Salario minimo. Oltre un’etichetta
GIUGNO 2018
Attualità
Salario minimo. Oltre un’etichetta
di   Alessandro Fortuna

 

 

E' stupefacente come a volte delle “etichette” possano suscitare “a priori” gli entusiasmi di molti, è il caso del “salario minimo”. Sì perché spesso e volentieri l’opinione pubblica lo annuncia come la panacea dei mali del mercato del lavoro dei giorni nostri. Eppure il sindacato in più e più occasioni ha evidenziato come questa idea fosse più che mai sbagliata e tutt’altro che vicina alla tutela e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Purtroppo, nemmeno i partiti storicamente vicini ai sindacati hanno recepito il messaggio. Detto questo, quindi, i lettori di questo mensile certamente ben sapranno i motivi della nostra contrarietà, ribaditi anche nella nostra recente assise congressuale nazionale, ma credo sia comunque doveroso fare un passaggio sulla questione.

Chi propone la via di una previsione per legge di una paga oraria base sembra dimenticare, se non snobbare, lo strumento più democratico e garantista che esiste nel mondo del lavoro per stabilire proprio i minimi tabellari, il contratto collettivo o ancor meglio la contrattazione. Corrette e periodiche relazioni sindacali, a livello nazionale ed aziendale, garantiscono chiaramente maggiori tutele rispetto ad una eventuale previsione legislativa che sarebbe inevitabilmente al ribasso rispetto alle norme negoziali, con l’ovvia conseguenza che molte imprese approfitterebbero di queste disposizioni per venir meno ai dettami della contrattazione.

Non solo, le parti datoriali potrebbero esser più restie a concordare condizioni retributive migliorative nella sede dei rinnovi, oppure finanche a non sedersi ai tavoli di trattativa allorquando i compensi da queste erogati siano già rispettosi della paga base stabilita dal Legislatore. La perdita del peso contrattuale delle organizzazioni sindacali sarebbe dietro l’angolo, anche perché le aziende, nelle ipotesi appena riportate, di certo non violerebbero la legge. Ancora una volta, quindi, l’invito è a fermarsi a ragionare su proclami che agli occhi dell’opinione pubblica arrivano quasi a proclamarsi svolte di civiltà. Nulla di più falso, il salario minimo, infatti, nel depotenziare il ruolo della contrattazione collettiva nazionale potrebbe costituire l’ennesimo attacco alle condizioni del mercato del lavoro odierno.

Laddove il salario minimo è realtà, lo è perché si è reso necessario per la mancata tradizione contrattualistica di quelle realtà. Laddove non c’è copertura contrattuale o il sindacato è poco rappresentativo, questo strumento è più che legittimo perché allora sì che costituisce una vera garanzia per i lavoratori. Dagli anni ‘90 ad oggi, in Europa, la copertura della contrattazione collettiva ha subito un trend decrescente, per cui la maggior parte dei Paesi che ha assistito a tale decrescita ha reagito attraverso l’introduzione o l’incremento del salario minimo legale, quale strumento per combattere i “working poor”. Si tratta della categoria di lavoratori “poveri”, cioè coloro che, pur avendo un’occupazione, si trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale a causa del livello troppo basso del loro reddito, dell’incertezza sul lavoro, della scarsa crescita reale del livello retributivo, dell’incapacità di risparmio, eccetera. Una situazione che in Germania si è, per l’appunto, recentemente deciso di contrastare seguendo quella strada. E così, di fronte a un importante calo della copertura contrattuale, ha introdotto un salario minimo legale per contrastare la piaga dei bassi salari, divenuto in Germania, per una serie di ragioni (le migrazioni economiche soprattutto dai paesi dell’est, la prestazione transnazionale di servizi, la segmentazione del mercato del lavoro, la diffusione dei famosi mini-jobs, le clausole di uscita dai contratti collettivi), un fenomeno endemico.

È il caso di ribadire, dunque, che il salario minimo legale non sarebbe applicabile in modo generalizzato ma solo per fissare i minimi retributivi nei settori non regolati dai contratti collettivi. Non è questo il caso di nazioni come l’Italia o come Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia. Oggi, infatti, ben l’85% dei lavoratori italiani è comunque tutelato dai contratti collettivi nazionali, dove i salari sono adeguati alle specifiche esigenze di ogni settore. Perché dunque dovrebbe essere il Parlamento a sostituirsi ai sindacati e alle imprese nel compito di fissare la paga di chi lavora? Non è possibile, tuttavia, nascondersi dietro un dito, i “working poor” sono in crescita anche in Italia e vi rientrano, in particolar modo giovani, donne e stranieri, ossia tutti coloro che hanno maggior difficoltà di ingresso o di permanenza in un mercato di lavoro che risente ancora fortemente della crisi economica. I nostri “lavoratori poveri” sono precari storici e nuovi lavoratori della gig economy.

Eppure può essere il salario minimo, l’unica risposta al problema di crescente una diffusione di manodopera a basso costo? Per rispondere a questo interrogativo, credo sia il caso di analizzare le cause - appena accennate per la Germania - che ne hanno portato alla proliferazione. Partirei innanzitutto dal sottolineare che l’esistenza dei “lavoratori poveri” si può rintracciare in motivazioni diverse legate sia all’evoluzione del mercato del lavoro sia ai cambiamenti istituzionali. Tra i fattori di mercato ci sono: i cambiamenti tecnologici della struttura produttiva che hanno favorito la domanda di lavoratori qualificati rispetto a quelli meno qualificati; i processi di delocalizzazione che, spostando le fasi della produzione a maggiore intensità di lavoro nei Paesi emergenti, caratterizzati da bassi costi del lavoro, hanno portato a una compressione della crescita salariale soprattutto nel lavoro meno qualificato.

Bisogna tener conto, allo stesso tempo, anche della terziarizzazione dell’economia e dei cambiamenti demografici, come l’invecchiamento della popolazione e i flussi migratori. Tra gli aspetti istituzionali, rientrano le forme di flessibilizzazione del mercato del lavoro che hanno determinato: una riduzione delle tutele dei lavoratori e in alcuni casi anche un peggioramento della qualità delle posizioni lavorative; l’erosione del potere contrattuale dei sindacati e la minore copertura, di conseguenza, dei contratti collettivi nazionali. Questi fattori si sono tradotti in una progressiva polarizzazione della distribuzione dell’occupazione tra “buoni” e “cattivi” lavori.

La crisi, poi, ha fatto la sua parte, portando a un generale arretramento dei salari e dei redditi, aumentando il rischio di disoccupazione e di inattività ma anche il rischio di povertà per gli occupati. Anche le forme contrattuali incidono. Rapporti di lavoro meno stabili sono caratterizzati ovviamente da una maggior incidenza di lavoratori a basso reddito: la precarietà non si fa sentire solo in termini di durata del contratto di lavoro ma anche di livello reddituale. Se i contratti a tempo determinato si trasformano in contratti a tempo indeterminato, i bassi salari dovrebbero rappresentare solo una fase transitoria della carriera, ma spesso questo passaggio non avviene. E la condizione di working poor, pertanto, rischia di diventare patologicamente permanente.

Ebbene mi sento di ribadire che la previsione di una retribuzione oraria per legge, nel nostro sistema, rischierebbe di diventare l’ennesima causa dell’arretramento delle condizioni generali del benessere lavorativo degli italiani. Il pericolo sarebbe l’appiattimento delle condizioni di miglior favore, da una parte, e l’irrigidimento dell’offerta occupazionale per alcune prestazioni lavorative, dall’altra. Sarebbe, quindi, molto più saggio che il Legislatore, piuttosto che sostituire il ruolo storicamente svolto dalle parti sociali, si adoperasse per porre degli argini a tutte quelle derive che l’economia sta imponendo al mercato del lavoro, adeguandolo silenziosamente e meccanicamente alla crescente e rapida modernità virtuale.

È qui che il ruolo dello Stato e quindi del Legislatore deve tornare a far sentire la sua voce, perché questi processi economici si sono sviluppati indisturbati e ciechi di fronte alle ripercussioni sociali di quei loro modelli. Non certo superando la contrattazione laddove c’è, il Legislatore italiano può trovare delle soluzioni, anzi semmai tutto il contrario: dovrebbe incentivare la contrattazione dove non c’è, in quanto non è nelle condizioni di realizzarsi.

Se i lavoratori che i nuovi modelli economico-virtuali ci propongono non hanno tutele di alcun genere (dalla natura del rapporto di lavoro ai diritti sindacali; dal benessere lavorativo alla sicurezza sul lavoro; dalla conciliazione dei tempi vita lavoro alle garanzie contributivo previdenziali), non sarà certo la previsione di una paga oraria minima a tutelarli. Torno sempre sul punto che per governare i fenomeni dell’oggi, la soluzione possa sembra offrircela la storia e i suoi esempi. E quale migliore esempio se non lo Statuto dei Lavoratori? Se ci deve essere un’opera di protezione del mercato di lavoro, e necessariamente deve esserci, bisogna ripartire da quella legge, invertendo la rotta però.

Non più depotenziando diritti e tutele, come forse si vorrebbe fare con la contrattazione, ma adeguandoli ai tempi e alle nuove realtà, tornando a restituire dignità al lavoro in tutte le sue forme senza escluderne nessuna. Come abbiamo stabilito nel vicino Congresso nazionale bisogna ripartire dall’art. 1 della nostra Costituzione, proteggendo i vecchi e i nuovi lavori con garanzie vere, come quelle che nel 1970 si posero con lo Statuto dei lavoratori, non con soluzioni che solo ai più disattenti sembrano risolutive.

 

 

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