Antonio FOCCILLO: comunicato Stampa del 22/11/2018
Uscire dall’oscurantismo dell’austerity e rilanciare lo sviluppo
Uscire dall’oscurantismo dell’austerity e rilanciare lo sviluppo
22/11/2018  | Pubblico_Impiego.  

 

di Antonio Foccillo

 

Recentemente l’Ocse, nel documento Economic Outlook 2018, ha analizzato la situazione dell’economia italiana ed ha rilevato che la ripresa “ha perso slancio”, quindi “i consumi privati si ridurranno, dal momento che la minore crescita dell’occupazione e il rialzo dell’inflazione ridurrebbero i guadagni in termini di reddito disponibile e controbilancerebbero gli effetti positivi delle politiche espansive”. Pertanto “gli investimenti delle imprese” rallenteranno giacché si indeboliscono sia la domanda interna che quella estera.

 

Sembra un documento sindacale, anche se bisogna dire che molti organismi internazionali, FMI, Banca Mondiale e Ue, hanno contribuito a questa situazione.

 

L’Istat, a sua volta ha rivisto al ribasso la previsione per il Pil nel 2018 e ha sostenuto: “In uno scenario di progressivo rallentamento dell’attività economica, nel terzo trimestre 2018 il Pil italiano ha registrato, dopo tre anni di espansione, una crescita congiunturale nulla, che ha riflesso prevalentemente la fase di contrazione dell’attività industriale”. La spesa delle famiglie e delle istituzioni sociali in termini reali è stimata in un deciso rallentamento rispetto agli anni precedenti. Ha previsto, inoltre, una forte decelerazione della spesa delle importazioni di beni e servizi, mentre l’unico dato positivo potrebbe essere un calo della disoccupazione. Infine, stima un calo di fiducia dei consumatori e delle imprese. Come si può facilmente dedurre non sono dati esaltanti. Dati che invocano la fine della contrapposizione nel nostro Paese e la costruzione, tutti insieme, di politiche economiche e fiscali in grado di favorire una nuova fase di crescita.

 

Se allarghiamo un pò il nostro orizzonte si può facilmente vedere che nel corso dei due decenni, nella grande maggioranza dei paesi Ocse, i redditi di poche famiglie sono cresciuti rispetto a quelli delle famiglie povere, portando ad ampliare la disuguaglianza. Gli incrementi di disuguaglianza del reddito familiare sono stati in gran parte determinati dai cambiamenti nella distribuzione dei salari che rappresentano il 75% del reddito familiare di adulti in età lavorativa.

 

La famiglia, in questo frangente, è stata l’unico e più efficace ammortizzatore sociale, anche se questo compito solidaristico è stato coattivamente ridotto dalle ultime manovre di tagli, operate dai Governi, sulla base delle direttive Ue che hanno continuato nell’opera di restrizione e di austerity.

 

Di fronte a questo scenario, bisognerebbe ridiscutere la politica dell’austerity che colpisce direttamente i salariati, i ceti medi ed i più poveri con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione che di conseguenza significa concretamente diminuirne il suo ammontare.

 

Per completare il tutto, in nome di una “presunta” ripresa, si è privatizzato tanto, con una importante soppressione di posti di lavoro (nell’istruzione, nella sanità, ecc.). L’effetto è che, nel contesto della crisi, è solo la finanza a crescere. Grazie alle privatizzazioni il mercato finanziario è esploso in Italia, come in tutta Europa, con tutto ciò che ne consegue in termini di aumento della disoccupazione e impoverimento della popolazione.

 

Da un ventennio in Italia, questa politica di privatizzazione ha portato alla perdita di moltissime aziende anche strategiche, che sono finite in mano ai capitali stranieri, e così facendo hanno privato il nostro Paese delle proprie ricchezze. Sulla base anche dell’emergenza economica in Italia, si è riversato sui cittadini una bordata di tasse che ha prodotto un aumento esponenziale delle stesse, anche per l’aggiunta a quelle nazionali di quelle locali. Inoltre, dobbiamo fronteggiare la spesa per interessi più alta in Europa, nonostante il saldo primario dell’Italia continui ad essere sempre tra i più alti in Europa.

 

Sembra che a nessuno importi che queste politiche hanno già prodotto: la discesa negativa del PIL; una disoccupazione che ha raggiunto cifre pazzesche (più della metà di questi disoccupati sta nella fascia dei giovani che hanno meno di 35 anni e 1/3 ha meno di 25 anni); un calo sensibile del potere d’acquisto delle famiglie, tanto da far precipitare i consumi; una riduzione delle retribuzioni tale da esser collocati all’ultimo posto in Europa. Senza dimenticare che si è ridotto sensibilmente il grado di copertura delle protezioni sociali. Le privatizzazioni nel pubblico impiego, dei servizi pubblici, la stessa aziendalizzazione di funzioni tipiche dello Stato Sociale, come l’istruzione, la sanità, ecc., stanno ovunque generando fenomeni di desocializzazione. La crisi dello Stato Sociale rappresenta la crisi generale del compromesso capitale lavoro, attraverso cui l’occidente ha sviluppato un certo rapporto tra momento produttivo e momento sociale. Così, lo Stato, nelle sue diverse forme e articolazioni si è ritirato nel suo perimetro e così facendo ha abbattuto quelle conquiste sociali ottenute attraverso dure lotte del movimento operaio e dei movimenti sociali. Tutto ciò non ha fatto altro che determinare drammatici fenomeni di rottura della fiducia nei confronti dei ceti politici e dello stesso Stato, nonché un profondo scollamento rispetto alle istituzioni.

 

Ma questa politica di austerity è stata fatta propria anche dai governi di centro-sinistra, da alcuni ex leader di quel che resta del socialismo riformista, i quali hanno assunto il capitalismo come ultima possibilità di governo dell’umanità, in modo, come lucidamente suggerisce Milan Kundera, “da poter ricevere un pò d’avvenire in cambio del loro passato”.

 

E la crisi economica è stata scaricata tutta sulle spalle dei lavoratori, della gente comune, perché dall’altra parte si sono registrati incrementi dell’accumulazione complessiva di capitale mai visti prima.

 

Le disuguaglianze di reddito e di condizioni di vita nei diversi paesi, anche quelli a capitalismo avanzato, si sono accentuate e la vera globalizzazione degli anni ‘90 è stata quella delle operazioni monetarie e finanziarie, non certo quella degli scambi di beni e della libera circolazione delle persone, che sono servite solo ad assicurare ai grandi gruppi industriali, oltre che una maggiore scelta nella diversificazione della tecnologia e degli impianti, anche una differenziazione dell’offerta e della clientela. La stessa integrazione tra i paesi dell’Unione Europea ha evidenziato le differenze in merito alle prestazioni sociali esistenti tra i vari Stati membri, dimostrando ancora più chiaramente che l’Europa monetaria e gli obiettivi del trattato di Maastricht, raggiunti con enormi difficoltà, rinvii ed ostacoli vari, non hanno tenuto in alcun conto gli aspetti sociali ed occupazionali.

 

Per “entrare” e restare nell’Europa economica e monetaria il prezzo pagato e ancora da pagare è stato ed è comunque troppo alto: aumento dei ritmi di lavoro, tagli ai salari reali, disoccupazione, lavoro precario, sottopagato, senza diritti, tagli allo stato sociale, aumento della povertà, emarginazione e peggioramento delle condizioni di vita.

 

Per questo, come sindacato, abbiamo sempre sostenuto, anche con questo governo, che bisognava uscire dalla politica di austerity che tanti danni ha fatto in quasi tutti i Paesi. Purtroppo l’ottusità e la tracotanza di alcuni burocrati europei continuano a sostenere queste politiche invece di pensare ad un’inversione di tendenza per favorire sviluppo, occupazione, costruzione di ricchezza e poi distribuzione della stessa. Inoltre si continua a minacciare chi non rispetta i parametri, come se fossero i dieci comandamenti di Mosè, e non ci si rende conto che questi populismi e revanscismi di destra, che vorrebbero combattere, sono figli proprio di quella politica che non dà speranza.

 

La crescita economica, secondo i sostenitori dell’austerità, sarebbe trainata da politiche favorevoli alla ‘libertà d’impresa’, cioè politiche che annullano i vincoli relativi ai diritti dei lavoratori, alla tutela dell’ambiente, agli oneri burocratici, alla tassazione. Le politiche di austerità, invece, sono, al tempo stesso, dannose e producono impoverimento dell’intero sistema. Sono dannose, in primo luogo, perché la contrazione della spesa pubblica, riducendo la domanda aggregata, riduce l’occupazione; e, a sua volta, la riduzione dell’occupazione, in quanto riduce il potere contrattuale dei lavoratori, riduce i salari e, dunque, i consumi. In secondo luogo, in assenza di iniezioni esterne di liquidità, politiche di bassi salari e alta disoccupazione su scala globale restringono i mercati di sbocco per la produzione, riducendo – per le imprese nel loro complesso - i margini di profitto e gli investimenti. Quindi le politiche di ‘austerità’ accentuano la crisi perché contribuiscono ad accelerare la caduta della domanda aggregata.

 

Se, come la visione dominante sostiene, la riduzione della spesa pubblica è funzionale alla riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, e dunque a scongiurare attacchi speculativi, va rilevato che, per contro, il calo dell’occupazione riduce la produzione e, dunque, il PIL; la riduzione dei redditi riduce la base imponibile e può accrescere il debito pubblico. In altri termini, le politiche di austerità rischiano di generare gli effetti che si propongono di contrastare, aumentando l’indebitamento pubblico in rapporto al PIL, per effetto della contrazione del tasso di crescita.

 

Un dato a riguardo è particolarmente significativo: la crescita economica è stata sensibilmente più elevata nel periodo del cosiddetto consenso keynesiano e con elevata conflittualità sociale rispetto al ventennio successivo.

 

Nel nostro Paese, i recenti dati della Banca d’Italia rilevano che, nonostante le tante manovre economiche di tagli che si sono susseguite fino ad oggi, il debito non scende. Nello stesso tempo, il fabbisogno della P.A. continua ad aumentare, nonostante il blocco delle assunzioni, la diminuzione dei dipendenti e l’invarianza del salario individuale dei pubblici dipendenti rimasto congelato agli importi del 2010 per il blocco dei contratti collettivi, nazionali e aziendali dal 2009, fino a quest’anno quando si sono rinnovati.

 

Il nuovo record del debito pubblico italiano è la conferma che la politica di restrizione e di austerity ha fatto precipitare il nostro Paese in una spirale rischiosa. Se si vuole uscire da questa situazione in cui aumenta la povertà, occorrono nuove forme di politica democratica che riscrivano le regole per combattere la bibbia del neo liberismo e della politica monetarista. Bisogna, quindi, invertire le scelte di politica economica: abbandonare le politiche di austerity e puntare sulla crescita e lo sviluppo.

 

È, questo, l’unico modo per rilanciare l’economia e abbattere il debito.

 

Per questo il sindacato confederale ha proposto una sua piattaforma che inverte la tendenza e che propone una serie di misure per lo sviluppo, per la crescita e per l’occupazione e la salvaguardia dei diritti tutelati dalla Costituzione, attraverso lo Stato sociale. Dietro quella piattaforma ci sono i valori della solidarietà e della coesione che permettono alle persone di sentirsi a pieno titolo cittadini della comunità.

 

Voglio anche ricordare a chi continua a marginalizzare le rappresentanze sociali che il sindacato unitariamente rappresenta più di 11 milioni di persone, che non sono solo lavoratori ma anche cittadini e, per questo pretende di essere ascoltato.

 

Non si può pensare che il Paese dividendosi con l’autonomia differenziata esca dal limbo. Si esce tutti insieme e il Mezzogiorno, non può essere considerato solo un simulacro di assistenzialismo. Ha grosse potenzialità, eccellenze produttive e chiede lavoro e investimenti nelle infrastrutture materiali e immateriali, per poter competere e per avere pari opportunità. Se lo si fa, può essere un’opportunità importante per questo cambio di scenario economico. Basta con le divisioni e basta con l’idea che il Paese debba uscire dal circuito delle grandi opere perchè cosi lo si impoverisce ancora di più.

 

Dobbiamo recuperare le politiche che in passato hanno permesso una eccezionale crescita delle economie occidentali e del nostro Paese. Una crescita che è stata frutto di politiche tariffarie sistematiche di costruzione e ricostruzione dell’apparato produttivo, di difesa delle attività nazionali e di protezione sociale, di finanziamento del deficit di bilancio con ricorsi all’emissione della moneta. Purtroppo una politica economica miope sta conducendo, in tutti questi anni e con governi di tutti i colori, una vera e propria aggressione ai lavoratori italiani, al ceto medio e al mezzogiorno.

 

Per questo il sindacato ha diritto di portare le sue tesi, avendole discusse, democraticamente, in moltissimi attivi unitari e nei luoghi di lavoro, con la consapevolezza di fare un servizio al Paese e sapendo che le sue proposte devono essere valutate anche da chi governa. Infine, le forze sociali ed economiche e produttive dovrebbero fare fronte comune, con un’alleanza forte, per l’obiettivo comune del rilancio e dello sviluppo.

 

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1) Si può rilevare che la riduzione del reddito disponibile, nella congiuntura attuale, interessa principalmente i lavoratori dipendenti. Si tratta di individui che, di norma, non possono ricorrere all’evasione fiscale, così che il calo della base imponibile deriva direttamente dalla riduzione dei salari, per date aliquote d’imposta.