Antonio FOCCILLO: comunicato Stampa del 15/12/2014
Un nuovo protagonismo
Un nuovo protagonismo
15/12/2014  | Sindacato.  

 

di Antonio Foccillo

 

Lo sciopero del 12 gennaio, indetto da Uil e Cgil, e le relative manifestazioni nelle 54 piazze d’Italia hanno avuto una risposta positiva da parte dei lavoratori sia in ordine alla adesione allo sciopero e sia di presenza che è stata massiccia e colorata da migliaia di bandiere, tanto da poter considerare questa giornata, in un momento di crisi di partecipazione come si è verificato nelle elezioni politiche, un grande successo.

 

I lavoratori, i pensionati ed i giovani presenti in piazza hanno voluto affermare la loro partecipazione emotiva, passionale e militante che da tempo non si vedeva. Sono stati attenti e rispondenti alle sollecitazioni del sindacato e hanno dimostrato di non partecipare ad una liturgia di uno stanco rituale, come avveniva in passato, in qualche occasione, ma di essere consapevoli e convinti di quello che era in gioco. Da tanto non si vedeva una simbiosi così forte fra il gruppo dirigente del sindacato e i milioni di partecipanti. Tutto questo significa che aspettavano questo momento in cui il sindacato si riappropriava finalmente del suo ruolo e delle piazze e lo hanno dimostrato con una forte convinzione. Si respirava un clima nuovo, migliaia e migliaia di cuori battevano all’unisono e si manifestava una convinta adesione e soprattutto la voglia di un nuovo protagonismo per ridare un futuro diverso al Paese e contemporaneamente si riaffermava la volontà di riconquistare dignità e lavoro. E’ stato un monito anche ai detrattori del sindacato che affermano ogni giorno che in crisi di rappresentatività. Ma dalle piazze è venuto anche un segnale di negazioni delle politiche di austerity che penalizzano soprattutto i più deboli della società, i lavoratori, pensionati e giovani di questo paese. Da tutto ciò se ne può derivare una sintesi: basta! Bisogna cambiare registro.

 

Purtroppo, ancora una volta, il movimento sindacale, è arrivato diviso a questo appuntamento. Ma è colpa di chi si è tirato indietro ed ha perso un’occasione per riunificare il movimento sindacale. Comunque il gruppo dirigente del sindacato, da oggi, ha l’obbligo di rappresentare tutto il sindacato e ritrovare il gusto dello stare insieme.

 

Questa convinta adesione alle parole d’ordine del sindacato gli consegna anche una enorme responsabilità: quella di evitare di disperdere questa nuova tensione e battersi con continuità per cambiare le cose. Come si fa per cambiare realmente le cose?

 

La prima iniziativa forte che il sindacato deve svolgere è in Europa. Va cambiata la politica economica dell’Europa in quanto ha prodotto solo distruzione di ricchezza, impoverimento, attacco al mondo del lavoro, tensioni sociali, crisi del debito, rischio di implosione dello spazio europeo, e sull’altare dell’emergenza si sta rischiando di immolare la stessa democrazia europea, dove la chiusura dello spazio per una vera democrazia compiuta con la costituzionalizzazione dell’austerità, blocca qualunque proposizione di modelli economici, sociali e politici alternativi. Così tutti noi siamo diventati spettatori inermi di una rivoluzione dall’alto che, facendo svanire concretamente la sovranità del popolo, ha innestato la crisi della democrazia che stiamo vivendo. Una rivoluzione che è stata prodotta dall’irruzione sulla scena sociale e politica dei mercati, che ha portato con sé la dottrina finanziaria, in cui la moralità della condotta sociale viene dettata dal responso della Borsa e dagli interessati segnali delle agenzie di rating e dei grandi investitori. Questa dottrina ha messo da parte il fine dell’agire politico cioè la giustizia sociale, sostituita da una sorta di armistizio con la speculazione della finanza alla quale viene trasferita, attraverso i mercati, la ricchezza sociale dei popoli e quella personale dei cittadini.

 

Siamo giunti alla costituzionalizzazione di una dottrina economica di parte i cui fondamenti sono il pareggio di bilancio, l’esclusione dello Stato dall’economia, l’idea mistica delle privatizzazioni e l’assoluto divieto di ricorrere al debito come strumento di sviluppo.

 

Tutto ciò sfacciatamente ignorando che la democrazia è basata sulla normalizzazione del conflitto fra le parti e sull’apertura alla cittadinanza del dibattito circa il percorso da intraprendere.

 

La messa in moto di tali processi e strumenti di coercizione decisionale indebolisce anche i sindacati, rimasti a lottare su scala nazionale contro sempre più stringenti e inappellabili “raccomandazioni” europee che vedono nell’abbassamento dei salari e nella precarizzazione dell’occupazione l’unico metodo per recuperare competitività; che rendono fatue le lotte dei movimenti per i beni comuni, costringendo gli Stati a svendere infrastrutture e servizi pur di abbattere il debito e garantire la libera concorrenza secondo le logiche vigenti del mercato unico. Le rivendicazioni di quanti chiedono un maggiore investimento nell’istruzione, nelle politiche sociali, nella conversione industriale e nella salvaguardia del territorio sono vanificate dalla stringente logica dell’austerity. Infine lega le mani ai partiti e alle loro politiche, ma soprattutto priva la cittadinanza della possibilità di definire il proprio futuro collettivo giudicando autonomamente fra diverse rappresentazioni della realtà e diverse risposte politiche alla crisi.

 

Per questo la battaglia da farsi è quella di un’Europa politica perché solo nella costruzione di un vero processo costituente europeo guidato dal basso e capace di accettare cessioni della sovranità nazionale e di utilizzare questo processo per restituire ai cittadini la possibilità di decidere il proprio futuro. In un’Europa che si vorrebbe democratica le difficoltà e l’emarginazione operate nei confronti delle giovani generazioni, impossibilitate peraltro a far sentire la loro voce dissenziente, genera fenomeni di devianza e a volte di violenza. E’ la reazione scomposta ed inefficace alla violenza di taluni governi, è una reazione alla mancanza di libertà cui peraltro questa democrazia li costringe perché non ha il coraggio di ammettere l’espressione di tutte le tendenze politico sociali se non attraverso le gabbie delle sua sperimentata burocrazia politica.

 

Imprese, lavoratori, pensionati e i giovani, costretti ad una precarietà sempre più forte, sono chiamati a rimpinguare la greppia a cui attingono a piene mani i colossi organizzativi e propagandistici, grandi e piccoli speculatori, banche, assicurazioni e tutti coloro che sono stati ammessi nell’area del potere. Così crescono di pari passo corruzione e clientele e l’economia accentua la sua crisi cominciando a lambire anche le economie cosiddette “virtuose”.

 

Questa non è, non può essere, la via dell’Europa.

 

La seconda iniziativa deve essere rivolta a cambiare le cose in Italia. In un Paese in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili” e dunque vige la legge del più forte o, a seconda, del più preminente, del più affluente, del più ammanicato, vi è ancora la possibilità di garantire a tutti gli stessi diritti? In questi anni abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte in materia di diritti, una distanza grandissima tra ceto politico e società. Negli Anni Settanta ci fu una grande affermazione dei diritti civili, oggi siamo in un’altra dimensione. Allora la legislazione italiana su alcuni punti era la più avanzata d’Europa. Ora siamo non solo fanalino di coda, ma lontani culturalmente.

 

La fine delle ideologie ha portato solo alla prevalenza assoluta del mercato e di fronte a questo mondo ‘a una sola dimensione’ il contrappeso è unicamente quello che viene dalla forza dei diritti che non possono essere sacrificati senza avere ricadute sul terreno economico. Non si possono scindere diritti e governo dell’economia. Così alcuni diritti non ci sono riconosciuti nella loro pienezza perché appartenenti a ognuno, ma sono accessibili soltanto a chi ha le risorse per poterli far diventare effettivi. Si romperebbe lo schema indicato dal principio di uguaglianza. I miei diritti saranno misurati non dal riconoscimento della mia dignità, del mio essere persona uguale a tutte le altre, ma in base alle mie risorse. Se torniamo a misurare i diritti non sulla libertà e sull’uguaglianza, ma con il censo e in base al denaro, noi torniamo alla democrazia censitaria e, così facendo, andremmo anche contro una tendenza globale. I diritti, anche in presenza di crisi economiche, non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni sociali molto pericolose.

 

La Costituzione è stata modificata anche sotto altri aspetti come quello della sicurezza e dignità della persona sul lavoro e quello della realtà dei partiti che da strumento nelle mani dei cittadini sono diventati strumento di potere delle oligarchie interpretando a piacimento l’articolo 49 Cost. dove era scritta un’idea di partito che, in questi anni, è stata completamente stravolta. Parlando di lavoro, l’articolo 36, dice che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” e quindi per essere tale non può essere sempre e soltanto subordinata alla logica economica, che afferma solo un minimo per la sopravvivenza che umilia le persone.

 

Inoltre, oggi, purtroppo, nella maggioranza dei paesi della democrazia liberale, il sistema di rappresentanza sta attraversando una crisi di legittimità, che si esprime nell’astensione elettorale, nell’apatia e nella non partecipazione politico-sociale e nei bassi indici di adesione ai partiti. Di fronte al tentativo in atto di privatizzare e comprimere i soggetti della democrazia, bisogna reagire per ricostruirne l’autorevolezza e la legittimazione. Ristabilire le connessioni della società alle istituzioni, in assenza delle quali la convivenza civile viene meno e una comunità politica si sfalda, precipitando nella de-civilizzazione. Tutto ciò nonostante le azioni di una parte rilevante del ceto politico italiano giustifichi le ragioni dell’antipolitica e la qualità della rappresentanza sia profondamente degradata e questo processo degenerativo non abbia trovato nelle élites anticorpi adeguati, bensì spesso collusioni interessate. Tutti sintomi che sembrano preparare l’eclissi della democrazia stessa, che prelude non un ad un vero e profondo cambiamento, ma a possibili fuoriuscite autoritarie dalla crisi, nuove deleghe in bianco alla tecnocrazia o al populismo.

 

Dobbiamo riaffermare, di fronte a ciò, il ruolo della partecipazione democratica per una società più giusta e più equa e ridare il vero valore al lavoro. Un’economia basata sulla considerazione che il lavoro non è una merce da comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere generale molto impegnative. In periodi di difficoltà economica la parola d’ordine è sempre stata la riduzione del costo del lavoro, ignorando la scarsa capacità imprenditoriale, le diseconomie molto forti, la corruzione che significava costi più elevati in quanto costituiva un aggravio per il sistema delle imprese. Inoltre l’elevato costo del lavoro è anche il risultato del drenaggio di risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente piuttosto che un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, che sono stati una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il profitto di pochi. In definitiva il lavoro è stato sacrificato a favore di altri tipi di interesse.

 

Il sindacato si deve battere, questo è il senso anche delle manifestazioni di piazza del 12 dicembre, per riconquistare in politica etica e valori e riscattare il lavoro. Ma soprattutto il sindacato deve affermare il diritto al dialogo, fermo restando le prerogative delle varie parti che si confrontano. Noi vogliamo discutere per chiarire e quindi proporre soluzioni che laicamente riteniamo sempre perfettibili ed opinabili. Questo è il senso dello sciopero del 12 e se non si vuole accettare questa impostazione del confronto le proteste continueranno. Se ne faccia una ragione il Premier Renzi.