Le nuove sfide: come affrontarle?
LUGLIO 2018
Il Fatto
Le nuove sfide: come affrontarle?
di   Antonio Foccillo

 

In un periodo in cui si fa un gran parlare di democrazia diretta, di crisi del progetto europeo e di progressiva sfiducia nei confronti del sistema rappresentativo, discutere su quali siano le forme e i contenuti di ciò che comunemente siamo abituati a definire “democrazia” sembra più che mai necessario per stimolare nuove riflessioni e dibattiti. In questo contesto di smarrimento e d’impotenza dell’uomo a stabilire regole di convivenza adeguate alla realtà come si è configurata in questi ultimi decenni, riteniamo sia opportuno richiamare anche gli insegnamenti passati il cui valore intrinseco resta sempre valido.

Gli uomini hanno accettato, e continuano ad accettare, di vivere politicamente insieme per vivere meglio. Alla Politica, dunque, è affidato l’incarico di individuare le forme migliori e gli attori più capaci a realizzare le condizioni concrete per una vita felice, ragione necessaria del vivere insieme. Nella prospettiva di una vita felice, gli uomini hanno pattuito di obbedire ad altri uomini, nella certezza di avere in cambio protezione e prosperità. Thomas Hobbes dà una chiara e vigorosa dimostrazione che il “contratto sociale” implica obbligatoriamente come meta della giusta azione di governo la salus populi, cioè, la protezione e prosperità dei cittadini. Alla Politica i cittadini hanno diritto di chiedere volontà, forza, capacità per decisioni che perseguano e realizzino il “bene comune”.

La Politica è un’attività autonoma, che ha solo in se stessa e non fuori di sé, la giustificazione che la legittima: garantire la concordia interna dei cittadini e la sicurezza esterna dello Stato. Fine dello Stato è la libertà, che significa insieme la meta diretta del benessere materiale e non solo di quello spirituale. È quanto ripete Baruch Spinoza, che sostiene fermamente che non può esserci vera libertà politica per l’uomo, se a questa non si accompagni l’affrancamento dalle immediate necessità economiche. Infatti, il criterio discriminante della libertà è la sicurezza materiale e morale. Uno dei modelli su cui si è costruita questa forma di politica in Europa è stato il socialismo democratico, quello del welfare State.

Infatti, alle origini il socialismo aveva fra i suoi obiettivi: la liberazione dell’uomo dalla schiavitù nei confronti dell’economia; il rifiuto della ricchezza quale unica risposta ai bisogni; il riconoscimento dei bisogni comunitari dell’uomo per la soddisfazione dei quali l’economia non può essere l’unico legame di solidarietà né di comunicazione. La realizzazione di questi obiettivi è fallita perché erano in ogni caso integrati in un universo dominato da valori liberisti, i cui principi fondamentali erano dagli stessi socialisti condivisi. Ci si domanda perché il socialismo ha sfidato il capitalismo sul suo terreno, poiché non vi è dubbio che sia per l’uno che per l’altro “il processo della produzione resta dominato dalle leggi dell’economia politica, scienza della distribuzione razionale delle risorse rare”. Il problema della liberazione sociale nell’era della civiltà tecnica non è stato risolto, anzi è stato abbandonato. Il fatto è che fino a quando la società avrà un unico progetto, quello dello sviluppo, non potrà avere una legge diversa da quella dell’efficacia, un principio organizzatore diverso da quello del lucro, in sintesi una logica che non sia capitalistica.

Bisogna porsi quindi il problema di come mettere dei limiti alla potenza dell’economia, per riguadagnare terreno, per far ricrescere principi organizzatori che non siano utilitari. La frenesia al consumo porta un vuoto assiologico, cioè all’assenza di valori comuni suscettibili di definire un programma che soddisfi i bisogni fondamentali. Chi saprà definire un progetto sociale diverso da quello che deriva dalla logica strumentale dell’economia e dello sviluppo tecnico? Lasciamo aperta la discussione, atteso che, il dissolvimento dei regimi totalitari, la fine del socialismo reale e i conseguenti dibattiti sul rinnovamento della sinistra, la crisi degli Stati nazionali in seguito alla globalizzazione, costituiscono gli elementi dell’attuale dibattito. Conseguentemente nasce una questione. Se è cosi, come i diversi soggetti sociali si rapportano con la politica? Vi è chi sostiene che bisogna partecipare direttamente e chi sostiene che bisogna fermarsi al prepolitico. Credo che il sindacato debba entrare efficacemente nel dibattito politico, per orientarlo con le proprie idee, rafforzarlo di sentimenti e di valori di cui è portatore e avanzare proposte per un modello di società, di stato sociale, di istituzioni, di rappresentanze diverse da quelle attuali. Si tratterebbe di vivere la discussione politica, non starne ai margini.

Il sindacato dovrebbe guidare, su scala continentale e meglio ancora globale, un processo di riappropriazione della politica da parte della cittadinanza del mondo sviluppato e di nuova stagione democratica nei paesi in via di sviluppo, per favorire una globalizzazione democratica, delle regole e, soprattutto, dei diritti. In questo modo si eviterà il ricatto del capitale che va alla ricerca del mercato del lavoro più economico, si favorirà uno sviluppo realmente sostenibile e la redistribuzione dei redditi su scala globale che solo un ingenuo può pensare sia possibile senza interventi significati del pubblico – inteso come Stato e Organismi internazionali – nella società. Non si può confondere l’autonomia con l’agnosticismo. Siamo stati protagonisti dei grandi cambiamenti di questo Paese e solo ritornando ad esserlo possiamo vincere la sfida. Quindi, per poter rapportarsi con la politica e per introdurre nuovi modelli, bisogna essenzialmente porsi il problema di come allargare la presenza nel sindacato di nuovi lavoratori. Il sindacato vive di partecipazione attiva di tanta gente e trova alimento alla sua funzione proprio dalla presenza di nuovi lavoratori: giovani e donne.

I giovani oggi sono poco inclini ad essere in prima fila, in un impegno collettivo, che sia in grado di dare prospettive e di mantenere viva la solidarietà fra generazioni e tutele di diritti e garanzie sul lavoro e sul piano economico, politico e sociale. Negli anni sessanta si manifestò, invece, una generazione che innovò fortemente il modo di essere dei giovani italiani, per la verità quel fenomeno di massa proveniva anche dalle esperienze europee (in particolare francesi) e americane, ma seppe trovare una sua originalità e particolarità anche in Italia. Si stava ormai stabilizzando una diffusa istruzione di massa, garantita – non dimentichiamolo mai – dalla scuola pubblica e, contemporaneamente, si verificò una grande apertura verso il mondo dell’istruzione e della cultura universitaria per una parte importante del mondo del lavoro. Una nuova coscienza individuale e collettiva, portava operai ed impiegati ad arricchire il proprio bagaglio culturale, le conoscenze umanistiche si diffusero in strati sociali prima mai toccati da questo fenomeno. In definitiva si democratizzò realmente la società poiché si davano pari opportunità a tutti nei fatti, e non solo a parole.

I nuovi fermenti della società italiana raggiunsero anche il sindacato confederale e resterà nella storia l’autunno caldo del 1969, dove fortissima fu la partecipazione giovanile, una ventata nuova anche nel sindacato. Ci furono leggi per il diritto allo studio dei lavoratori che riconobbero permessi orari, poi recepiti anche dalla contrattazione, prevalentemente orientati al completamento della scuola dell’obbligo per chi non lo avesse fatto nei tempi previsti, ma comunque indicativo di un’attenzione verso lo studio e l’emancipazione in generale. Si rinnovò così anche il movimento dei lavoratori e si stabilì con il mondo studentesco un’alleanza strategica che in questi anni, purtroppo, è svanita anche sotto i colpi tragici che hanno caratterizzato la storia d’Italia a partire dagli anni settanta. Gli studenti lavoratori portarono creatività ed energie significative nel mondo del lavoro e, nello stesso tempo, arricchirono e diversificarono il mondo dell’istruzione che non divenne più il ristretto circolo sostanzialmente riservato ai figli della borghesia, come si diceva allora. Espressioni in parte superate, ma comunque indici di una consapevolezza o coscienza se preferite, che oggi è svanita. Sono cambiate tante cose, e sui giornali sociologi e psicologi ci hanno raccontato di una generazione di mammoni, quella del cosiddetto riflusso.

Oggi quanti studenti lavoratori ci sono? Io credo altrettanti se non di più, ma il problema è che lavoro fanno? Perché nel sindacato sono poco conosciuti? E perché loro conoscono poco il sindacato? Naturalmente i cambiamenti storici avvenuti in cinquant’anni hanno contribuito a modificare molti aspetti anche nel modo di essere giovani. Se ne discute, a volte, anche tra sindacalisti: ma i giovani perché non partecipano come una volta, come quando noi eravamo giovani? Le risposte forse sono tante ma qualcuna possiamo provare a darla subito. La precarietà, per esempio, allontana i giovani dal sindacato. Spesso i lavori svolti sono il cameriere, la baby sitter, il fattorino, l’istruttore sportivo, il rider per fare qualche esempio, e la paga va dai cinque ai dieci euro l’ora, il più delle volte senza un contratto regolare. Contemporaneamente si registrano le note difficoltà nell’inserimento nel mondo del lavoro, da un lato si spinge per la rapida immissione nel circuito lavorativo, dall’altro il circuito è ostruito.

È da notare che negli ultimi anni risulta, inoltre, più in crescita l’ingresso nel mondo del lavoro dei titolari di diploma rispetto ai laureati. Naturalmente anche per l’università si vedono risultati differenti a seconda dell’indirizzo di studi e su questo si deve fare un inciso. Non credo sia la maniera migliore per sviluppare, in tutti i suoi aspetti, una società, quella di puntare solo ed esclusivamente sulla formazione volta all’inserimento nel mercato del lavoro, per cui i giovani si sentono costretti a scegliere un tipo di studi solo per poter andare poi a lavorare, così facendo non danno spazio alle loro aspirazioni e idealità. Quindi perché il sindacato non attrae molti giovani? Innanzitutto ciò non è vero, dove ci sono regole e diritti certi, dove vige la contrattazione collettiva e nazionale i giovani sono sempre in prima fila a partecipare. Certo chi lavora in un pub o fa il pony-express o il rider ha qualche difficoltà in più e comunque esistono strutture dei sindacati per i cosiddetti “nuovi” lavori precari, ad esempio vedi la Uil di Bologna, ma è chiaro che stanno affrontando un nuovo processo e quindi vanno incontro a difficoltà e novità da sperimentare sul campo.

C’è però una fetta importante di giovani che, pur rientrando nel lavoro tradizionale, non si sente rappresentato dal sindacato. Anche nel pubblico impiego, ad esempio, ci sono tanti precari, troppi, e questi hanno difficoltà oggettive, che noi vogliamo rimuovere. Purtroppo questo, a parer mio, è dovuto al fatto che abbiamo vissuto una fase, non solo in Italia, di riduzione dei diritti del lavoro e questo è il vero volto di quella che, non so se a torto o a ragione, si chiama globalizzazione. Mi spiego: i rapporti di lavoro, le relazioni sindacali e la dinamica sociale si giocano, ovviamente, sulla base di un confronto tra attori, che una volta venivano identificati con le classi sociali e che erano codificati dalla sovranità nazionale degli Stati, oggi in via di riduzione o superamento. A questo punto, da sostenitore di quel modello sociale, quello dello Stato sociale, ossia il modello – ripeto – socialdemocratico, riformista, ritengo che solo una ripresa strategica della politica sociale possa permetterci di ripristinare regole e diritti, volti non a garantire privilegi, come affermano i sostenitori del neoliberismo, bensì pari opportunità di sviluppo, in particolare ai giovani e su scala mondiale a tutti i paesi del mondo.

Molti credono, con la giusta forza della gioventù, di poter approfittare delle opportunità che una società, in definitiva, individualista e competitiva offre, ma non è così. Essere competitivi è un bene, ma nel senso di migliorarsi continuamente, molti invece vedono la competizione come una lotta tra poveri e questo è, appunto, funzionale alla conservazione di un sistema come quello del modello di società del mercato senza regole. Far parte del sindacato è proprio oggi ancor più importante. Esso all’inizio dell’ottocento, durante gli anni ruggenti del capitalismo senza regole, non esisteva e uomini coraggiosi e generosi, invece, lo fondarono, scontrandosi con una dura realtà e poi anche con il fascismo, mentre, oggi, è anche più facile, infatti, vi sono tante possibilità in più di difendere le conquiste e i propri diritti. I giovani devono poter lavorare per studiare, ma devono certamente partecipare in un impegno che garantisca un modello di società più giusta e più equa. Una società che riconosca a tutti pari opportunità e soprattutto che sia fondata sul lavoro, sulla solidarietà, sui diritti e sull’emancipazione di ogni individuo.

 

 

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