Immigrazione  - Guglielmo Loy
Migrazioni e schiavitù
Secoli fa uno schiavo era un bene di lusso, oggi è diventato un bene di scarsissimo valore
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09/11/2017  | Immigrazione.  

 

Salvatore Dimaggio, Fondatore di Africart, http://www.huffingtonpost.it/

 

IL BLOG - 08/11/2017 - Oggi uno schiavo costa 90$. Un dato importante che ci dice quanto valga su questo pianeta un essere umano, non coperto da quella coltre protettiva che è la cittadinanza di un paese che lo tuteli in qualche modo. Secoli fa uno schiavo era un bene di lusso, oggi è diventato un bene di scarsissimo valore, scambiato in grandi quantità e in modalità ormai anche palesi. In Libia, in seguito al caos scatenato dal crollo del regime di Mu'ammar Gheddafi ("il cane pazzo del Medio Oriente", come lo chiamava l'ex presidente Ronald Reagan), la situazione è così fuori controllo che i mercati degli schiavi avvengono in pieno giorno e hanno ormai ben poco di clandestino. La Libia è sostanzialmente una pentola a pressione alla quale sono state bloccate le valvole.

 

Vi confluiscono migranti da quasi tutta l'Africa, ma gli accordi che le autorità di questo paese hanno sottoscritto con l'Italia ultimamente, bloccano il defluire di questo fiume umano e lasciano mano particolarmente libera ai mercanti di schiavi. È importante capire che migrazioni e schiavitù sono storie che naturalmente si intrecciano o si generano l'una dall'altra in tutto il mondo. Quando un individuo si affida a organizzazioni di passeur, che lo sappia o meno, entra in un meccanismo che è molto diverso da come appare.

 

Operando nella più totale illegalità, spesso con la connivenza delle autorità locali, tali organizzazioni vedono il migrante come una bestia da spremere per ottenere il maggior guadagno possibile. Portarlo a destinazione è poco intelligente per massimizzare gli utili: meglio venderlo a uno dei tantissimi lager che lo faranno lavorare in stato di schiavitù costringendolo a contattare regolarmente casa per ottenere un riscatto per la propria liberazione. Ma, molto spesso, i parenti, testimoni distanti e impotenti della sua esecuzione, hanno speso tutti i loro averi per farlo partire.

 

Venduti da un'organizzazione all'altra fino a trovare il padrone che li farà lavorare allo sfinimento in qualche piantagione o bordello, moriranno di malaria, denutrizione o cause simili. La vita degli schiavi non ha nulla di umano, ogni parte della loro esistenza è orrida sotto qualsiasi punto di vista. Esopo scriveva: "Nessuno schiavo è più infelice di quello che mette al mondo figli destinati ad essere schiavi".

 

L'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) si occupa del rimpatrio di grandi numeri di migranti che, con le loro storie cariche di violenze spaventose e crudeltà inumane, costituiscono un notevole deterrente per gli altri intenzionati a partire. Resta il fatto che per tantissime persone l'alternativa è ristagnare in una vita tormentata dalla fame, guerra, persecuzioni etniche, religiose o altro – la migrazione può avere tante cause diverse, similmente a come lo stesso sintomo può essere cagionato da numerose patologie – oppure rischiare di finire in questa spirale di orrore. Un orrore ampio come una nazione. Oggi nel mondo, gli schiavi sono trenta milioni. Non sorga il dubbio che questa cifra si riferisca semplicemente a lavoratori pesantemente sfruttati. Tra gli schiavi di oggi e quelli che vediamo nelle pellicole sulla Roma imperiale non corre alcuna differenza, salvo una: il costo di acquisto.

 

Una differenza importante: se acquistate un'auto da 40.000 euro, sarà vostra cura mantenerla in buone condizioni, ma se acquistate uno smartphone supereconomico da 80 euro non vi interesserà minimamente delle sue condizioni e al minimo problema lo getterete via. Analogamente oggi, il padrone non ha alcun interesse economico a curare lo schiavo che si ammala. In Mauritania, addirittura, una persona su venticinque è in questo stato – sembra impossibile estirpare la cultura della schiavitù da questo paese – e nell'immensa e democratica India siamo all'1%. Un altro modo perverso mediante il quale migrazione e schiavitù si intrecciano è il kafala. Secondo questo surreale sistema, un lavoratore straniero può entrare negli stati del Golfo arabo unicamente se chiamato da uno sponsor del luogo detto kafeel.

 

Essendo il datore di lavoro, di fatto, anche l'autorità che determina il diritto di un individuo di permanere o meno nello stato, è facile capire come questo meccanismo svuoti le leggi sul lavoro locali di qualsiasi cogenza e avvicini spesso la condizione dei migranti in cerca di lavoro, che debbono sottostare a qualsiasi richiesta del padrone pena l'immediata espulsione, a quella di schiavi. Dunque il nemico numero uno di un migrante non è la miseria o il deserto o ancora il mare, ma il suo valore intrinseco, come ostaggio o schiavo, ovverosia, la sua salute fisica e l'amore che altri individui provano per lui.