Immigrazione  - Guglielmo Loy
Migranti, perché attiriamo i meno istruiti
Sono prevalentemente i disperati quelli che tendono a restare da noi
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27/07/2017  | Immigrazione.  

 

di Ugo Intini, il Mattino

 

Nei giorni scorsi, il Corriere della Sera ha lanciato l’allarme nel titolo più importante di prima pagina: “in Italia i migranti con meno istruzione”. Ha ragione, perché in effetti le cifre sono impressionanti: abbiamo la minor percentuale di immigrati laureati e la maggiore di quelli con la sola licenza elementare. I dislivelli rispetto a Nazioni come la Gran Bretagna e la Germania sono abissali. La spiegazione è quasi ovvia. Una famiglia di un Paese arretrato, povera sì, ma dotata di buon senso, sulla base di ciò che legge sui media (e purtroppo anche della realtà obiettiva) manda se può i figli (che già parlano inglese o francese o spagnolo) non in un’area considerata in crisi come l’Italia, dove per di più devono imparare una lingua poco diffusa. Sono prevalentemente i disperati quelli che tendono a restare da noi.

 

Il Corriere della Sera grida in un altro titolo sull’argomento: “ecco la vera emergenza”. Ha ancora ragione. E giustamente sottolinea che, mentre arrivano gli immigrati meno istruiti, gli italiani più preparati se ne vanno a lavorare all’estero. In effetti, 5 milioni sono gli italiani residenti all’estero e altrettanti 5 milioni sono gli stranieri in Italia. Ma il saldo è sostanzialmente zero soltanto sul piano quantitativo: sul piano qualitativo, detto brutalmente, esportiamo i migliori e importiamo i peggiori. Che i nostri immigrati siano i meno istruiti è un problema reso ancora più grave dal fatto che per l’invecchiamento della popolazione e il calo demografico ne abbiamo assolutamente bisogno.

 

Il governo tedesco, ad esempio, che lo sa bene, ne ha tratto le conseguenze con un piano organico: ha accolto in un solo anno 800.000 siriani (considerando che sono ad alta scolarità) e in più ha investito nel prossimo quinquennio 93 miliardi di euro per integrarli. Ha persino richiamato con forti incentivi i maestri di scuola pensionati più di recente per utilizzarli nell’insegnamento del tedesco.

 

Che si cominci a lanciare l’allarme sull’ignoranza degli immigrati è giustissimo, ma è stupefacente che nessuno lanci l’allarme su un problema immensamente più grave, addirittura disastroso. Non soltanto gli immigrati in Italia, ma anche gli italiani stessi sono i meno istruiti. Vogliamo dirlo provocatoriamente? L’ignoranza attira gli ignoranti e l’istruzione attira gli istruiti. Ho da poco scritto, con il consiglio e la prefazione di Giuseppe De Rita, un libro che fotografa questa realtà poco conosciuta e, “fresco di studi”, posso essere preciso. In dieci anni, abbiamo avuto un calo delle immatricolazioni all’università del 17 per cento, accompagnato da quello (22 per cento in sei anni) dei docenti. Siamo ormai al 34º posto e ultimo posto tra i Paesi dell’OCSE per la percentuale dei laureati tra i giovani.

 

Ci troviamo dietro alcuni Paesi che siamo abituati a classificare nel terzo mondo. Abbiamo ad esempio meno di un terzo degli studenti universitari dell’Iran (che non raggiunge gli 80 milioni di abitanti). Siamo gli ultimi in Europa anche per la percentuale di diplomati. Nella fascia di età tra i 25 e i 54 anni, i tedeschi che non hanno ottenuto almeno un diploma di scuola secondaria sono infatti soltanto il 13,1 per cento, i britannici il 21,4, i francesi il 23,8, mentre gli italiani salgono purtroppo al 39,5 per cento.

 

Non soltanto i laureati sono pochi: hanno anche studiato materie che rendono difficile trovare un lavoro e che poco concorrono allo sviluppo tecnologico del Paese. Abbiamo tanti laureati in lettere come in ingegneria. I soli laureati in giurisprudenza pesano come quelli in tutte le discipline scientifiche messi insieme. Che sono infatti soltanto il 20 per cento del totale. Contro il 31 per cento della Germania, il 35 dell’India e addirittura il 40 della Cina. In Europa, soltanto Ungheria, Cipro e Malta stanno peggio di noi. Fa meglio il Messico e la Turchia sta per raggiungerci.

 

L’attenzione all’istruzione scientifica non soltanto è agli ultimi livelli nel mondo: è inferiore persino a quella di un tempo nell’Italia stessa. Vent’anni fa infatti stavamo all’incirca come oggi, intorno al 20 per cento. Ma nel 1930 eravamo al 28,2, nel 1950 al 31, nel 1960 al 28,5. Anche così si capisce come e da chi sia stato creato il miracolo economico. C’è di più. Sembra incredibile, ma le cose andavano meglio addirittura agli albori della rivoluzione industriale italiana. Nel decennio 1881-1890 infatti gli studenti di materie scientifiche erano i 32,8 per cento del totale, contro l’attuale 20 per cento prima ricordato.

 

Le conseguenze sono ben illustrate dagli addetti ai lavori. Il rettore della Bocconi ha denunciato che i ricercatori pubblici e privati in Italia sono 150.000, contro i 510.000 della Germania, i 430.000 della Gran Bretagna, i 340.000 della Francia, i 220.000 della Spagna. Il presidente della Assolombarda ha spiegato che il problema non riguarda soltanto il top ma, scendendo a cascata, anche i semplici tecnici: ne mancano a suo parere 100.000, cosicché non sono coperti i profili professionali specialistici indispensabili (come e più dei laureati) al funzionamento delle aziende. Su tutto ciò (purtroppo si tratta di crude e inoppugnabili cifre) il silenzio è assoluto. Il dibattito politico italiano insegue le pagliuzze e non vede la trave. Che in estrema sintesi è presto descritta. Insieme al Giappone e alla Germania, siamo tra i Paesi più vecchi del mondo. E mai si è visto che la vecchiaia sia un motore per lo sviluppo.

 

I giovani, per di più, non soltanto sono pochi: quei pochi sono anche i meno istruiti fra i Paesi moderni. Non si capisce che, se la crescita dell’economia italiana continua ad essere la metà di quella (pur asfittica) europea, qui sta la ragione di fondo? Di fronte a questa vera e propria emergenza nazionale, vogliamo concentrare gli sforzi per lanciare una grande politica demografica e dell’istruzione (oltre che per tentare un’immigrazione selettiva)? Sono temi vitali che non sembrano in cima all’agenda. Anzi. Neppure se ne parla, anche perché l’opinione pubblica neppure viene informata dei dati che li rendono esplosivi.