Sami Naser, 30 anni, siriano, faceva l’infermiere in un ospedale controllato da una milizia salafita: "Sapevo che non avrei potuto farcela, ma restare sarebbe stato un rischio più grosso"
di Alessandra Ziniti, http://www.repubblica.it/
Roma, 04 dicembre 2017 - Un gommone di appena tre metri con un motore da pochi cavalli, due remi, due taniche di gasolio, un pacco di viveri, due bottiglie d’acqua, un telo impermeabile a righe verdi e nere e un uomo solo, un cappellino da baseball in testa, semiassiderato alla barra del timone. Sami si era messo in testa che a Lampedusa poteva arrivarci così. La sua unica chance per sfuggire alla “semi schiavitù” alla quale ormai da tempo era costretto nel paesino a pochi dintorni da Tripoli governato dalle milizie salafite.
“In Libia c’è la caccia ai siriani, sono convinti che siamo pieni di soldi, appena ti trovano ti rapiscono per estorcerti denaro. Non ce la facevo più, con quel poco che mi era rimasto ho comprato questo gommoncino da un amico a Tripoli e sono partito: o vivere o morire”. Nel Mediterraneo un migrante che tentava la traversata in solitaria non si era mai visto. Quando si sono trovati davanti quel piccolo gommone che sembrava quasi un giocattolo e quel giovane uomo con gli occhi sbarrati incapace persino di chiedere aiuto, i volontari spagnoli della nave Open Arms sono rimasti a bocca aperta. “L’abbiamo trovato in mezzo al mare a 25 miglia dalle coste libiche – racconta il capo operazioni della Ong spagnola Riccardo Gatti – noi stavamo per lasciare l’area di ricerca e soccorso e ripartire per Malta per il cambio equipaggio. Se non fossimo stati lì sarebbe sicuramente morto di freddo e probabilmente anche annegato. Dopo un’ora dal soccorso è iniziato il mare grosso”.
Sami Naser, 30 anni, siriano di Damasco, in quel paesino alle porte di Tripoli in cui era riparato dopo la fuga dalle bombe del suo paese, faceva l’infermiere in un ospedale controllato da una milizia salafita. Ormai da mesi viveva con l’incubo di essere rapito, gettato in un carcere e torturato. “Per i siriani la Libia è ormai troppo pericolosa – ha detto con un filo di voce ai volontari spagnoli che gli sono apparsi come un miraggio salvandogli la vita – io ho vissuto per mesi in semi schiavitù, costretto a cedere quasi tutti i soldi che avrei dovuto guadagnare con il mio lavoro di infermiere in quel piccolo ospedale. Alla fine non ce l’ho fatta più e ho deciso di partire. Non mi fidavo di affidarmi ai trafficanti, avevo terrore di finire nelle loro mani. Se dovevo morire preferivo andare incontro alla fine da solo”.
E così ha fatto. Da solo Sami ha comprato il piccolissimo gommone da un amico, da solo lo ha caricato dell’indispensabile per affrontare il mare, da solo è partito una notte della scorsa settimana con una piccola bussola che indicava la direzione di Lampedusa e, naturalmente, con la speranza di trovare sul suo cammino qualcuno che lo potesse salvare senza riportarlo indietro.
“Sapevo bene che a Lampedusa con questo canotto non sarei mai potuto arrivare e dunque qualcuno mi soccorreva o sarei morto – ha confessato in lacrime ai soccorritori – ma restare in Libia sarebbe stato un rischio più grosso”. In mare su quel gommone di tre metri è rimasto almeno due giorni e due notti a giudicare dalle condizioni in cui è stato trovato, semiassiderato e sotto shock dai medici del team spagnolo. Appena a bordo della Open Arms è crollato, si è rifocillato, ha fatto una doccia calda e ha dormito 12 ore di fila prima di salire a bordo di una motovedetta della Guardia costiera che lo ha portato a Lampedusa. Il migrante solitario ha vinto la sua scommessa con il destino.