LECTIO MAGISTRALIS  - Antonio FOCCILLO
Il Lavoro bene comune
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06/12/2018  Pubblico_Impiego.  

 

Lectio Magistralis*

Prof. Antonio Foccillo

Il Lavoro bene comune

“I Giovani, la Scuola, il Lavoro, quale futuro?”

Rieti 6/12/2018

 

Questi tre giorni all’insegna dell’educazione alla cittadinanza delle nuove generazioni rappresentano un momento prezioso di discussione e riflessione, che coglie le lacune più profonde di una società odierna che soffre sempre più quello che sarebbe il fisiologico scambio infragenerazionale. Una sofferenza che si traduce in un ancora più dannoso conflitto generazionale. Del resto si tratta, purtroppo, solo di uno dei tanti conflitti che pervadono una società tesa all’individualismo estremo.

 

Ecco perché è prezioso parlare di cittadinanza, e aggiungo, cittadinanza “attiva”, “consapevole”, perché uno dei tanti mali che le politiche neoliberiste sfrenate hanno calato nel nostro contesto sociale è stata l’induzione all’apatia delle coscienze. Null’altro, insomma, che il risultato dell’abbandono dell’ideale di comunità, a favore dei mantra della competizione e dell’uomo solo al comando. I tempi che viviamo hanno smarrito gli stessi capi saldi della nostra Carta Costituzionale: solidarietà, coesione, laicità. Principi che mano a mano ritengo non sono più stati sufficientemente spiegati e raccontati ai giovani, lasciandoli navigare in un mare magnum di informazioni veicolate da un pensiero unico che ha ambito sempre più ad allontanare le persone, a lasciarle chiudere in sé stesse, a non credere più nel valore dello stare insieme, convinti di esser autonomi con un device qualsiasi tra le mani. Il rischio che si corre è che dal considerarsi autonomi si passi, nei fatti, ad esser tutti automi. Forse, potrebbe sembrare una definizione azzardata ma invito a riflettere sul fatto che l’immensa quantità di informazioni che ogni minuto ci vengono fornite sui nostri cellulari, il più delle volte sono sommarie, erronee e soprattutto veicolate.

 

Il rapporto con l’informazione si sta riducendo allo scorrere il dito su uno schermo, senza nemmeno fermarsi a leggere oltre un semplice titolo, di solito sensazionalistico per attirare like.

 

Questa quantità di sapere così facilmente accessibile, cosa inimmaginabile fino a pochi anni fa, più che creare crescita suscita regresso nelle menti e nelle capacità. In primo luogo, perché la forma di espressione di chi legge si circostanzia - non potendo 280 caratteri permettere chi sa quali dissertazioni - al solo consenso o dissenso con un like o dislike. I social sono diventati le nuove arene in cui il popolo assiste ai giochi gladiatori e giudica con un pollice.

 

Un individualismo indotto da una corrente macroeconomica che per raggiungere i suoi obiettivi ha, goccia a goccia, corroso le fondamenta di tutto ciò che veramente è socialità, tutto ciò che è rapporto con l’altro al netto di intermediazioni tecnologiche di qualsiasi natura.

 

I giovani, in particolar modo, non si trovano più a proprio agio in un confronto, perché hanno perso l’abitudine al dialogo e questo non ha fatto altro che far avanzare in loro diffidenza, paura nei confronti dell’altro, sempre più spesso, e per i più disparati motivi, classificato come diverso.

 

Così si sta creando una società di diversi, il ché, paradossalmente, sarebbe l’ottimo da raggiungere in una società accogliente e plurale, ma che in questo contesto, invece, isola tutti gli individui indebolendoli.

 

Così quelle politiche hanno fatto breccia negli Stati, minando passo dopo passo tutte le conquiste del dopoguerra raggiunte nel mondo del lavoro, dei diritti civili e della sicurezza sociale.

 

La funzione dello Stato è arretrata e così inevitabilmente il benessere dei suoi consociati, che non trovando più risposta nelle articolazioni della cosa pubblica ne hanno perso la fiducia e la voglia di riconoscersi in qualcosa di più grande.

 

Probabilmente penserete che, con questa digressione, stia navigando in mare aperto senza approdare al punto della questione ma ci sto arrivando, perché proprio da qui, cioè dalla delimitazione del perimetro dello Stato, è scaturito lo sciagurato momento del mercato del lavoro odierno.

 

Si perché in questa divisione si sono insediate le trame delle politiche monetarie del mercato finanziario, che in barba alla spesa per beni e servizi, hanno drenato sempre più risorse dallo stato sociale per approvvigionarsene nei mercati finanziari. Gradualmente il pubblico è indietreggiato di fronte alle regole di un mercato immateriale cieco all’economia reale che vivono le persone comuni.

 

Un esempio su tutti: il Fiscal Compact e la sua cristallizzazione in Costituzione all’art. 81.

 

Se lo Stato, in sostanza, ha perso la sua funzione di garante dei suoi consociati, è inutile domandarsi perché le persone hanno perso fiducia nelle sue istituzioni.

 

I continui tagli lineari alle strutture, al personale, alle risorse delle amministrazioni pubbliche hanno reso sempre più complicato fornire beni e servizi equamente sui territori, aumentando così le diseguaglianze già esistenti e creandone di nuove. Come un cane che si morde la coda, ai tagli alla sicurezza sociale, operati per pareggiare i bilanci, è seguito l’aumento della domanda di stato di bisogno, cui gli enti non sono stati più in grado di fronteggiare.

 

Venuta meno la rete di protezione sociale sono entrate in gioco le famiglie, i genitori o i nonni, in una sorta di welfare a conduzione familiare. Non potendo più confidare nello Stato, si è fatto ricorso a chi un reddito stabile ce l’ha. La cosa più allarmante è che la richiesta parte proprio da chi dovrebbe alimentare l’economia del nostro Paese, e vengo a noi, i giovani.

 

Quelle politiche economico finanziarie immateriali, calate dall’alto e non democraticamente delegate, cavalcando l’onda delle degenerazioni della globalizzazione hanno spinto i mercati, quelli veri o meglio quelli che hanno riflesso sulla vita delle persone, a una aggressiva lotta al ribasso.

 

Quella che doveva essere una scalata verso la modernità, si è tradotta in una serie di scivoloni rovinosi nei confronti delle maggiori conquiste sociali nel diritto del lavoro del movimento operaio e non solo.

 

Si è inculcato che la flessibilità fosse la via per brillanti carriere, che le tutele dai licenziamenti fossero inutili costi sulle spalle della collettività, che il mercato libero dai vincoli pubblici garantisse servizi migliori e più vantaggiosi. Queste ricette sono state vincenti? Tutte le rilevazioni sembrano dimostrare il contrario. Queste linee hanno scatenato fenomeni di dumping sociale che hanno depotenziato oltre che il diritto anche la contrattazione collettiva.

 

I giovani in questo contesto si sono trovati a dover “ringraziare” per collaborazioni stagionali, se non giornaliere a volte, e ad “accettare” impieghi gratuiti nella speranza di futuri approdi contrattuali.

 

Si sono fatti diventare contratti tipici quelli atipici.

 

Si è creata una incredibile situazione di disagio sociale di un’intera generazione che, il più delle volte, non è compresa o rimane sotto silenzio.

 

Un disagio coltivato solo ed esclusivamente da chi lo vive, isolato in quella condizione di cui parlavo prima, non essendovi più la forza della comunione di intenti per risolvere una difficoltà. Si è soli, e in questa cornice fanno buon gioco quelle lobby che hanno il solo interesse del profitto. Proprio per questi motivi, i corpi sociali sono stati continuamente attaccati, prima i partiti poi le organizzazioni sindacali.

 

L’obiettivo che dobbiamo porci, infatti, è quello di “rieducare” e “riabituare” i giovani a stare insieme, a farsi forza l’un l’altro e non a prevalere sull’altro, a camminare fianco a fianco e non a sgomitare. La forza della comunità sta nella pluralità e nella convergenza degli interessi che insieme riescono a imporsi.

 

L’interesse individuale da solo è debole e costringe ad accettare qualsiasi condizione, anche quella di lavorare gratis. La sfiducia e l’apatia non sono utili ed abili a risollevare una situazione di difficoltà, nella loro natura, infatti, vi è l’abbandono alla contingenza.

 

Con questo, però, non voglio assolutamente provocare il conflitto tra generazioni, anzi, tutt’altro, vi deve esser sì uno scambio ma che sia di idee. Solo nel confronto con chi ha più esperienza vi è crescita e solo nell’ascolto delle preoccupazioni e delle esigenze di chi ne ha meno si ha comprensione dei problemi della società. Ed è così che si arricchiscono entrambe le parti.

 

Molta della classe dirigente del Paese non è stata in grado di ascoltare i giovani, cosa che, invece, sarebbe stata fondamentale non avendo il più delle volte vissuto sulla propria pelle cosa significasse “precarietà” oppure studiare per anni per poi non sentirsi realizzati nel mondo del lavoro o ancor peggio non riuscire proprio ad entrarci, vedendosi così denigrati i propri studi.

 

Mi riferisco a chi con sufficienza definiva bamboccioni, mammoni e via dicendo i giovani, senza fermarsi a pensare che forse anche, e soprattutto, a causa loro si era creata questa situazione di impasse del fisiologico ricambio generazionale.

 

Per questo, torno a dirlo ancora una volta, è essenziale ripristinare il senso di comunità attraverso una cittadinanza attiva, e con attiva intendo partecipe delle decisioni sociali del Paese.

 

È necessario tornare a sentirsi protagonisti di un qualcosa di molto più grande, della semplice condivisione di un post su facebook. È importante ripristinare i luoghi “fisici” per una vera condivisione delle esperienze e del vissuto.

 

Per farlo bisogna riabituare le persone a confrontarsi e a dialogare non più dietro uno schermo e i primi a dare l’esempio dovrebbero essere gli esponenti della classe politica dirigente.

 

Basta tweet e slogan campanilistici, bisogna tornare ad argomentare e a fermarsi un momento per pensare. I ritmi frenetici, i mille imput della tecnologia tendono a trattenerci dalle riflessioni ma credo che sia quanto mai opportuno che le persone tornino a ragionare qualche tempo sulle notizie senza limitarsi a immagazzinarle passivamente. Perché se così è, nessuno più sarà in grado di farsi una opinione propria ma si lascerà trainare dagli eventi. Alle certezze bisogna contrapporre la cultura e, infatti, in un contesto simile, è strategico il ruolo della Scuola pubblica e pertanto va tutelata con tutte le risorse possibili. Sì perché, dopo anni, dove si è tagliato tutto quello che era possibile della spesa pubblica, non deve assolutamente e categoricamente mettersi la Scuola nel mirino. Qualche tentativo già c’è stato e ha sortito l’effetto di far deviare la mission degli istituti dalla formazione alla gestione di molteplici incombenze burocratiche.

 

Non possono esser di certo le scadenze amministrative a preoccupare una comunità, come definita nell’ultimo rinnovo contrattuale, “educante”, che tutt’al contrario deve avere la sola missione istituzionale di formare la nuova cittadinanza del Paese. Soprattutto in determinate aree geografiche non sono possibili deviazioni, perché il ruolo del corpo docente, in alcuni casi, assume una funzione decisiva per le scelte di vita di alcuni studenti.

 

La Scuola crea coscienze civili e, il più delle volte, costituisce l’unico momento di socialità e condivisione per i ragazzi, rimasti privi di spazi comuni in cui incontrarsi oppure perché più attratti dai luoghi virtuali. Per questi motivi, l’autonomia scolastica va salvaguardata come necessaria garanzia di qualsiasi stato civile e democratico.

 

Chi non ha ricordo di qualche proprio maestro o professore che in qualche modo ci ha indicato la via o saputo instradarci verso le nostre attitudini e aspirazioni? Eppure la società che viviamo non esita a puntare il dito anche contro i docenti, sminuendone la funzione sociale che ricoprono.

 

Non è concepibile, perché, nonostante le difficoltà di accesso al mondo del lavoro, l’istruzione, a tutti i livelli, rimane comunque il volano per il futuro di ognuno.

 

È assurdo, però, che ancora oggi questi due mondi, istruzione e lavoro, sembrino non incrociarsi mai. Qui vi deve essere la ricerca della modernità, nel connettere le esperienze formative alle realtà lavorative dei territori, dando forma a quello che si studia e al contempo agevolando l’ingresso di nuova forza lavoro.

 

Proprio per capire quanto non si tratti in alcun modo di una lotta tra giovani e anziani, voglio parlare di un argomento che tanto risalto mediatico sta avendo ormai da mesi, la c.d. quota cento.

 

Ebbene a volersi introdurre questa misura, come si finanzierà lo spropositato aumento di versamenti dei trattamenti previdenziali senza alimentarli con nuova contribuzione? Forse alcuni dimenticano che siamo in un sistema a scambio intergenerazionale e che par pagare una pensione sono necessari tre lavoratori attivi che versano contributi.

 

Quindi alla volontà di chi giustamente non sostiene più i ritmi di una vita di lavoro deve, per forza di cose, corrispondere la voglia di chi vuole iniziare il suo cammino nel mondo del lavoro. Di certo non credo che ci si potrà riuscire con il precariato o in totale assenza di politiche attive del lavoro che, in alcun modo, possono essere sostituite da misure assistenzialiste che non aiutano a trovare un lavoro e non aiutano il Pil del Paese.

 

La tesi che ho affrontato nel libro Democrazia Economia Sindacato ha tentato di dimostrare che le scelte economiche sono correlate alle azioni politiche e sociali e possono, conseguentemente, incidere sulla qualità della democrazia.

 

Oggi, infatti, il tutto è condizionato da una visioneneoliberista e da una politica di ‘austerità’, secondo le quali si ritiene che, ferma restando la “flessibilità” del lavoro, l’alto tasso di disoccupazione sia imputabile al modesto tasso di crescita delle economie dei Paesi industrializzati, e che, per far fronte al problema, sia necessario ridurre la spesa pubblica e riformare il “mercato del lavoro”.

 

L’affermazione di questo modello, tuttavia, ha amplificato l’emarginazione e aumentato la povertà. Occorre, pertanto, trovare una formula alternativa affinché si ripristini, non dico un equilibrio ‘perfetto’ ma un ‘giusto’ equilibrio nella società, fra quelli che sono i forti e quelli che sono i più deboli.

 

Al riguardo non sembra superfluo dire che il nostro modello di civiltà - quello dell’Europa occidentale, che ha sempre cercato di tenere insieme la parte più forte con la più debole del Paese, mediante interventi diretti dello Stato attraverso il welfare - è ancora valido. Una caratteristica questa che dobbiamo preservare. La persona con i suoi bisogni e la sua dignità devono continuare ad essere al centro di ogni iniziativa. Proprio per questo vanno studiate linee alternative a questo modello sociale dominante.

 

Questo processo di generale recupero globale dell’economia non sarà facile, né tantomeno rapido, se si continueranno a proporre soluzioni temporanee, incerte e non vincolanti, per combattere la speculazione che avviene sui mercati non regolati.

 

Sarà necessario coinvolgere, anche a livello internazionale, l’intero contesto economico, finanziario e produttivo, a partire dal continente europeo.

 

Occorrerà, inoltre, individuare politiche tali da poter ridare prospettive ai settori produttivi, all’occupazione, all’aumento del potere di acquisto per lavoratori e pensionati e, di conseguenza, tali da rappresentare un volano allo sviluppo.

 

Per fare questo c’è bisogno che tutte le forze politiche, sociali e imprenditoriali ritrovino lo spirito del dialogo e della concertazione per rimettere al centro della discussione il lavoro, ridando valore allo stesso ruolo culturale del lavoratore nella società contemporanea. Dobbiamo tutti insieme essere in grado di fornire una sponda ai tanti malcontenti, incanalandoli su una proposta di nuovo modello economico, per ridare speranze ai lavoratori di un futuro migliore.

 

In Italia, le misure, fin qui adottate dagli ultimi governi, sono state finalizzate essenzialmente al consolidamento fiscale, imponendo sacrifici però disuguali perché gravati in larga parte su pensionandi, pensionati e lavoratori.

 

Uno dei settori più aggrediti è stato quello del Welfare; senza tener conto che il benessere di questo Paese si è costruito anche attraverso i servizi pubblici che hanno consentito a tutti i cittadini di fruire dei loro diritti a prescindere dal ceto, dal luogo di nascita e della capacità economica.

 

Se questo Paese ha raggiunto un tale livello di civiltà e democrazia è anche grazie ai servizi resi dalla Pubblica amministrazione e a chi vi opera tutti i giorni, con grande sacrificio e senza grandi soddisfazioni economiche e morali. Eppure in questi anni si è verificata una riduzione delle tutele riconosciute al pari di un arretramento dello stesso diritto del lavoro.

 

Come si è avuto più volte modo di dire, è invece necessario recuperare questi valori, ricercando un nuovo modello sociale.

 

L’attualemodello - quellocon il pareggio di bilancio in Costituzione e con la finanza della deregulation che detta i ritmi del mercato mondiale - non riconosce e garantisce al lavoratore nulla di più se non un’esistenza appena dignitosa e comunque ai margini delle scelte politiche.

 

Occorre guardare a crescita e sviluppo, a politiche di investimento, piuttosto che farsi ingabbiare dalla crisi proponendo sempre più austerità. Sono indispensabili allora modelli sociali che, se non possono essere recuperati integralmente dal passato, anche recente, devono comunque individuare nel mondo del lavoro e nei lavoratori dei soggetti importanti, che hanno voce in capitolo e possono contribuire alla costruzione dell’edificio sociale più adeguato ai nostri giorni.

 

Paul Krugman[1] a riguardo scrive “Nello specifico, si tratta del fallimento della dottrina dell’austerità, che da due anni a questa parte predomina nel dibattito politico sia in Europa, sia, in buona misura, negli Stati Uniti… Mezzo secolo fa qualsiasi economista – o per quello che conta, qualsiasi studente di economia non ancora laureato che si fosse letto il libro di testo Economics di Paul Samuelson – avrebbe potuto assicurarvi che l’austerità in piena depressione è una pessima idea. Ma policy maker, grandi esperti e – mi duole dirlo – molti economisti hanno deciso in buona parte per ragioni prettamente politiche, di dimenticare ciò che erano soliti sapere. E milioni di lavoratori adesso pagano il conto della loro premeditata amnesia”.

 

Ecco questa amnesia va rimossa e, per tali ragioni, la crisi va combattutacon un nuovo sviluppo. Non è possibile che nove nuclei familiari su dieci non siano in grado di reggere uno chock economico imprevisto e che la decisione di avere un figlio sia oggi considerata un “fattore di vulnerabilità” finanziaria.

 

Bisogna che si recuperi nel nostro Paese la capacità di guardare lontano, oltre il contingente, con una nuova progettualità, in cui ogni persona si riconosca nella comunità come cittadino. Questa progettualità deve essere in grado di sostenere politiche alternative che contrastino le politiche recessive; partendo da alcune proposte:

- la prima, senza dubbio, è quella di ricreare una condizione di sviluppo produttivo che ridia fiato all’economia reale, a discapito di quella virtuale che tanti danni ha prodotto;

- la seconda, è accrescere il reddito e di conseguenza più potere di acquisto ai lavoratori ed ai pensionati, anche attraverso misure normative di riordino fiscale;

- la terza, è sostenere con adeguati ammortizzatori sociali le persone che rischiano sempre di più l’occupazione;

- la quarta, infine, è tentare di stabilizzare, anche gradualmente, i tanti contratti di lavoro flessibili introdotti come la panacea per il rilancio produttivo ed economico, che, oggi, con la crisi economica, rappresentano l’anello debole del mondo del lavoro.

 

Scriveva Luciano Gallino, citando Keynes in Le conseguenze economiche della Pace, in merito alle drastiche misure imposte ai tedeschi nel dopoguerra: “Keynes era rimasto colpito durante le trattative, cui aveva partecipato, dall’ottusa incapacità dei governanti delle potenze vincitrici di ragionare sulle conseguenze di misure che strappavano la sovranità economica a intere nazioni. I governanti di oggi non sembrano mostrare una maggiore lungimiranza di quelli di ieri[2]”.

 

Oggi, come ieri, servirebbe una nuova classe dirigente in grado di ripristinare una mediazione politica vera, che si contrapponga agli interessi economici e capace così di assicurare le garanzie di una democrazia partecipata e condivisa.

 

È, dunque, necessario un grande impegno anche culturale volto a ridare dignità al mondo del lavoro e a rigenerare una politica democratica, nella quale antichi valori possano essere riletti da ciascuno, secondo la propria ottica, con dialogo e tolleranza.

 

Bisogna ritrovare anche lo spirito della militanza e della mobilitazione collettiva, consapevoli del fatto che, se non si avvia questo cambiamento e se non si è disposti, dunque, a giocare una dura lotta contro il sistema neoliberista, allora, sarà impossibile modificare gli attuali disequilibri, ottenendo nulla di più che parzialissimi risultati.

 

Dobbiamo essere in grado di rivendicare la costruzione di un edificio sociale più solido e forte, dove vi sia spazio per tutti nonché rispetto delle regole e dei diritti, in particolare dei più deboli, che ora, invece, stanno di fatto finanziando la posizionedei più forti.

 

È tempo di focalizzare l’attenzione su cosa si può e si può fare oggi, a partire dalla politica e dalle forze sociali, di fronte agli eventi socioeconomici che hanno travolto il sistema politico nazionale e l’Europa. Sono personalmente convinto che se si riuscissero a colmare fino in fondo le differenze, che pure esistono tra loro, si potrebbe consentire di ripristinare i valori che sono alla base della storia di questo Paese – vale a dire democrazia, libertà, solidarietà, coesione e tolleranza - nella difficile partita che si sta giocando per recuperare i diritti dei lavoratori e del lavoro nel contesto sociale nazionale ed internazionale.

 

Si dovranno estendere i confini della cittadinanza sociale, in modo da assicurare una più ampia equità distributiva della ricchezza e dei servizi, col determinante riferimento al valore sociale del lavoratore. Bisogna individuare strategie per tornare ad avere, come parti sociali, un ruolo centrale, pur nel rispetto dei ruoli istituzionali, nella messa a punto delle politiche economiche del Paese e tali strategie devono essere strettamente connesse al modello di società che si vuole perseguire per contrastare questa situazione economica, sociale e politica.

 

Quindi, anche alla luce della ritrovata funzione della prevalenza dell’accordo sullo scontro, nasce l’opportunità di promuovere un’iniziativa tale da creare un nuovo rapporto con la politica; non solo per migliorare le condizioni socio-economiche dei lavoratori ma anche per tornare ad essere un punto di riferimento centrale nella gestione della vita pubblica del Paese, puntando soprattutto allo sviluppo per ridare lavoro, lavoro stabile e duraturo. In questo momento l’accordo che si ritiene più importante è un accordo ideale: dobbiamo ridare voce alla società e riprendere spazi che il mercato ha invaso prepotentemente. Il diritto del lavoro deve uscire dalla logica difensiva e riprendere una fase espansiva: l’amministrazione pubblica deve riacquistare dignità e valore di garanzia sociale; la politica deve tornare ad essere vissuta con la partecipazione dei cittadini, i quali devono sentirsi protagonisti dei cambiamenti e non vivere una condizione di ‘sudditanza’.

 

Non dobbiamo dimenticare che le conquiste sociali e le ampliate esigenze che chiamiamo diritti, sono veramente tali se non rimangono una affermazione puramente teorica e culturale.

 

Le stesse regole di un normale confronto in una società non debbono essere modificate con superficialità, come sta avvenendo. Per questo l’impegno a tutti i livelli non può che essere rivolto a ricercare soluzioni di dialogo, fra le diverse componenti sociali e politiche, e di partecipazione.

 

Quando si chiede di valorizzare il lavoro, non lo si fa per ragioni individualistiche bensì nell’ottica del riconoscimento del benessere collettivo. Valorizzare la persona, motivarne l’azione e darle la giusta dignità di lavoratore, significa infatti dare dignità al lavoro nel suo complesso, ossia anche alla produzione che di quel lavoro è il frutto.

 

Vorrei ricordare che negli anni ‘80, all’indomani di un conflitto molto accesso alla Fiat, sostenuto in particolare dal massimalismo politico e sindacale, si rese necessaria la marcia dei quarantamila per far capire che le cose erano cambiate e non bisognava restare rinchiusi nella ‘cittadella’ a difendere i confini di un terreno che non era più abitato dalla maggioranza dei lavoratori.

 

Tutti i soggetti sociali odierni dovrebbero riconsiderare con attenzione queste valutazioni, ancora valide, per interrogarsi su come uscire da una cultura dell’opposizione per riapprodare ad una del governo di processi.

 

Diritti contrattuali, stato sociale, partecipazione alle aziende, sviluppo e occupazione sono le basi su cui si deve ripartire per una “nuova” progettualità; per riacquisire consenso nella società ed evitare che si ripropongano situazioni unilaterali, frutto della sola logica economica.

 

Oggi la politica, le istituzioni e le forze sociali, da molti commentatori, sono dipinti in una fase di isolamento, al solo fine di delegittimarne l’azione e la funzione.

 

Parafrasando un libro di Garcia Marquez, “Cent’anni di solitudine[3]”, in cui si descrive un lungo viaggio di una famiglia e di un villaggio da una solitudine ad un’altra solitudine - dall’isolamento dell’ignoranza e dell’innocenza, all’isolamento della consapevolezza e dell’alienazione - così pure, oggi, queste rappresentanze - che pure hanno fatto un lungo viaggio pieno di travagli - se vogliono dimostrare di non essere più in questo stato di isolamento, ovvero di alienazione, devono tornare ad interpretare il ruolo, di soggetti indispensabili e insostituibili nella gestione di questa svolta politica.

 

Conseguentemente, devono saper riattualizzare i propri strumenti tradizionali e insieme, naturalmente, introdurne di nuovi per stimolare e ampliare la partecipazione ed il pluralismo che sono il fondamento di una società democratica.

 

Questa funzione non è quella di rappresentare limitati interessi corporativi e settoriali bensì avere come orizzonte di riferimento l’intero equilibrio socio-economico del Paese, che determina anche condizioni di inserimento e di partecipazione del lavoratore ma anche del cittadino. In questo scenario, si dovrà saper organizzare una politica coerente di recupero dell’attualità economica e, al tempo stesso, saper legare ad essa le emergenze strutturali che si sono determinate nella realtà occupazionale.

 

Non si può perdere l’orizzonte generale, poiché da esso deriverà il nuovo ruolo che si dovrà assumere se vogliamo far rialzare il Paese da questa sorta di morta gora.

 

Di fronte a questa situazione, se si vuole diventare protagonisti e propositivi, non si possono che rivendicare misure tese a mantenere la coesione sociale del Paese.

 

Per concludere, questa mia digressione non vuole fornire a tutti i costi soluzioni indefettibili, bensì suggerire alcuni spunti di riflessione per i tanti attori che si muovono nel mondo del lavoro. In particolare, per le forze sociali, chiamate a rilanciare le proprie proposte per rivendicare nuove scelte economiche, per rendere più democratico il nostro Paese e incamminarsi verso una società più giusta e più equa. Nello stesso tempo coinvolgere quanto più è possibile le persone, a cominciare dall’intellighentia di questo Paese, in un dibattito che faccia pensare e rendere l’azione collettiva.

 

Il Paese ha ancora bisogno di dibattito e di dialettica.

 

Va premiata una “Politica” aperta, che sia radicata nella società, profondamente democratica, che sia in grado di lanciare dibattiti politici e ideali che coinvolgono l’opinione pubblica, senza ricreare contrapposizioni che hanno contrassegnato per un lungo periodo la vita del Paese. Una Politica che dia spazio e libertà di azione a chi affronta e segue i problemi che interessano l’opinione pubblica: dall’ecologia allo sviluppo occupazionale, all’istruzione, alla sanità, all’assistenza, alla cultura, al turismo, all’aumento dei redditi per ampliare i consumi. Bisognerebbe sviluppare idee, elaborare progetti e raccogliere consensi, sulla base di una politica concreta che risolva situazioni e problemi.

 

Non si può più aspettare.

 

Le caratteristiche di un Paese, quasi in ginocchio, come traspare, dalle pagine del rapporto annuale dell’Istat, sono: crescita economica lenta; costante ampliamento del divario con il resto d’Europa; aumento della povertà, compresi ceti sociali finora mai toccati da tali problematiche; crescita del disagio e dell’esclusione sociale; oltre 2 milioni di giovani sotto i 30 anni che non studiano e non lavorano; inattivi che non cercano lavoro sempre di più in aumento; quasi un milione di donne escluse dal mercato del lavoro a causa della nascita di un figlio; un numero ancora altissimo di disoccupati nonostante le nuove assunzioni, specie al sud; 2 milioni di italiani con problemi di salute abbandonati a loro stessi. Inoltre, i dati sulle pensioni resi noti dall’Inps, anche recentemente, dimostrano l’enorme divario tra pensioni alte e pensioni da fame.

 

Tutto questo presuppone la necessità di un adeguamento delle regole e degli strumenti di politica economica. Purtroppo non ci si rende conto che il Paese non può più aspettare, bisogna immediatamente progettare, insieme a tutte le forze sociali, produttive ed economiche una strategia complessiva che ridia fiato all’economia. Sarebbe opportuno avviare un tavolo di confronto e di impegno politico, cioè un nuovo patto sociale per concertare una nuova fase di sviluppo che rilanci redditi e consumi.

 

Nel “nuovo patto sociale”, se si decidesse di avviare il confronto, bisognerebbe inserire anche misure di prospettiva quali: il lavoro, il diritto alla contrattazione, la partecipazione e il fisco. Partendo dal lavoro si può affermare che l’Unione Europea e i Paesi che vi aderiscono hanno bisogno di politiche che ridiano slancio e fiducia al settore produttivo e occupazionale per riconquistare un buon futuro per i suoi cittadini sempre più sfiduciati.

 

È necessaria una riforma della scuola, dell’università e della ricerca che permetta a questi settori di essere realmente aderenti alle esigenze della società in cui viviamo, i cui mutamenti sono profondi.

 

La giustizia deve essere più rapida e più efficiente, per ragioni di principio ma anche – per quanto riguarda il settore civile - per ragioni economiche.

 

Riformare la sanità è un’esigenza impellente e non tagliare, com’è stato fatto, in modo lineare, perché si sta distruggendo un tessuto connettivo che ha migliorato le condizioni di gran parte della cittadinanza.

 

Parlando di lavoro, l’articolo 36 della Costituzione stabilisce che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” e quindi per essere tale non può essere sempre e soltanto subordinata a una logica economica che tende al solo minimo per la sopravvivenza e che umilia le persone.

 

Un’economia basata sulla considerazione che il lavoro non è una merce da comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere generale molto impegnative.

 

In periodi di difficoltà economica, la parola d’ordine è sempre stata la riduzione del costo del lavoro. Un elevato costo del lavoro che è stato anche il risultato del drenaggio di risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente piuttosto che mirare a un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, che sono stati – secondo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese ma per il profitto di pochi.

 

In definitiva il lavoro è stato sacrificato a favore di altri tipi di interesse.

 

Il problema, quindi, è come ricostruire una prospettiva di sviluppo che favorisca nuova occupazione, vera e duratura; uno sviluppo che produca ricchezza e che la distribuisca in modo più equo e più giusto. È difficile che ciò possa avvenire senza che sia regolato, in termini di equità, il processo economico, perché la protesta rischia di superare anche le stesse rappresentanze.

 

Ritornando alla nostra Costituzione, l’articolo 1, che pure rappresentò un compromesso tra le diverse forze politiche, erge il lavoro a fondamento della società Italiana.

 

L’idea di “democrazia fondata sul lavoro” ci fa pensare il lavoro come uno strumento di liberazione individuale e di emancipazione personale all’interno di un condiviso interesse generale. Purtroppo per modificare i rapporti di lavoro si è modificato anche il diritto del lavoro.

 

Complementare è anche l’articolo 4 che impegna la Repubblica a rimuovere tutti gli ostacoli che rendano questo diritto non esigibile. Allora questo è il primo punto da cui si deve partire per rideterminare quella società giusta ed equa che è stata sempre nel patrimonio di tutto il mondo del lavoro. Infine, l’articolo 53, dove si stabilisce che: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Quanto si è discusso su questo tema ma alla fine siamo sempre al punto di partenza.

 

Una cosa è certa, la macchina fiscale può essere l’unico volano per riprendere gli investimenti e per rilanciare i consumi. È anche vero che un’altra preoccupazione deriva dal decentramento fiscale che ha aggravato enormemente le cose, aggiungendo la tassazione a livello locale e non sostituendo quella nazionale. Oggi, inoltre, si continua a porre il problema di riassorbire la disoccupazione, in particolare quella femminile e giovanile, che è gravissima nel Mezzogiorno per insufficienza della base produttiva. Una ricetta non può che esser un maggiore intervento dello Stato, sia nelle opere pubbliche sia nella realizzazione di infrastrutture, per creare nuovi posti di lavoro e favorire lo sviluppo. Questo significherebbe, ritrovare una politica in grado di rappresentare in modo efficace gruppi sociali che si riconoscono nella comunità, ne condividono la metodologia e gli obiettivi. Quanto sono state lontane, invece, le proposte delle attuali forze politiche e dei vari governi da questa impostazione. Eppure non bisogna perdere la speranza, ogni soggetto politico, sociale ed economico deve trovare la forza per ricostruire e non distruggere.

 

 

*In occasione del premio cultura Santa Barbara al libro Democrazia economia sindacato di Antonio Foccillo

 

 


[1] P. Krugman in un articolo dal titolo: Non si cura la crisi con l’austerità.

[2] L. Gallino, Quella miopia politica delle misure di austerità, articolo per La Repubblica 14.7.2011.

[3] G. G. Márquez, 2005, Cent'anni di solitudine (Cien años de soledad, 1967), traduzione di Enrico Cicogna, ed. Feltrinelli.