Demografia: verso un Paese pił piccolo ed irrilevante
MAGGIO 2018
Agorą
Demografia: verso un Paese pił piccolo ed irrilevante
di   Beppe Casucci

 

Viviamo tempi difficili a causa di una crisi (non ancora superata) che non è solo economico-sociale, ma antropologica prima ancora che politica e più in generale della qualità stessa della nostra società.

 

Alcuni dati: l’Italia non fa più figli (o meglio ne fa troppo pochi per garantire il ricambio generazionale). Con un tasso di fertilità per coppia vicino a 1,34 figli in media e con l’aumento dell’aspettativa di vita, il nostro Paese perde 100/150 mila cittadini l’anno e – secondo simulazioni demografiche accurate - potrebbe scendere a 54 milioni nel 2065. Di questi, quasi 8 milioni saranno composti da cittadini nati all’estero (o loro figli): in pratica gli autoctoni scenderebbero a 46 milioni. Secondo l’Istat infatti tra il 2017 ed il 2065 la popolazione potrebbe perdere fino a 14 milioni di cittadini. Tutto ciò si deve all’azione combinata di più fattori: l’aumento della aspettativa di vita, il crollo delle nascite e l’esodo di un numero crescente di italiani in cerca di lavoro all’estero (dal 2008 inizio della crisi avrebbero lasciato il nostro paese oltre un milione di italiani). In effetti, secondo l’Istat, nei prossimi anni le future nascite non saranno sufficienti a compensare i futuri decessi (malgrado l’invecchiamento della popolazione). Nel frattempo – la media degli ingressi di nuovi cittadini che negli anni 2000 avevano superato quota 400 mila con punte di 500 mila – è scesa nel 2016 a 144 mila con la crescente probabilità che il saldo migratorio diventi presto negativo. Secondo molte simulazioni demografiche, servirebbe nei prossimi anni l’ingresso nel nostro Paese di almeno 300 mila stranieri l’anno (o meglio questo dovrebbe essere il saldo ingressi/egressi). Ma così non è anche a causa del blocco degli ingressi per lavoro a tempo indeterminato (decreto flussi), in atto fin dal 2010. Dal punto di vista geografico, sarà il Mezzogiorno ad essere più colpito dal calo della popolazione, anche a causa delle migrazioni interne. Secondo Istat, nel 2065 il Centro- Nord accoglierebbe il 71% dei residenti (contro il 66% di oggi). Nel Sud Italia, invece, vivrà solo il 29% della popolazione (contro il 34% odierno).

Che effetto avrà la diminuzione della popolazione per la nostra economia e società? Apparentemente, si potrebbe dire: che male c’è se gli italiani diminuiscono un pò? Forse ci sarà più lavoro per chi rimane. Ma non funziona così. Il male è che la riduzione non avviene proporzionalmente. Ad esempio, se la popolazione si riduce, ma il debito pubblico rimane costante, il debito pro-capite aumenta – ed ecco emergere un primo effetto negativo. Meno popolazione vuole anche dire meno PIL e dunque maggior squilibrio nel rapporto con il debito, e minore affidabilità dei conti pubblici italiani. Ci sono altri fattori, legati al semplice fattore numerico: ad esempio le prospettive del mercato interno (certamente non favorevoli, se il pubblico dei potenziali compratori si contrae), o il peso politico dell’Italia nel mondo o quantomeno in Europa, che è legato anche al suo peso demografico. Questo significa anche meno investimenti e meno produttività e – per gli imprenditori – maggiori difficoltà a trovare manodopera specializzata. Dunque, maggiore dipendenza dall’arrivo di manodopera immigrata. Meno banali, ma non meno preoccupanti, sono poi gli effetti strutturali. La riduzione della popolazione si accompagna sempre, necessariamente, a un suo invecchiamento. A produrla è la riduzione delle nascite che, a cascata, comporta una minor presenza prima di bambini e poi di adulti, mentre gli anziani e i grandi anziani, nati da generazioni numerose, continuano a restare numerosi fino alla loro estinzione, circa 100 anni dopo. Questo processo in Italia è già cominciato da un pezzo, diciamo nell’ultimo quarto del secolo scorso. Ora la domanda da porsi è: possiamo permetterci un altro mezzo secolo circa di ulteriore invecchiamento, con le tensioni già gravi che abbiamo sul sistema previdenziale, su quello sanitario/assistenziale, e sulle famiglie, spesso chiamate a tappare le falle di un sistema di welfare non sempre all’altezza delle necessità?

Questo significa non solo un aumento dell’invecchiamento della popolazione (l’Istat valuta 5 anni di vita in più entro il 2065), ma anche che la popolazione in età pensionabile passerebbe – in 50 anni – dall’attuale 22 al 34% (intorno al 2050), con un grave squilibrio del sistema previdenziale che obbligherà sì a cambiare sì la normativa previdenziale: ma in peggio. Certo, le immigrazioni potrebbero, in teoria, compensare le mancate nascite, e fino alla metà del secolo i candidati a entrare in Italia non dovrebbero mancare. Ma bisogna fare i conti con il fatto che molti stranieri, costretti a passare per l’Italia per ragioni geografiche, in realtà non ci vogliono rimanere. Inoltre le politiche dei recenti governi (e ancor peggio di quelli di questa legislatura) sono state e saranno di chiusura verso gli ingressi regolari, con effetti inevitabili sulla crescita del lavoro nero e di forme di grave sfruttamento. In questo senso diventa vitale la riforma del regolamento di Dublino per distribuire su tutta l’Europa a 27 del peso di una pressione migratoria destinata a crescere (in questo secolo la popolazione dell’Africa raddoppierà, mentre quella Europea è in deciso calo).

Infine: gli stranieri che risiedono da noi tendono a fare alla lunga meno figli ed ad adattarsi al trend italiano delle nascite. Dunque, l’immigrazione può essere certamente un forte aiuto, ma non è la soluzione che compensa il gap demografico (oltre che sociale e di competitività) dell’Italia. Di fronte ad una prospettiva tanto preoccupante una classe dirigente capace di guardare al di là del proprio naso dovrebbe programmare politiche in due direzioni: investire fortemente sulla famiglia per sostenere la crescita delle nascite (come ad esempio ha fatto la Francia), dando un forte supporto ed adeguati servizi alle mamme presenti e future, alle quali sì andrebbe garantito un reddito di supporto demografico. La seconda scelta dovrebbe riguardare l’immigrazione. Questo significa aprire canali legali d’ingresso (anche per combattere il traffico delle persone) e sviluppare forme di attrazione per manodopera qualificata, adeguandola alle richieste del nostro sistema produttivo. Invece tutto questo non avviene (o almeno non è ancora avvenuto) e la prospettiva di un governo formato da formazioni populiste rende ancora più grigio il quadro futuro per tutti noi.

 

Note

Scarica: Istat, “Il futuro demografico del Paese”.

 

 

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