A cosa serve questo bene immateriale che è la letteratura? Come non si vive solo di utile
LUGLIO 2018
Cultura
A cosa serve questo bene immateriale che è la letteratura? Come non si vive solo di utile
di   O. Di Bernardo

 

Corre, l’uomo, senza mai fermarsi, rincorre miti che si è creato da solo, rincorre la ricchezza, il benessere, il successo, senza mai porsi domande, si trascina lungo i binari della vita senza riflettere, percorrendoli meccanicamente, come una macchina, trasportato dal flusso della vita in una folle ripetizione di eventi privi di senso, svuotati da qualsivoglia decisione dettata dalla singola personalità, percorre i binari della vita senza concedersi il lusso di scendere ad alcuna fermata, sempre dritto, velo ce, rapido, verso la realizzazione di sé. Di quello che ritiene di essere. Cataloga, l’uomo, cataloga ogni cosa, sentimento, passione, emozione, pensiero, in base alla collettiva e convenzionale idea di utilità e inutilità, preso dalla folle ansia di diventare qualcuno in futuro, scordandosi che lui è qualcuno oggi ed è stato qualcuno ieri.

È un Uomo. Piccolo, fragile, spaurito, spaesato in un mondo molto più grande di lui, sperduto in un’esistenza che non comprende, al di fuori della portata della sua ragione, si è perso. Ha scordato chi è. Ha scordato il significato della parola Uomo. Ignora di possedere un desiderio infinito di felicità per estensione e durata, insito nella sua natura, contenuto in lui, presente nel suo essere da sempre, un desiderio di una felicità irraggiungibile, inarrivabile, che non risiede nei beni materiali, di cui si circonda per sentirsi felice. Colleziona oggetti, l’uomo, di ogni forma, dimensione, costo e misura, illudendosi di poter raggiungere con essi una parte di quella felicità che ritiene erroneamente essere sua per diritto, ritiene di meritarla, l’ignorante. Ignora l’immenso valore dei beni immateriali, etichetta-ti come “inutili”, come una perdita preziosa di tempo, in quanto essi non danno il pane, non danno sostentamento. Non servono all’esistenza umana. Ma lo scopo della vita umana, a cui tende il vagar breve dell’uomo, è la felicità, la quale non ha obiettivi, non è utile al raggiungimento di qualcosa ma è essenziale nella vita dell’uomo, proprio in virtù della sua “inutilità”. E solo i beni immateriali possono garantire una piccola parte di vita, una piccola parte di quel desiderio perennemente frustrato insito nel nostro essere, e se si ignora questo, si ignora chi sia l’uomo, cosa sia veramente importante per lui. Così la letteratura, il più grande dei beni immateriali, la quale possiede in sé ogni più piccola sfaccettatura dell’uomo, ogni pensiero, ogni azione, contenente in sé il senso stesso, più profondo della vita umana, finisce per essere ridotta a materia scolastica, bella ma inutile, banalizzata in un vano esercizio di belle parole. La letteratura, quell’insieme di testi che l’umanità ha prodotto e tuttora produce non per fini pratici, ma per gratia sui, la “confessione che una vita non basta” ci consente di capire chi siamo, da dove proveniamo, ci apre gli occhi e sveglia le nostre coscienze, ma cos’è realmente? Che cos’è la letteratura? (o come le parole siano “rivoltelle cariche”) “La scrittura è un’ossessione, una malattia, peggio, un’irrinunciabile passione che gioca a nascondino con la morte”.1

Ha bisogno, l’uomo, che qualcuno gli mostri chi è, non riesce a vedersi, non riesce a comprendersi. Ha bisogno, l’uomo, che qualcuno gli mostri chi è stato, chi sarà domani, per non sentirsi spaesato, per non sentirsi impaurito, per sentirsi qualcuno. Ha bisogno, l’uomo, della letteratura, che gli racconta di lui, delle sue sconfitte e delle sue vittorie, dei suoi limiti e della sua forza, della sua finitezza. Così impugna la penna, lo scrittore, come fosse una spada, si serve delle parole come fossero rivoltelle cariche, ritenendo che la letteratura contenga in sé la forza di cambiare il mondo, credendo di poter cambiare l’uomo attraverso le sue parole, che sono azioni. Vuole svelare il mondo, lo scrittore, perché svelare è cambiare, vuole svelare l’uomo all’altro uomo cosicché quest’ultimo assuma, di fronte all’altro così messo a nudo, tutta la sua responsabilità. Per far sì nessuno possa dirsi innocente, per far sì che nessuno possa ignorare il mondo. Così lo scrittore non scrive per se stesso, scrive sempre per l’altro e in funzione dell’altro, sarebbe ben poca cosa, altrimenti, scrivere solo per sé. Si prolungherebbero per un po’ le emozioni provate, i pensieri avuti, ma non si avrebbero opere letterarie, in quanto scrivere implica necessariamente l’azione di leggere, scrivere è fare appello al lettore per far sì che conferisca un’esistenza obiettiva all’opera letteraria, lo scrittore si appella alla libertà del lettore perché collabori alla produzione della sua opera. Ogni libro è recupero della totalità dell’essere, totalità presentata alla libertà del lettore e in ogni libro l’autore si propone di trasmettere sentimenti, e solo quando sgorgano questi l’opera è realmente compiuta. Luogo di un totale esercizio di libertà, questa è la letteratura. La lettura e dunque la letteratura sono l’antidoto contro l’assenza dell’altro, del simile. La lettura riempie il vuoto, protegge dalla meschinità. Letteratura è il mondo ritrovato, terra nuova dove poter vivere. Unico mezzo per«raggiungere l’assoluto».

E anche quando l’uomo arriverà a sentirsi impotente, a pensare che la scrittura non possa cambiare il mondo, non importa, perché, come diceva Sartre: “Per molto tempo ho preso la penna per una spada: ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri; ce n’è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo, egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo a offrigli la sua immagine”.2

Ma, come si chiedeva Umberto Eco, a che serve questo bene immateriale che è la letteratura? “A che cosa serve questo bene immateriale che è la letteratura? Basterebbe rispondere, come ho già fatto, che è un bene che si consuma gratia sui, e dunque non deve servire a nulla… Quello di cui intendo parlare è quindi una serie di funzioni che la letteratura riveste per la nostra vita individuale e la vita sociale. La letteratura tiene in esercizio la lingua. Tiene anzitutto in esercizio la lingua come patrimonio collettivo”.3

L’uomo pensa, elabora, riflette, condizionato dall’epoca storica in cui vive, immerso nel suo contesto, dà una propria personale risposta alla funzione della letteratura. L’uomo, dall’alto della sua ragione, propende per una funzione utile, riducendo la letteratura a scienza, svuotandola da tutta la sua bellezza, privandola della sua emozionalità, della sua soggettività, trasformandola in un mero strumento asettico della conoscenza del reale. L’uomo, dall’alto del suo cuore, propende per una funzione inutile, facendo della letteratura un esercizio di belle parole, osannandone la forma ma privandola di contenuti. È sempre l’uomo a decidere, è l’uomo a fare letteratura, l’uomo che, con i suoi cambiamenti, con le sue nuove condizioni esistenziali, rende la funzione della letteratura utile o inutile, scienza o passione, ricercando perennemente un equilibrio, una misura in tutte le cose, in quanto “Est modus in rebus”. L’uomo cambia, è costantemente in evoluzione, immerso nel flusso del divenire, non è mai lo stesso, non è mai uguale a se stesso, muta in continuazione, e così la letteratura. In età classica l’uomo è un polites, uno zoon politikon, il cui senso di tutta la sua vita è da ritrovarsi nella polis, partecipa alla vita politica, si sente importante, fondamentale per la sua città. Di conseguenza la letteratura non potrà che porsi al servizio della stessa rivestendo così una funzione prettamente utilitaristica, come si può vedere con la tragedia, espressione massima della vita, che sintetizza in sé apollineo e dionisiaco, perfetto equilibrio tra razionale e irrazionale, la quale esprime chiaramente, limpidamente, il caos che domina la vita umana, il caso che decide la vita umana. L’uomo non guarda passivamente la tragedia, la vive come fosse la sua vita, si immedesima nell’eroe tragico, eroe che, mettendosi in discussione, ricercando le ragioni etiche delle proprie azioni e delle proprie colpe, compie un cammino di purificazione che intraprende anche lo spettatore, uscendo dal teatro rinnovato, con un bagaglio di valori e modelli comportamentali da cui non si libererà mai, bagaglio che fa sì che la tragedia assuma una funzione catartica e paideutica. Così la letteratura orale-aurale di età classica risulta essere prettamente correlata alla polis, e, con la caduta di quest’ultima, finisce per perdere il senso più profondo che le si attribuiva assumendo una funzione disimpegnata, inutile. L’uomo, infatti, perde la sua funzione all’interno della società, perde il suo centro, il perno intorno cui ruotava la sua vita, si sente perso, svuotato dal suo ruolo, diviene inutile, si sente inutile, solo un suddito, e la letteratura, che prima era alla portata di tutti, diviene elitaria, esercizio di erudizione di poeti dotti che, il più delle volte, lavorano nella biblioteca d’Alessandria, istituzione culturale più importante dell’età ellenistica. Il maggior esponente di questa nuova forma di letteratura disimpegnata e senza alcun fine pratico e politico è Callimaco, che propende per una poesia basata sui concetti di λεπτ?της e ολιγοστιχια, ossia propende per una letteratura composta da pochi versi di grande cura e ricercatezza formale. La nuova forma di poetica da lui inaugurata viene spiegata dallo stesso nel “Prologo dei Telchini” e nell’ “Inno ad Apollo”.L’uomo latino ha con il mondo greco ha un rapporto di imitatio-emulatio, vuole riprendere i modelli greci, ispirarsi a loro ma riuscire a superarli, riuscire a fare dei propri componimenti, componimenti più belli di quelli ai quali si è ispirato. Così a riprendere la letteratura disimpegnata e catalogabile sotto la definizione di “inutile” di Callimaco e i poeti alessandrini è Catullo, maggiore esponente dei poeti neoterici, che solevano esprimere in poesia ciò che sembrava loro più degno, anche sentimenti personali, e che facevano dell’otium letterario il centro, il perno intorno cui ruotava la loro vita e la loro poetica. Elementi cardine della poetica catulliana sono brevitas e lepos, concetto ripreso da Esiodo che indicava la bellezza, la dolcezza del canto. Nel Carme I Catullo esprime la visione della poesia per i poeti neoterici, le cui caratteristiche fondamentali vengono elencate nel carme attraverso i termini novus, lepidus, expolitus, che rimandano al nuovo modo di fare letteratura, caratterizzato dal labor limae. Catullo e i poeti neoterici vengono definiti da Cicerone come “Cantores Euphorionis”, in quanto egli propendeva per una letteratura utile la quale doveva avere funzione educativa. L’uomo latino è infatti più pratico dell’uomo greco, più improntato all’azione, meno contemplativo, di conseguenza a eccezione della poesia neoterica, elegiaca e dell’epica in età flavia, la letteratura riveste una funzione prettamente utilitaria. L’uomo, con l’accrescimento delle sue conoscenze nel corso dei secoli, comincia a sentirsi padrone del mondo, pensa di poter arrivare a capire la realtà con la sola forza della sua ragione, pensa che la realtà vera coincida con quella che lui vede, che ogni cosa sia riconducibile alla scienza, persino la letteratura, che diviene così strumento scientifico di osservazione della psiche e dei comportamenti umani, contrapponendosi completamente alla funzione educatrice, morale e sociale che le attribuiva Manzoni. Il romanziere che meglio teorizza il desiderio di fare della letteratura uno strumento conoscitivo dell’uomo è Zola, con il “Romanzo sperimentale”, in cui risulta evidente come il romanzo sia considerato un asettico strumento di osservazione della realtà, di cui l’uomo si serve per capire il funzionamento della psiche, dei comportamenti e delle passioni umane per poter arrivare poi a dominarli, a dirigerli. Si ha così una freddezza asettica, l’autore si propone di scomparire per far in modo che l’opera sembra essersi fatta da sola, e tutto viene descritto in termini scientifici, svuotando la letteratura della sua bellezza, privandola della soggettività e dell’emozionalità, eliminando dall’uomo la sua parte dionisiaca, illudendosi che basti la parte apollinea per poter vivere veramente. Ma è appunto solo un’illusione e così, in opposizione a questa visione arida della letteratura, si proclama l’inutilità della stessa, come si può vedere anche in Oscar Wilde, che afferma che tutta l’arte sia essenzialmente inutile, in quanto unico messaggio che ha da trasmettere è la Bellezza, una bellezza che non può essere rintracciata nell’utile, in quanto chi mai contemplerebbe un oggetto che ha ideato per uno scopo pratico, chi mai potrebbe vedere la bellezza in un martello?

“L’artista è il creatore di cose belle. Rivelare l’arte e nascondere l’artista è il fine dell’arte…”.Ritorna l’ideale di un poeta vate, evidente in D’Annunzio, che ritiene che il poeta abbia la funzione di trasmettere agli altri uomini la bellezza, ritiene che, grazie all’eccezionalità delle sue sensazioni, abbia il compito di rivelare all’uomo comune i segreti più profondi della natura. A contrapporsi a questa concezione dannunziana di poeta vate è Corazzini, che esprime la visione cupa e dimessa della realtà propria dei poeti crepuscolari, che contrappongono un vivere triste e patetico al vivere inimitabile dell’esteta. Nel “Piccolo libro inutile”7 è presente la poesia “Desolazione del povero poeta sentimentale”, in cui l’autore stravolge completamente l’idea di poesia e di poeta, ritenendo la sua poesia un “piccolo libro inutile” e proclamando l’inutilità del poeta, il quale non è più un poeta vate, non è più il poeta romantico in grado di esprimere sentimenti difficilmente esprimibili per gli uomini comuni, ma è solamente un piccolo fanciullo che piange, desolato, che non sa dire altro che sentimentali parole vane. Esprime nella sua poesia tutto il male di vivere insito nella condizione umana, male di vivere che si ritrova in Ungaretti e nei poeti ermetici, che propendono anch’essi per una letteratura inutile, disimpegnata, svincolata da qualsivoglia elemento storico e autobiografico, definita perciò poesia pura. La poesia finisce per coincidere con la vita, intesa come la realtà più intima e raccolta dell’uomo e di conseguenza la letteratura rappresenta l’unica via per arrivare a conoscere l’uomo, a conoscere noi stessi, si identifica con l’Io profondo del soggetto. L’uomo, tramite essa, cerca di raggiungere le radici dell’essere, cerca di arrivare a una purezza di valori che si propone come scopo la ricerca della verità. La letteratura vive nel rapporto esclusivo dell’individuo con se stesso e la sua funzione più vera, più profonda, è proprio quella di mostrare all’uomo chi è, all’uomo incapace di vedere, di capire, di comprendere, all’uomo che non vuole vedere, capire e comprendere; mostrare all’uomo la sua condizione esistenziale, che è sofferenza, dolore, desiderio di infinito perennemente frustrato, farlo divenire cosciente dei suoi limiti e della sua forza, della sua finitezza, che è insieme limite e forza, che è ciò che lo spinge a ricercare perennemente un senso ultimo della sua esistenza, e che è ciò che rende la letteratura così essenziale per la sua vita, perché gli dà l’idea di poter arrivare a raggiungere l’assoluto, un assoluto che non potrebbe raggiungere altrimenti. Corre, l’uomo, senza mai fermarsi, rincorre miti che si è creato da solo, rincorre la ricchezza, il benessere, il successo, senza mai porsi domande, si trascina lungo i binari della vita senza riflettere, percorrendoli meccanicamente, come una macchina, trasportato dal flusso della vita in una folle ripetizione di eventi privi di senso, svuotati da qualsivoglia decisione dettata dalla singola personalità, percorre i binari della vita senza concedersi il lusso di scendere ad alcuna fermata, sempre dritto, veloce, rapido, verso la realizzazione di sé. Di quello che ritiene di essere. Cataloga, l’uomo, cataloga ogni cosa, sentimento, passione, emozione, pensiero, in base alla collettiva e convenzionale idea di utilità e inutilità, preso dalla folle ansia di diventare qualcuno in futuro, scordandosi che lui è qualcuno oggi ed è stato qualcuno ieri. È un Uomo. Piccolo, fragile, spaurito, spaesato in un mondo molto più grande di lui, sperduto in un’esistenza che non comprende, al di fuori della portata della sua ragione, si è perso. Ha scordato chi è. Ha scordato il significato della parola Uomo. Ma ora si legge, si ritrova, si comprende in quello specchio che è la letteratura, e sta a lui, adesso, la scelta: accettare chi è, un essere finito che aspira all’infinito, contraddittorio paradossale, sofferente, o continuare incessantemente a percorrere i binari meccanicamente, senza porsi domande, senza interrogarsi.

 

 

1  J. P. Sartre, Le Parole, ed. Il Saggiatore, Milano 2011

2  J. P. Sartre, Che cos’è la letteratura, Il Saggiatore, Milano 2009

3  U. Eco, Sulla Letteratura, Bompiani, Milano 2016

4  Callimaco, Inno ad Apollo (vv. 100- 112)

5  E. Zola, Il romanzo sperimentale, trad. it. di I. Zaffagnini, Pratiche, Parma 1980

6  O. Wilde, I principi dell’estetismo, Prefazione da Il ritratto di Dorian Gray, a cura di F. Marengo Garzanti, Milano 1991

7  S.Corazzini, Desolazione di un povero poeta sentimentale, da Piccolo libro inutile, 1906

 

 

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