto per la famiglia e lo svago. Le pubblicazioni sulle battaglie del lavoro uscirono anche in altre sette città. Erano di tendenza socialista ma anche cattolica o liberale o repubblicana. Una delle pubblicazioni milanesi è intitolata Evoluzione (per dire no alla rivoluzione). Un’altra fu L’idea liberale; tra i vari articoli uno è intitolato Papa Leone e il socialismo (firmato Fra Pacomio); vi si legge: “Punto caratteristico, forse il solo caratteristico, dell’attuale pontificato è l’interessamento che mostra di prendere Leone XIII alla questione sociale…” E così di anno in anno: di numeri unici, specifici per la festa del lavoro se ne pubblicarono da ogni parte, in 128 diverse città. Fino al 1924, quando l’ex compagno Mussolini silenziò il movimento dei lavoratori. In quell’anno infatti uscì un solo numero unico, a Milano, Calendimaggio edito dall’Unione sindacale italiana (Usi) che ricordava come e perché era sorta l’idea di una festa/ lotta del lavoro, raccontava dei martiri di Chicago “fiori della primavera proletaria”, riproduceva il manifesto ufficiale dell’Usi: “Compagni, lavoratori, un anno ancora sotto il cumulo delle macerie della disfatta proletaria, segna il passo da noi questo Primo Maggio. Lungo ed aspro è il cammino verso la meta comune…”. “Senza bandiere: anche quest’anno Calendimaggio sarà muto. Niente bandiere e niente cortei, fiere campionarie dei vessilli delle associazioni”. “Fermi al nostro posto. Mai come oggi che ogni possibilità d’azione ci è impedita, abbiamo sentito tutta la forza ideale che sprigiona dal nostro movimento”. E poi La storia di Sacco e Vanzetti, I problemi dei sindacalisti Usi emigrati in Francia ecc. Poi davvero il silenzio. Fino al Primo Maggio del 1944. Vigilanza e proibizione Il 19 aprile 1923 il governo Mussolini emanò un decreto (n. 833) per unificare la festa del lavoro con quella della fondazione di Roma, 21 aprile “data immortale da cui ha inizio il lungo, faticoso, glorioso cammino dell’Italia” e il Parlamento lo approvò. Per cui il 29 aprile dell’anno successivo la regia questura di Roma pubblicò una lunga ordinanza di servizio per il 1° maggio che cominciava con queste parole: “La ricorrenza del primo maggio trova disorientati i partiti sovversivi e disperse le forze antinazionali. I conati di riorganizzazione delle masse verso l’idea socialista nelle sue svariate gradazioni, si sono infrante di fronte alle rinsaldate idealità nazionali, alla coscienza del dovere nei lavoratori di ogni classe e di ogni ceto ed alla sempre maggior adesione a quella organizzazione sindacale che – proclamata la sterilità della lotta di classe – mira al risanamento delle sane energie del paese, sul rispetto della legge e delle norme di civile consociazione”. Più avanti l’ordinanza affermava che il comunismo “aveva fallito il tentativo di costituire un fronte unico proletario per celebrare con la maggior astensione dal lavoro la ricorrenza del 1° Maggio”; i partiti protestano e invitano a riunioni private e ad una raccolta di fondi a sostegno della stampa proletaria sovversiva e delle “cosiddette vittime del movimento sindacale”. Da parte loro gli industriali non tollereranno astensioni dal lavoro. Forse – prosegue l’ordinanza – ci potranno essere astensioni degli edili (come ha incitato l’Unità); parziali astensioni anche tra i metallurgici e i falegnami ma la vita cittadina non sarà turbata per la certa presenza al lavoro di tutti i dipendenti dei servizi pubblici. La questura è al corrente che si stanno stampando manifestini inneggianti al 1° Maggio e che si tenterà di distribuirli e di affiggerli, “ciò deve essere assolutamente impedito”. “Negli elementi più accesi e più fanatici potrebbero sorgere propositi torbidi che, se tradotti in azioni concrete, assumerebbero significato evidentemente sedizioso”. Per cui… seguono 13 paragrafi per ribadire tutte le possibilità su cui vigilare; è assolutamente “proibita ogni riunione, anche privata diretta a commemorare il 1° Maggio”; gli eventuali convenuti dovranno essere “fermati e trattenuti” in attesa di istruzioni. “Proibita ogni distribuzione e affissione di manifesti o foglietti volanti inneggianti al 1° Maggio”. Inoltre “i fermati non dovranno essere rilasciati senza esplicita autorizzazione di questo ufficio” (cioè la regia questura di Roma). La lunga ordinanza si concludeva: “Di ogni notizia, sia pure di lieve importanza, desidero avere immediata comunicazione”. Seguivano quattro note di servizio: vigilanza nei vari distretti dalla sera del 30 aprile al mattino del 2 maggio e vigilanza sui depositi tranviari e ferroviari, disposizioni particolareggiate per la mobilitazione della milizia e di tutte le forze dell’ordine (comprese le riserve). Il tutto firmato da Bertini, prefetto reggente la questura di Roma. Nonostante tanta occhiuta vigilanza qualcuno qua e là riusciva a disobbedire; ecco un rapido resoconto della direzione generale di pubblica sicurezza relativo al 1927: Ivrea: 40 operai (su 3 mila) astenuti dal lavoro; Bologna: sequestro di manifestini e 27 arresti; idem a Como e Milano dove sono anche stati tagliati fili telegrafici e telefonici; lancio di manifesti a Pavia; affissione del giornale comunista slavo Stelo a Capodistria e sequestro di bandiere rosse a Pisino; tentativo di bloccare la linea ferroviaria Roma-Gaeta; a Rivarolo Canavese sequestrato un drappo rosso con la scritta “morte all’Italia”; sequestro di bandiere rosse e manifestini a Trieste, Muggia e Monfalcone e due arresti; idem a Varese dove fu lanciata una bomba contro la casa del segretario politico (senza danni rilevanti) e arresto dei due responsabili; sequestro di manifestini e giornali sovversivi a Venezia e Vercelli.

 

Il caso Roma

Ma torniamo al primo Maggio dell’800. Lo spunto su Leone XIII ci spinge ad osservare alcuni aspetti del movimento operaio nella capitale: Roma, che dopo i fasti rinascimentali, trascinatisi fino alla fine del ‘700, si era ridotta a piccola città di provincia, era stata di colpo promossa nel 1870 a capitale di un regno. Ora vi risiedeva un sovrano laico, l’unificatore d’Italia e si facevano pellegrinaggi per rendergli omaggio e per omaggiare anche la capitale. Che però aveva poco di regale, era piuttosto un paesone mal costruito e mal governato che aveva urgente bisogno di essere ammodernato e governato. Per farlo occorrevano soldi, e molti, ma Roma da sola non ne aveva le forze per cui nel 1881 si arrivò ad un accordo tra il sindaco Leopoldo Torlonia e il governo Depretis. Stanziati i soldi, i lavori pubblici iniziarono col monumento a Vittorio Emanuele II progettato su piazza Venezia, proseguirono con una serie di strade larghe e dritte come necessitava la città, si alzarono i muraglioni per regimentare il Tevere, si risanarono quartieri fatiscenti e insalubri. Si chiusero gli innumerevoli scoli che dalle case e dalle botteghe fluivano direttamente nel fiume, fu disegnata una rete di collettori per tutti i reflui e furono interrati i pozzi, troppo facile causa di casi di colera. Furono abbattuti i numerosi mulini che operavano lungo le sponde del fiume, cancellati gli approdi, chiuso definitivamente il servizio di traghetto all’altezza di Ripetta e progettati nuovi ponti. Stanziati i soldi, un manipolo di imprenditori aprì i cantieri e una folla di ex artigiani e di contadini extraurbani si fecero operaia. Roma divenne la città più operosa del mondo ed ebbe il suo proletariato che non sapeva dove poter trovare alloggio. Poi nel 1885 tutto questo sviluppo urbano fu bloccato da una crisi edilizia che durò un decennio: in conseguenza dei contrasti doganali con la Francia, per gli eccessivi gravami imposti dallo Stato su organismi produttivi deboli e spesso improvvisati, per la speculazione sul costo dei terreni cui la domanda di abitazioni non riusciva a far fronte, per il rincaro dei materiali da costruzione che entrando nella cerchia muraria della città erano sottoposti a dazio. E le banche che si erano generosamente esposte furono trascinate in basso. Questi, sommariamente, come si legge nelle cronache del tempo, i motivi che bloccarono per un certo tempo lo sviluppo edilizio della città e contribuirono ad aggravare la situazione della classe operaia. L’8 febbraio 1889 una folla di senza lavoro, si riunì in piazza Cavour: armati di vanghe e picconi i disoccupati organizzarono una dimostrazione diretti verso i centri del potere, provocando danni e incutendo paura. Nel 1890 fu celebrato il primo Primo Maggio con vari disordini, l’anno dopo fece notizia una dimostrazione di disoccupati a piazza Dante e l’anno dopo la Festa del lavoro, tenuta in piazza di Santa Croce, fu turbata dalla violenza degli anarchici, ci furono contusi e feriti e molti arresti; vari attentati dinamitardi funestarono la capitale nel 1894. Nell’ultimo decennio del secolo finalmente la situazione dei lavoratori andò lentamente migliorando, quando gli imprenditori capirono che per lavorare era necessario uscire dalla città: fuori dalle mura i terreni costavano molto meno, le cave di tufo e di altri materiali erano più vicine e su questi materiali non gravavano gabelle daziarie. Roma cominciò ad espandersi a raggiera lungo le antiche strade consolari. Anche i lavoratori si spostano: sono costretti a dormire nei cantieri, sono sottopagati e sfruttati, subiscono incidenti e malattie. Si sviluppa anche un certo volontariato nei loro confronti: dormitori collettivi, una cucina economica a Testaccio e le passeggiate di beneficenza delle volontarie che nei giorni di festa andavano nei parchi o lungo lo struscio borghese di via del Corso a chiedere un obolo per chi restava senza lavoro. Nel 1898 il Comune di Roma contò più di mezzo milione di cittadini e finalmente arrivò anche la luce elettrica prodotta da una centrale termica in via dei Cerchi; le città del nord avevano la luce in città già da qualche anno, a Roma si andava ancora a gas. Fece quindi spettacolo l’illuminazione del grande magazzino costruito dagli imprenditori milanesi Bocconi sullo slargo a fianco di palazzo Chigi. Ormai la capitale non è più la città del papa ma di re Umberto e di sua moglie Margherita che si muovono continuamente in città e nel contado, presenziano alle celebrazioni, frequentano teatri e feste, partecipano alle riunioni salottiere, non perdono le corse dei cavalli a Tor di Quinto o alle Capannelle.

 

A sorpresa l’intervento della chiesa

Il 9 gennaio 1878 era morto Vittorio Emanuele II, dopo un mese l’aveva seguito Pio IX. Fu fatto rapidamente il conclave e riuscì eletto Gioachino Pecci, nato a Carpineto Romano 68 anni prima da famiglia patrizia. Era stato nunzio a Bruxelles e vescovo di Perugia. Aveva una gran voglia di conciliare la chiesa con la società civile e in particolare con lo Stato italiano per cui avviò rapporti amichevoli in tutte le direzioni. Chiese di essere incoronato in San Pietro e di benedire la folla dal balcone esterno della basilica ma il ministero Crispi rispose di non poter garantire la sicurezza, per cui dovette accettare che il cerimoniale si svolgesse nella cappella Sistina. Fece capire come la pensava e come intendeva governare la chiesa attraverso molte encicliche: nella De civitatum ostituzione cristiana sostenne chiaramente che uno Stato è fatto per i cittadini e non viceversa, che le forme di governo sono tutte accettabili ma chi governa deve esercitare il potere come un padre di famiglia; scrisse anche che il potere non sale dal popolo ma viene da Dio. Volle anche aprire la chiesa cattolica ad un confronto con gli ortodossi e gli anglicani che però non gli risposero. Il 15 maggio 1891 (poco dopo la celebrazione del primo Primo Maggio) pubblicò la famosa enciclica De conditione opificum, meglio nota come Rerum novarum, che moltissimi hanno citato ma pochi hanno letto. Dieci anni più tardi pubblicò anche un’enciclica contro la schiavitù e la tratta dei negri. Meritato dunque per lui l’appellativo di “papa politico”, nel senso di persona che si occupa dei problemi della polis. Offuscati dall’asfittica ideologia di quegli anni, i laici e i massimalisti di allora non lo capirono, tanto che quando in Campo de’ Fiori fu eretta la statua di Giordano Bruno, si gridò, tra le tante villanie, “Abbasso Leone XIII! Abbasso lo Spirito Santo!” e il papa fu impiccato in effigie. Una volta stampata, l’enciclica andò a ruba (250 mila copie in cinque mesi). Tra la soluzione marxista che riduce gli uomini in schiavitù e la soluzione liberale che sostiene una sfrenata concorrenza, il papa offre alla questione sociale una soluzione cristiana. Compiange i lavoratori sfruttati dalla cupidigia dei padroni ma condanna anche la lotta di classe, scomposta, cieca, incurante della produzione e delle sorti della nazione. Il socialismo che chiede l’abolizione della proprietà privata va contro gli stessi lavoratori che hanno il diritto di disporre del frutto della propria fatica, spogliandolo della libertà che gli spetta per diritto di natura. La dottrina che sostiene la teoria del lavoro come merce è falsa perché “il lavoro è tutto l’uomo”; il salario anziché dipendere dalla legge della domanda e dell’offerta, deve assicurare al lavoratore il necessario per vivere e sostenere la sua famiglia. Ogni contratto di lavoro implica un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà stessa dei contraenti. Chi dovrebbe provvedere a che tutto sia svolto secondo giustizia? “Meglio dello Stato – risponde Leone – agiscono le associazioni operaie, ricostituite sul modello delle antiche corporazioni con un programma adatto a raggiungere il maggior vantaggio morale ed economico dei soci”. Le preoccupazioni del papa dell’ottocento per la comunità civile sono state riprese, approfondite e attualizzate un secolo più tardi dai duemila vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II presieduto dal grande Paolo VI. E ora che noi ci siamo liberati dalle angustie ideologiche che per tutto il ‘900 avevano irrigidito il pensiero e l’azione sociale in Europa (e non solo), possiamo leggerle, discuterle e comprenderle con maggior lucidità. Citiamo qui solo qualche brevissimo passaggio delle 126 pagine che compongono il documento intitolato Gaudium et spes, su “La chiesa nel mondo contemporaneo”. “Lo sviluppo economico deve essere a servizio dell’uomo, deve procedere sotto il suo controllo e le disparità economicosociali devono essere colmate. Il lavoro umano, svolto per produrre e scambiare beni e per mettere a disposizione servizi economici, è di valore superiore agli altri elementi della vita economica, poiché questi hanno solo natura di mezzi. Il lavoro procede immediatamente dalla persona (…) Poiché l’attività economica è per lo più realizzata in gruppi produttivi in cui si uniscono molti uomini, è ingiusto ed inumano organizzarla con strutture ed ordinamenti che siano a danno di chiunque vi operi. Troppo spesso avviene invece che i lavoratori siano asserviti alla propria attività. Ciò non trova assolutamente giustificazione nelle leggi economiche. Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita”. Più avanti si legge che “va promossa l’attiva partecipazione di tutti alla vita dell’impresa” e se l’azienda fa parte di una più grande struttura le cui decisioni si prendono lontano da dove si lavora, “bisogna che i lavoratori siano parte attiva anche in tali scelte, direttamente o per mezzo di rappresentanti liberamente eletti”. In caso di conflitti economico-sociali, “si deve fare ogni sforzo per raggiungere la loro soluzione pacifica. Benché sempre anzitutto si debba ricorrere ad un dialogo sincero tra le parti, lo sciopero può tuttavia rimanere anche nelle circostanze odierne un mezzo necessario, benché estremo, per la difesa dei propri diritti e la soddisfazione delle giuste aspirazioni dei lavoratori”.

 

La sicurezza sul lavoro: un problema già nell’800

Primo maggio e legislazione del lavoro. Ecco un articolo del 1879 dove si legge che re Umberto, allora sovrano d’Italia, se ne sta occupando. Racconta Il Corriere della Sera del 19-20 marzo di quell’anno che cinque giorni prima il marchese Pepoli aveva introdotto una deputazione di 300 operai nelle sale della reggia ad un incontro col re. Il marchese – riferisce il giornale, che però non specifica né il motivo né l’esito dell’udienza – disse ad Umberto: “Maestà, pensate alle classi operaie!”. Pronta la risposta del re: “Questo è lo scopo del mio regno!”. Il giornalista, che non ha firmato il servizio, commenta: “Buon segno e buon principio quando l’esempio vien dall’alto”. “Il secolo XIX – inizia l’articolo – è stato definito il secolo degli operai. Ora non risulta che i loro diritti siano disconosciuti e conculcati (!) ma certo hanno bisogno di maggior tutela”. Re Umberto se ne è persuaso e se l’è proposto. Anche il Parlamento se ne dovrebbe occupare; nel 1977 il ministro Maiorana aveva presentato un testo di legge per il riconoscimento giuridico delle Società operaie, ma il congresso delle Società di mutuo soccorso riunito a Bologna l’anno dopo ha giudicato quel progetto di legge troppo difettoso per cui il suo iter si è bloccato. Il riconoscimento giuridico delle Società operaie è necessario e urgente, altrimenti esse si trovano fuori legge. Abbiamo invece visto con soddisfazione – prosegue l’articolo – che la Camera ha preso in considerazione la proposta dell’on. Pericoli sulla tutela degli operai contro i danni che soffrono negli opifici, nelle miniere e nelle costruzioni delle fabbriche. “Non passa quasi giorno che la cronaca non abbia a registrare qualche infortunio cagionato dall’incuria con la quale i costruttori di edifizi pubblici o privati fabbricano le armature e i ponti sulle quali lavorano i muratori e i manovali. Di codesti infortuni una parte è prodotta da mancanza di precauzioni nei lavoratori stessi, ma un’altra parte, forse la più numerosa, dipende e dall’incuria e dall’avarizia degli imprenditori”. La stampa deplora e condanna ma tutto finisce lì; i lettori si rammaricano ma col ripetersi degli eventi quasi se ne fanno una ragione. Una recente statistica condotta a Roma ci testimonia che dal 1872 al 1878 nel solo nell’ospedale della Consolazione sono stati portati, morti o malconci, 1.600 operai. Vi si aggiungano quelli condotti in altri ospedali o direttamente a casa, di cui non disponiamo le cifre e “si giudichi se un tale stato di cose non richieda imperiosamente un pronto rimedio”. All’ospedale Maggiore di Milano nel solo 1878 furono portati 58 muratori, di cui sette morirono in seguito alle ferite riportate cadendo. E così avviene negli opifici di ogni genere di cui Milano va arricchendosi ogni giorno di più. Si dice che per questo tipo di lavo bero assai difficili a prendersi, dipendendo le disgrazie di cui sono vittime dalla natura stessa del lavoro che fanno, ma ancora che essi stessi il più delle volte sono autori della propria disgrazia, trascurando quelle precauzioni che potrebbero prendere ed esponendosi incautamente e senza bisogno al pericolo”. Il giornalista aggiunge che però una parte di responsabilità potrebbe certo farsi risalire ai padroni, per cui una legge sanzionatoria sarebbe necessaria.

 

Il contesto sociale del 1890

Quando fu celebrata per la prima volta la giornata di festa e di lotta del Primo Maggio l’Italia contava circa 30 milioni di abitanti. Napoli superava il mezzo milione, Milano vi si avvicinava, Roma era a quota 424 mila, Torino 330 mila e Palermo poco più di 300 mila. I cittadini, cioè quanti avevano diritto di voto, erano solo il 10 per cento ma i votanti effettivi non arrivavano al 5 per cento. Il 65 per cento degli italiani lavorava sulla terra. Il 55 per cento dei maschi e il 69 delle femmine dai sei anni in poi erano analfabeti. La mortalità infantile nel primo anno di vita arrivava a 220 ogni mille nascite e l’aspettativa di vita (compresa la mortalità infantile) era di 35 anni. Le più comuni cause di morte erano la tubercolosi, il tifo e paratifo e la malaria. Dopo l’unità d’Italia (1870) la destra governò per sei anni; nel 1876 il ministero Minghetti fu messo in minoranza e il nuovo ministero passò alla sinistra, il cui capo indiscusso era Agostino Depretis, ex prodittatore di Garibaldi in Sicilia. Tale passaggio fu definito “rivoluzione parlamentare”: la destra era ormai logora, era costituita da quasi soli parlamentari settentrionali legati al piemontesismo, una specie di élite chiamata a dirigere la massa. La sinistra si presentava progressista e democratica, raccoglieva tutte le insoddisfazioni e i malcontenti e alle elezioni subito indette ebbe 400 deputati mentre la destra si fermò a 100 dei quali solo quattro erano meridionali. Ma gli uomini della sinistra, più entusiasti che esperti, si scontrarono presto con le difficoltà ad attuare il grandioso programma che avevano promesso: abbassamento delle tasse, istruzione elementare gratuita per tutti, estensione del diritto elettorale, limitazione alle ingerenze governative, affermazione del laicismo, garanzie per ogni libertà ecc. La tassa sul macinato, ad esempio, votata nel 1880 andò in vigore tre anni dopo e provocò subito un deficit pubblico (il governo Depretis aveva finalmente raggiunto la parità di bilancio pochi giorni prima di essere sfiduciato). Delusoria anche la legge elettorale che alzava la platea degli elettori da cinquecento mila e poco più di due milioni, troppo poco per i circa 30 milioni di italiani. Davanti ai problemi dei quali ritardava la soluzione o ai quali veniva data una soluzione insoddisfacente anche il governo della sinistra cominciò a traballare; Depretis lo difese inaugurando la tecnica di trovare nuove alleanze a secondo di come si presentava la situazione parlamentare sui singoli problemi: tecnica che fu chiamata col termine negativo di “trasformismo”. Gli storici riconoscono un aspetto positivo a questa condotta che riusciva ad ottenere la collaborazione di parecchi elementi della destra; tuttavia essa infiacchì la sinistra e stemperò il significato stesso di destra e sinistra. Altri invece hanno scritto che non poteva essere altrimenti, destra e sinistra avevano avuto un senso sulla base dei problemi politici di allora: risorgimento, unità, questione di Roma e di Venezia ecc., risolti i quali erano subentrati gravi problemi economico-sociali che attinevano a tutti e da tutti dovevano essere affrontati. Insomma quella sinistra non è quella del secolo successivo: il Paese reale di allora se ne sentì estraneo, non rappresentato, cominciò a disamorarsi verso uno Stato estraneo ai suoi problemi che venivano meglio capiti e affrontati da altre realtà sociali, come quella del socialismo o quella dei cattolici.

 

Lavorare meno, lavorare tutti

“Il Primo Maggio è come parola magica che corre di bocca in bocca, che rallegra gli animi di tutti i lavoratori del mondo, è parola d’ordine che si scambia fra quanti si interessano al proprio miglioramento”. Così l’articolo di fondo de La Rivendicazione di Forlì per la festa del lavoro del 1890. È la giornata per affermare il principio uguale per tutti di regolare la durata della giornata di lavoro. “Tutti gli operai, schiavi della proprietà individuale e del privilegio cessino di lasciarsi dominare dai padroni, dagli sfruttatori e inizino una buona volta l’era nuova del lavoro. Si mettano d’accordo tutti gli operai del mondo per render solenne questa festa, unendo gli sforzi dell’uno a quelli dell’altro e ottenere così ciò che è reclamato da una legge di giustizia. Infatti la questione delle otto ore vuol significare diminuzione di produzione, quindi maggior bisogno di braccia e conseguentemente minor numero di disoccupati. Reclamiamo oggi questa riduzione e domani subito ne sentiremo i benefici risultati; non facciamoci perciò imporre e camminiamo innanzi e bandiera spiegata. Nessun ostacolo ci vinca”. Nello stesso giorno gli operai metallurgico-navali di Genova diffondevano il loro numero unico. Annunciavano: “La nostra Lega prende parte alla manifestazione mondiale cui partecipano i fratelli che in tutto il mondo combattono per la loro emancipazione sociale e politica. E perché alle affermazioni dei nostri diritti si congiunga l’azione feconda di risultati pratici, in questo stesso numero unico pubblichiamo lo Statuto della nostra Lega intesa ad un’efficace tutela del lavoro. Opponiamo alla coalizione dei capitalisti l’associazione e l’unione dei lavoratori e la vittoria, nella lotta combattuta da tanti secoli, sarà indubbiamente nostra”. “Il primo maggio non sarebbe morto più – conclude pensieroso il personaggio del racconto omonimo di De Amicis – ogni anno, infallibilmente, avrebbe riunito in un pensiero milioni di anime di più. E avrebbe ben finito per essere la festa vera delle nazioni”.

 

 

Note

Corriere della Sera, venerdì-sabato 2-3 maggio 1890

Maurizio Antonioli e Giovanna Ginex, 1° Maggio, Repertorio dei numeri unici 1890-1924, Editrice Bibliografica 1988

Rerum novarum, Lettera enciclica di Leone XIII, 15 maggio 1891, Libreria editrice Vaticana

Gaudium et spes (La chiesa nel mondo contemporaneo), 7 dicembre 1965, Edizioni Paoline 1966

Fondazione Brodolini e Istituto Stampacchia, Storie e immagini del 1° Maggio, Lacaita editore 1990

Maurizio Antonioli, La festa ribelle, in Lavoro Società, 1988, n. 5

 

 

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