Antonio FOCCILLO: comunicato Stampa del 15/02/2015
Il Lavoro non è una merce da comprare
Il Lavoro non è una merce da comprare
15/02/2015  | Sindacato.  

 

di Antonio Foccillo

 

Un fatto ha sconvolto l’opinione pubblica occidentale: l’attacco terroristico alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo, avvenuto il 7 gennaio 2015 a Parigi. Nell’attentato sono state uccise dodici persone e undici sono rimaste ferite.

 

L’unanime condanna di questo assassinio è stata subito veicolata da televisioni, giornali, e vari social. Si sono subito avviate riflessioni e dibattiti in cui tutti hanno condannato giustamente la violenza. A Parigi hanno partecipato quasi tutti i leader del mondo per esternare non solo una unanime condanna al terrorismo jihadista ma anche la loro solidarietà al popolo francese espressa anche in molti altri paesi con manifestazioni pubbliche. Le forze dell’ordine e dell’intelligence dei paesi europei sono in stato di massima all’erta per contrastate e prevenire gli attentati che questo settarismo religioso ha programmato persino in Australia.

 

Vorrei che tutti riflettessimo su un dato: questo estremismo religioso non si ferma con il “bonismo”, con la tolleranza o l’integrazione, infatti, proprio la Francia, che è un esempio di integrazione e tolleranza verso i vari popoli, è stata attaccata. Per riflettere e decidere il da farsi, vorrei ricordare un altro episodio. Il 12 gennaio a Mosul sono stati uccisi 13 bambini a colpi di mitraglietta dai terroristi Isis, dopo un sommario processo li hanno messi in circolo e li hanno fucilati. La loro colpa era di guardare una partita di calcio, cosa che fanno normalmente milioni di bambini in tutto il mondo, e questo avrebbe violato i principi della sharia.

 

Nessun fondamentalismo religioso così violento e così repressivo può essere accettato e non vi può essere nessuna tolleranza. Questi atti vanno considerati terroristici anche quando avvengono all’interno dei Paesi musulmani e colpiscono mussulmani siano essi sciiti o sunniti. Non è scontro fra civiltà come qualcuno sostiene. E’ solo terrorismo ideologico e fanatico che va combattuto come qualsiasi altro terrorismo. Venendo alle nostre cose quotidiane è in atto un intenso dibattito sulle tematiche del lavoro e sui relativi provvedimenti del governo. Voglio solo fare delle considerazioni che possono sembrare “conservatrici”, ma che, a parer mio, sono sempre attuali. L’articolo 36 Cost. statuisce che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” e quindi per essere tale non può essere sempre e soltanto subordinata alla logica economica, che consente alla maggioranza dei lavoratori solo un minimo per la sopravvivenza che umilia le persone.

 

Un’economia basata sulla considerazione che il lavoro non è una merce da comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere sociale molto impegnative. In periodi di difficoltà economica la parola d’ordine è sempre stata la riduzione del costo del lavoro, ignorando la scarsa capacità imprenditoriale, le diseconomie molto forti, la corruzione che significava costi più elevati in quanto genera anche un aggravio per il sistema delle imprese. Inoltre l’elevato costo del lavoro è anche il risultato del drenaggio di risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente piuttosto che un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, che sono stati – secondo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il profitto di pochi. In definitiva il lavoro è stato sacrificato in favore di altri tipi di interesse. Da questo punto di vista, non si tratta di immaginare il mutamento tramite una rottura violenta dell’ordine costituzionale, ma piuttosto avviando una trasformazione della sensibilità politica, in grado di estendere per esempio il terreno di applicazione dei diritti.

 

Utilizzare la politica per negare diritti che – oggi – vengono percepiti come vitali, giusti e indispensabili, può apparire forse ragionevole da un certo punto di vista, ma piuttosto debole dal punto di vista politico, perché una norma priva di un sostegno, in senso lato, ‘politico’, difficilmente può resistere senza trasformarsi nell’oggetto di un’insofferenza diffusa e senza essere percepita come una ‘ingiusta’ violazione di diritti fondati. In altri termini, per quanto si possa ritenere doveroso che i principi fondamentali delle costituzioni vengano preservati e rispettati, non si può affatto escludere che quei principi vengano addirittura modificati, senza che – in via ipotetica – non vi sia una transizione verso un regime non democratico. E, soprattutto, non si può ipotizzare che quei principi – per quanto effettivamente ‘al di sopra’ del conflitto politico – possano completamente sottrarsi a un radicale mutamento politico, a una modificazione netta delle relazioni di potere e del contesto sociale.

 

La naturale reazione a queste vicende rischia innanzitutto, per estrema semplificazione, di assimilare il malcostume politico all’essenza stessa della democrazia, e l’insofferenza verso le autonomie, causata dagli effetti derivanti dall’assenza di controlli sulla gestione di fondi pubblici e ad una indifferenza preoccupante verso i partiti accredita l’idea che solo la gestione centralistica possa assicurare la virtuosità. I partiti, seppure in crisi di legittimità, sono strumenti indispensabili per la partecipazione dei cittadini allo svolgimento della vita politica. L’articolo 49 della Costituzione Repubblicana dispone che: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

 

Certo è che i Partiti nel corso dei decenni hanno cessato di essere strumenti nelle mani dei cittadini organizzati per divenire sempre più centri di interesse, ancorché legittimi, e luoghi di gestione del potere reale totalmente avulsi dalle dinamiche e dalle logiche democratiche. In tal modo i Partiti Politici non hanno più rappresentato i luoghi di partecipazione diretta e di esercizio della democrazia perché sono stati percepiti come forze di occupazione dei luoghi del decidere, infezioni degli spazi democratici.

 

Oggi purtroppo, nella maggioranza dei paesi della democrazia liberale, il sistema di rappresentanza sta attraversando una crisi di legittimità, che si esprime nell’astensione elettorale, nell’apatia e nella non partecipazione politico-sociale e nei bassi indici di adesione ai partiti.

 

Le cause variano tra i diversi paesi, ma in generale si può affermare che i principali risiedono:

 

- nella mancanza di controllo degli elettori e/o del partito sugli eletti;

 

- nei sistemi elettorali che distorcono la rappresentanza, frodando la volontà popolare, attraverso dei meccanismi e/o sbarramenti che ostacolano i partiti minori;

 

- nei cambi di schieramento senza perdita di mandato.

 

Ma la causa principale sta nella progressiva privatizzazione della politica messa in atto dai poteri finanziari internazionali.

 

Di fronte al tentativo in atto di privatizzare e comprimere i soggetti della democrazia, bisogna reagire per ricostruirne l’autorevolezza e la legittimazione. Ristabilire le connessioni della società alle istituzioni, in assenza delle quali la convivenza civile viene meno e una comunità politica si sfalda, precipitando nella decivilizzazione. Tutto ciò nonostante le azioni di una parte rilevante del ceto politico italiano giustifichi le ragioni dell’antipolitica e la qualità della rappresentanza sia profondamente degradata e questo processo degenerativo non abbia trovato nelle élites anticorpi adeguati, bensì spesso collusioni interessate. Tutti sintomi che sembrano preparare l’eclissi della democrazia stessa, che prelude non ad un vero e profondo cambiamento, ma a possibili fuoriuscite autoritarie dalla crisi, nuove deleghe in bianco alla tecnocrazia o al populismo.

 

L’alternativa proposta a questa crisi di legittimità, che prescinde dall’analizzarne le ragioni strutturali e le conseguenze pericolose, è ridurre il peso della rappresentanza sostituendo alla politica la tecnica, come se questa fosse neutra e di per sé legittima. Se tutto questo è vero allora il problema, che anche il sindacato deve porsi: è come ripristinare condizioni in cui si riaffermino partecipazione e democrazia, pluralismo e valori, dignità per chi lavora e riscatto dei lavoratori. Il sindacato deve partecipare alla discussione sulla politica e nei partiti. Non si può continuare a stare fuori ed essere agnostici.

 

Troppo tempo si è già perso e non se né può perdere altro. I cittadini, l’hanno dimostrato con l’astensione al voto nelle ultime elezioni, non si sentono più rappresentati né tutelati. Non possiamo lasciare che questo sentimento diventi generalizzato. Il sindacato, com’è sua tradizione, deve contribuire a cambiare questa realtà di inaccettabile regresso civile, sociale e politico, ma lo deve fare presto prima che la situazione peggiori ulteriormente